Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nicola Pisano è considerato l’artefice del rinnovamento del linguaggio plastico italiano “attuato in Toscana e con un sensibile anticipo sulla rivoluzione artistica [ ] compiuta da Giotto alla fine del secolo” (F. Negri Arnoldi). Formatosi presso i cantieri imperiali di Federico II in Puglia, Nicola giunge in Toscana dopo avere fatto tesoro delle esperienze del nuovo classicismo meridionale, che arricchisce attraverso lo studio diretto delle antichità romane presenti a Pisa, dove risiede. Coinvolto in numerose imprese che lo vedono attivo, oltre che a Pisa, a Siena e a Perugia, l’artista innesta sulla precoce vena classica il “vitalistico naturalismo” della scultura gotica europea, aprendo nuovi orizzonti per la civiltà figurativa italiana.
Quando nel 1260 lo scultore Nicola Pisano appone orgogliosamente la sua firma sul pulpito del Battistero di Pisa (““Nell’anno milleduecentosessanta Nicola Pisano scolpì questa opera insigne. Lodata sia degnamente la sua espertissima mano””), il primo dei grandi complessi da lui eseguiti, ha già alle spalle una lunga carriera che lo ha portato a lavorare presso alcuni dei più importanti centri della Toscana. Infatti, nonostante i documenti e i caratteri stilistici delle sue opere suggeriscano inequivocabilmente la sua origine pugliese (nel 1266 è denominato “Nichola Pietri de Apulia”), egli si proclama nell’iscrizione “Pisanus”, a indicare una radicata appartenenza alla comunità di questa città. Il suo arrivo dalla Puglia deve pertanto risalire a molti anni prima, e avviene probabilmente al seguito di quelle maestranze che, attive nei cantieri imperiali del Mezzogiorno, giungono a Prato poco dopo il 1240 per costruirvi un castello, estrema testimonianza della “grande utopia politica e del disegno culturale” dell’imperatore Federico II, desideroso di legare a sé alcuni centri della Toscana ghibellina. Il che è già di per sé un segnale della precoce diffusione in Italia centrale degli elementi più innovativi della cultura federiciana, cui fanno riferimento le opere più antiche di Nicola, a iniziare dalle protomi animali della Fonte dei Canali di Piombino, datate 1247, connotate da un’aulica rievocazione classica.
Il trasferimento al nord di Nicola “de Apulia” non avviene pertanto in conseguenza della chiusura dei più importanti cantieri imperiali, ma rientra nella complessa operazione di propaganda politica e ideologica voluta dal sovrano svevo, che mira, nella rievocazione della grandezza antica, a restituire l’immagine del potere imperiale secondo gli esiti più moderni. Rispetto al classicismo usato dagli artisti dell’officina di Capua, il giovane Nicola, ancora in patria, sembra attratto dalle scelte gotiche e moderne offerte dai cantieri della Puglia, aperti agli esempi del “gotico classicizzante” francese e tedesco. L’influenza si coglie nelle teste, caratterizzate anche nella definizione delle razza, che fungono da mensole del triforio e della cupola della cattedrale di Siena, testimonianza della prima maturità dello scultore. È proprio a Siena che ha luogo il primo soggiorno in terra toscana di Nicola, forse coinvolto fin dal 1245 nelle varie fasi di costruzione della cupola del duomo, la cui fabbrica risulta dipendere dai monaci cistercensi della chiesa di San Galgano, centro propagatore delle forme architettoniche cistercensi e federiciane.
Dopo l’esperienza presso il Duomo di Siena, che ne consolida la fama anche come architetto, l’artista viene chiamato a Pisa a dirigere il cantiere del Battistero, per cui realizza fra l’altro il pulpito monumentale, portato a termine nel 1259-1260 dopo quattro anni di lavoro. Si tratta di un’opera fondamentale nel panorama della scultura duecentesca europea, che segna la piena maturazione dello stile di Nicola. Lo scultore dà vita a un “poema” figurale denso e articolato, ““capace di esprimere complessi contenuti emozionali, morali e teologici”” (Arturo Calzona), ma al tempo stesso anche di imporre, attraverso il recupero di modelli classici ricontestualizzati, una rappresentazione naturalistica e organica dell’uomo. Il pulpito pisano si discosta da quelli costruiti fin ad allora in Toscana e in Italia meridionale, presentandosi non più addossato a una parete ma libero nello spazio come un’architettura a sé stante, connotata da più elementi che le conferiscono un aspetto estremamente dinamico, di sapore gotico.
