POUSSIN, Nicolas
– Nacque il 15 giugno 1594 in una famiglia della piccola nobiltà nei pressi di Les Andelys (Rouen), in Normandia, da Jean e da Marie de Laisement.
Il soggiorno del pittore Quentin Varin (1570 circa-1630) a Les Andelys determinò la sua vocazione e, nel 1612, Poussin diciottenne lasciò clandestinamente la casa familiare per imparare il mestiere della pittura a Parigi. Successero allora (dopo una formazione presso Ferdinand Elle o Georges Lallemant) anni poco documentati, durante i quali il pittore sembra aver operato fuori della capitale (le fonti letterarie lo ricordano nel Poitou, gli archivi a Lione). Dopo due tentativi falliti di raggiungere Roma, secondo le sue biografie (nel corso del primo viaggio sarebbe arrivato fino a Firenze, e Giulio Mancini afferma che egli conoscesse Venezia, 1617-1621 circa, 1956), Poussin probabilmente si stabilì a Parigi verso il 1622, dove intrattenne un’amicizia con Philippe de Champaigne. Ma le sue relazioni erano italiane: Jean de Gondi, il primo arcivescovo di Parigi, gli commissionò una tela per la cattedrale di Notre-Dame; i gesuiti gli fecero dipingere teloni per la canonizzazione dei loro santi nel 1623; e Giovan Battista Marino, il poeta della corte di Maria de’ Medici, gli diede amicizia e protezione. Riconoscendo la «furia del diavolo» del giovane artista, Marino lo incoraggiò a partire per Roma, dove lui stesso sarebbe rientrato di lì a poco.
I primi anni romani furono difficili soprattutto a seguito della partenza per Napoli, e poi della morte nel 1625, del poeta suo protettore, il quale aveva avuto tuttavia il tempo di farlo conoscere ai Barberini. Poussin non emerse allora nel novero dei pittori francesi più o meno legati all’Accademia di S. Luca, dominata da Simon Vouet, o tra i pittori che lavoravano per i mercanti di quadri. Nonostante tali difficoltà, egli dimostrò energia e ambizione: frequentò l’accademia del disegno di Domenichino, assisté alle dissezioni del chirurgo Nicolas Larcher e lesse il trattato del teatino Matteo Zaccolini sul colore.
Il periodo 1628-31 fu quello del riconoscimento nella Roma dei Barberini, ma pure, per l’artista, quello delle rinunce. Dopo un primo quadro, Il sacco del tempio di Gerusalemme (Gerusalemme, Israel Museum), pagato sessanta scudi dal cardinale Francesco Barberini nel febbraio 1626, il pittore ottenne la commissione di un dipinto in cui fece mostra di tutto il suo sapere antiquario e delle sue competenze pittoriche, la Morte di Germanico (Minneapolis, Institute of art), finito nel gennaio 1628. Gli fu allora affidata una pala d’altare per la basilica di S. Pietro, il Martirio di s. Erasmo (1628-29, Città del Vaticano, Musei Vaticani), che era stata prima richiesta a Pietro da Cortona, il pittore favorito del papa Urbano VIII. I paesaggi velocemente dipinti per i mercanti, con temi più o meno erotici, furono poco a poco sostituiti da quadri da collezione con temi illustranti il mito (Apollo e Fetonte, 1627-28, Berlino, Gemäldegalerie), la storia (la Peste di Azoth, 1630-31, Parigi, Museo del Louvre) o la poesia epica (Rinaldo e Armida, 1628-30, Londra, Dulwich Picture Gallery), o con baccanali pieni di richiami dotti, antichi o veneziani. Grazie alla protezione e poi all'amicizia di Cassiano dal Pozzo, Poussin fece parte del gruppo di giovani disegnatori che registrarono nel Museo cartaceo tutto il repertorio dell’antichità, dal mosaico del Nilo di Palestrina ai sarcofagi paleocristiani, e poté cosi dipingere un quadro che appare oggi come un manifesto della nuova poetica favorita dal papa e poeta Urbano VIII Barberini: L’ispirazione del poeta (1630 circa, Parigi, Museo del Louvre). Vincenzo Giustiniani, collezionista e grande conoscitore che aveva già sostenuto Caravaggio, Jusepe de Ribera e Bartolomeo Manfredi, e favorito gli allievi di Annibale Carracci, gli commissionò dei dipinti per la sua famosa galleria, tra i quali uno dei suoi primi grandi paesaggi (Paesaggio con Giunone, Io e Argo, 1634-36 circa, Berlino, Gemäldegalerie). Il gioielliere e mercante internazionale Fabrizio Valguarnera comprò le sue tele (L’impero di Flora, 1631, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister), e Poussin fu così uno dei più giovani partecipanti alla mitica mostra di dodici quadri commissionati dal re di Spagna Filippo IV organizzata da Diego Velázquez e narrata da Joachim von Sandrart (1675), al fianco del Cavaliere d’Arpino, di Guido Reni, del suo maestro Domenichino, di Giovanni Lanfranco e di Pietro da Cortona. Ma l’artista seppe pure rinunciare ai generi di pittura che erano allora i più considerati, la grande decorazione e la pala d’altare, e preferì, alla casa-impresa che fu probabilmente di Vouet o che stavano allestendo per loro Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona, una modesta casa-bottega, dove visse da sposato con Anne-Marie Dughet, ma senza eredi.
Poussin venne dunque ben accolto nel giro dei grandi collezionisti romani: oltre a Giustiniani, Giulio Rospigliosi, il futuro papa Clemente IX, gli fece dipingere 'poesie morali' (Il ballo della vita umana, 1634-36, Londra, Wallace Collection; Bellori, 1672, pp. 447 s.) che emulavano le famose 'poesie' di Tiziano dipinte per Filippo II. I protetti dei Barberini, il cardinale Angelo Giori e Gian Carlo Roscioli, lo stimolarono a dipingere, in diversi registri, exempla virtutis (La continenza di Scipione, 1640, Mosca, Museo Puškin) o ampi paesaggi biblici (Paesaggio con s. Matteo e l'angelo, 1640, Berlino, Gemäldegalerie; Paesaggio con s. Giovanni, 1640, Chicago, The Art Institute). Cassiano dal Pozzo fu un grande sostenitore della sua arte e gli commissionò una serie originale, i Sette sacramenti (1636-42), nella quale il pittore dimostrò la sua concezione della pittura. L’artista conquistò allora una reputazione internazionale: il re di Spagna Filippo IV ottenne da lui diverse opere, e, in seguito all’ambasciata a Roma di Charles II de Créquy, il cardinale di Richelieu gli ordinò dei baccanali per il suo castello, che dovevano inserirsi tra le pitture provenienti dal famoso studiolo di Isabella d’Este a Mantova. Era quindi logico che il pittore, rappresentante del nuovo corso della pittura romana, fosse chiamato in Francia, insieme ad Andrea Sacchi e a Pietro da Cortona, quando Richelieu volle restaurare le arti nel Regno. Poussin fece di tutto per non cedere ma, di nazionalità francese, non poté resistere agli ordini del suo re, che dovette tuttavia inviare un emissario speciale, Paul Fréart de Chantelou, per riportarlo in patria.
Il soggiorno francese (1640-42) cominciò fastosamente: Luigi XIII nominò Poussin suo 'primo pittore', e gli ordinò pale d’altare per le cappelle dei suoi castelli di Saint-Germain-en-Laye (L’istituzione dell’Eucarestia, 1641, Parigi, Museo del Louvre) e di Fontainebleau (opera non realizzata). Ma l’esperienza si trasformò velocemente in fallimento. Le pale d’altare (Il miracolo di s. Francesco Saverio, 1641-42, per il noviziato dei Gesuiti, Parigi, Museo del Louvre) mostrarono un artista dotto, ma poco adatto per questo tipo di pittura. Infatti dipingere la grande galleria del Louvre si rivelò al di là delle sue possibilità, sia per la difficoltà di concepire un progetto decorativo entro un’architettura monumentale, sia per la complessa organizzazione del cantiere. La diversità dei generi della committenza (arazzi, frontespizi librari) e la molteplicità delle richieste spesso contraddittorie scoraggiarono Poussin, che dovette per di più affrontare l’ostilità e le critiche del clan Vouet. Nel 1642, Poussin, con il pretesto di andare a prendere sua moglie, ritornò in Italia e non lasciò più Roma.
La morte di Richelieu (1642), seguita da quella di Luigi XIII (1643), le difficoltà della monarchia francese, alle prese con la potenza spagnola e con la Fronda, e lo scacco di Poussin a Parigi fecero sì che per vent’anni non ci fossero più rapporti tra il pittore e la corona francese. A Roma, il susseguirsi dei Pamphilj e dei Chigi sul soglio pontificio non impedì a Pietro da Cortona e a Bernini di servire i nuovi pontefici, ma la cerchia Barberini non aveva più un ruolo così importante. Cassiano dal Pozzo commissionò a Poussin soltanto due paesaggi (fra i quali un’impressionante meditazione sulla calma e la tempesta, Piramo e Tisbe, 1650-51, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut), e solo il cardinale Camillo Massimi continuò a stimolare l’artista, chiedendogli regolarmente opere, spesso legate al destino di Mosè (Mosè cambia in serpente la verga d’Aronne e Mosè calpesta la corona di Faraone, 1645 circa, Parigi, Museo del Louvre). Nella città eterna, il pittore dipinse in realtà per un numero ristretto di 'devoti' francesi (il mercante di seta e banchiere Jean Pointel, che ordinò non meno di ventitré pitture; Chantelou, che richiese una nuova serie dei Sette sacramenti e difese l’arte di Poussin nel salon della marchesa di Rambouillet o presso Jean-Baptiste Colbert) e illuminò così poco a poco «i ciechi», come lui stesso scrisse (Correspondance, 1911, p. 358).
È difficile valutare concretamente il ruolo di Poussin nella produzione artistica parigina degli anni Cinquanta del secolo, quando si affermava l’importanza di Charles Le Brun, ma è sicuro che alcuni letterati che cercavano di dare all’arte della pittura uno statuto liberale diffondevano la sua arte: Abraham Bosse lo cita nei suoi libelli paragonandolo a Raffaello, la cerchia di François Sublet de Noyers fece pubblicare un’edizione del trattato di Leonardo da Vinci con i suoi commenti, e Roland Fréart de Chambray pubblicò nel 1662 la sua Idée de la perfection de la peinture, nella quale l’opera di Poussin è considerata come un modello. A Roma, Poussin curò la sua reputazione di pittore filosofo, sostenuta da Bellori e dal cardinale Massimi. Un soggiorno romano che avrebbe potuto essere un esilio si trasformò così in un’aurea mediocritas volontariamente accettata e ricercata.
La curiosità per la pittura e l’interesse per il genere del paesaggio che si svilupparono intanto a Parigi stimolarono presto la ricezione parigina dell’artista 'romano'. La vendita della collezione Pointel (1660) fece raggiungere alle sue opere prezzi altissimi, e le richieste a suo favore si moltiplicarono, anche nell'ambito della nobiltà. Il sovrintendente Nicolas Fouquet gli ordinò di disegnare dei «termini» per ornare il suo castello di Vaux-le-Vicomte, e il duca di Richelieu riuscì ad acquistare non meno di tredici dipinti, che coprivano tutto l’iter stilistico dell’artista, tra i quali le Quattro stagioni (1660-64) e il testamento del pittore, il monumentale Apollo e Dafne (1664). Nel 1665 il giovane Luigi XIV s’impadronì di queste opere e Poussin diventò il primo artista della collezione reale, il nucleo fondante dell’odierno Museo del Louvre.
In quello stesso anno 1665 si spense a Roma, il 19 novembre.
Se Poussin ha affascinato e affascina così tanto la storia dell’arte del Novecento e del nuovo millennio, è perché è molto ben documentato, tanto da biografie quasi contemporanee (redatte da artisti o letterati che lo conobbero bene, come Mancini, Bellori, Sandrart, Félibien, Passeri), quanto dalla sua corrispondenza con due dei suoi più eminenti patroni (Cassiano dal Pozzo, Chantelou; Poussin, Correspondance, a cura di Ch. Jouanny, 1911), che presenta un artista vocato a 'pensare' la pittura. Inoltre, Poussin e la sua arte pongono tutti i problemi della pittura classica. L’artista ha dato due definizioni diverse della pittura, una assai tradizionale, che si riferisce al trattato i Torquato Tasso sulla poesia: «La pittura non è altro che l’imitazione delle azioni umane», con un giudizio relativamente severo sul colore («delle lusinghe del colore »), e che è conosciuta tramite Bellori (1672, 1976, I, pp. 460, 462); e un’altra, molto più 'moderna' e che insiste sul visibile: «La pittura è un’imitazione fatta con linee e colori, su una superficie piana, di tutto quello che si vede sotto il sole» (cit. in Félibien, 1685, p. 310). Questa riflessione sulla pittura si prolunga nell’oggetto quadro, la cui composizione è sempre elaborata, tramite disegni preparatori, come uno spazio per la storia, e il cui fine sono, il diletto e la meditazione. Un tale discorso classico non impedisce una presa in conto della scienza del lume e dell’ombra (Poussin usava, come Tintoretto, una scena in miniatura con aperture per fare giocare il lume) così come del colorito, del quale, come dimostra la sua teoria dei modi, egli ha sfruttato tutti i valori. Questa stessa apertura mentale e capacità critica si osservano nel suo rapporto con l’antichità. La mitologia, la storia antica, pagana o biblica (particolarmente quella di Mosè), si confonde quasi con tutto l’universo di Poussin, e quando l’artista vuole rappresentare i sacramenti cattolici, illustra delle scene dei primi tempi del cristianesimo. Il pittore ha ugualmente studiato le sculture antiche e rilevato le proporzioni delle più famose antichità (Bellori pubblicò nella sua vita una tavola con le proporzioni dell’Antinoo). Ma nelle sue opere la citazione non mediata dall’antico o la copia diretta è cosa rarissima. L’antico costituisce per Poussin un luogo immaginario, un progetto del presente nel passato. Nello stesso ordine d’idee, più che una religione precisa, è l’'ecclesia' nel senso di comunità, o il rapporto con il sacro, che interessa l’artista nelle sue pitture religiose, e che permette di elaborare visivamente tale sincretismo. L’arte è quindi per Poussin, come per Leonardo da Vinci, 'cosa mentale': le variazioni sul tema della Sacra Famiglia sono da un certo momento in poi quasi una ricerca di combinazioni di forme plastiche; la pittura è un linguaggio come sistema di valori (i modi) o di elementi plastici, che permettono di dimostrare il tempo calmo o la tempesta, ciò che non era nell’ordine del rappresentabile secondo Leonardo. Perché la pittura non è, secondo Poussin, un linguaggio puro, ma un sistema di segni secondo la Logique de Port-Royal («il segno contiene due idee: la prima, della cosa che rappresenta, la seconda della cosa rappresentata, e la sua natura consiste nello stimolare la prima dalla seconda»; 1662, Paris 1861, p. 39). Questa dialettica della pittura (Bätschmann, 1982) sostiene e nutre quindi una meditazione filosofica sul mondo: numerosi studi, iconografici e non, hanno voluto trovare un senso preciso nelle opere di Poussin (un panteismo fatto dell’armonia dei contrari, secondo Anthony Blunt, negli ultimi grandi dipinti), o una lezione morale di stoicismo, alla Montaigne.
Più che interrogarsi se il pittore sia francese o italiano, sono i rapporti e i modi d’appropriazione tra l’artista e i due Paesi che vanno considerati. I legami tra Poussin e la Francia furono ambigui. Nel 1648 la nuova Accademia parigina non fece ricorso al pittore, che sembrava aver vissuto un autentico scacco nel suo soggiorno francese del 1640-42. Ma nonostante questo, con l’avvento del regno di Luigi XIV, Poussin divenne il pittore della nazione, allorché il potere volle emanciparla artisticamente dall'influenza italiana. Colbert, tuttavia, comprese che le sue pitture, di grandezza mediocre (cm 180-200 x 120-160), non potevano fornire modelli visivi per la grande decorazione (dipinta o tessuta) che corrispondeva alla modernità voluta dal Gran Re, e Le Brun seppe guardare all’arte di Rubens per inventare un nuovo genere di pittura adatto alle necessità politiche dell’epoca, e liberarsi da una tutela troppo pesante. Le sue conferenze accademiche divennero così un modo per staccarsi da Poussin, il cui nome servì però sempre da porta-insegna.
Per quanto riguarda i rapporti tra Poussin e l’Italia sono ancora da studiare approfonditamente. Sicuramente l’artista era affezionato, come lui stesso scrive nelle sue lettere, al sole di Roma; Bellori ne dà l’immagine di un filosofo, discorrendo delle sue passeggiate sul Pincio, e Abraham Brueghel narra nel 1665 come avesse l’abitudine di bere un bicchiere di buon vino con i suoi amici Poussin e Claude Lorrain (lettera citata in V. Ruffo, Galleria Ruffo nel secolo XVIII in Messina in Bollettino d'arte, X (1916), pp.173 s.). Quasi subito dopo il suo arrivo a Roma nel 1624, il pittore sembra essersi voluto integrare nell'ambiente romano: rinunciò ai suoi vestiti francesi, sposò la figlia di un francese, ma nata a Roma, e non risulta che frequentasse la chiesa della nazione francese. Scoperte archivistiche recenti mostrano come egli abbia intensamente dipinto nei suoi primi anni per i mercanti d'arte, e ciò spiega il gran numero di quadri, dalla pennellata svelta, che gli sono adesso attribuiti per queste date. Negli anni Trenta, la corte dei Barberini, dai più vicini al papa come Roscioli fino ad artisti come Pietro da Cortona, senza dimenticare Cassiano dal Pozzo, costituì sicuramente per l’artista un ambiente stimolante, nel quale egli fu riconosciuto e grazie al quale egli poté elaborare la propria poetica pittorica e le riflessioni sulla propria arte. Dopo il suo ritorno da Parigi, la corrispondenza con Chantelou fornisce quasi soltanto nomi francesi, ma l’ammirazione di Bellori o del cardinale Massimi riuscì a dare al pittore abbastanza fiducia in sé stesso per lanciarsi alla conquista del mercato parigino, e la costanza di un legame forte con la città eterna.
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