Nell’accostarsi agli esempi precedenti Nicola ne reinventa la struttura, concepita a pianta esagonale su tre registri: la cassa, decorata da rilievi cristologici, è sorretta da arcatelle trilobate che, a loro volta, sono sostenute da colonne di pietre e marmi diversi con capitelli decorati da un motivo di foglie, rette da leoni e, al centro, da personaggi e animali grotteschi. Altrettanto innovativo risulta il programma iconografico, incentrato, come in altri pulpiti dei Pisano, sulla storia della salvazione, cui fanno esplicito riferimento sia i cinque rilievi della cassa sia le sculture della parte mediana, mentre le rappresentazioni mostruose e i leoni della base alludono allo stato peccaminoso dell’uomo. Compaiono qui per la prima volta in un pulpito alcuni temi centrali della spiritualità duecentesca, in particolar modo francescana, quali la Crocifissione e il Giudizio Finale , preceduti dalla scena della Presentazione al Tempio, che assume un’importanza cruciale all’interno della sequenza. Sono proprio le cinque specchiature figurate a connotare l’insieme della composizione, non più suddivisa da riquadrature orizzontali come negli esempi più antichi, ma da scene monumentali che occupano l’intero campo, quasi a superare i limiti imposti dalle incorniciature architettoniche in marmo rosso, suggerendo una maggiore continuità narrativa.
Tutti i rilievi appaiono saldamente e rigorosamente costruiti, evidenziando un pieno dominio nella resa della figura umana, ripensata sui modelli della statuaria romana antica, di cui Pisa conservava svariati esempi, riproposti da Nicola. Non si tratta di semplici citazioni, ma di un approccio nuovo e motivato alla grandezza antica e alle sue potenzialità espressive e formali, calate dall’artista entro un contesto di verità. Ciò documenta l’incontro con i grandi esempi del gotico d’oltralpe, da Nicolas de Verdun ai maestri francesi di inizio Duecento. Così dai più antichi rilievi eseguiti, quali l’ Adorazione dei Magi , la Natività e la Presentazione al Tempio, ricchi di rimandi classici e bizantini, si passa agli ultimi due, nei quali lo stile di Nicola mostra una maggiore sensibilità gotica.
Quanto si coglie nelle ultime formelle del pulpito pisano trova piena maturazione nel successivo pergamo del Duomo di Siena, per la cui realizzazione Nicola stipula un contratto il 29 settembre 1265 con il converso cistercense Fra Melano, operaio dell’opera del Duomo. In questo caso la presenza di aiuti, probabilmente già all’opera nel pulpito precedente, è attestato dai documenti che citano i nomi di quattro allievi, tra cui il figlio Giovanni, Arnolfo di Cambio, Lapo e Donato.
Questo nuovo complesso si presenta profondamente diverso rispetto al pulpito di Pisa, da cui tuttavia deriva, sia pure in una versione arricchita, la struttura. Ciò non impedisce al maestro di ricercare soluzioni innovative, come dimostra il passaggio alla forma ottagonale per la vasca, i cui rilievi non sono più intervallati da elementi architettonici ma da veri e propri gruppi plastici, rendendo così la narrazione delle scene continua come in un fregio. Anche il repertorio iconografico si arricchisce di scene e figure, tra cui le Virtù e, alla base della colonna centrale, le Arti Liberali, che sostituiscono la pessimistica visione del pulpito pisano, dove figure grottesche simboleggiavano il peccato. Seguendo una soluzione già in atto negli ultimi rilievi del pergamo di Pisa, le varie scene, diminuite di scala, si fanno più gremite di personaggi, che si animano plasticamente in un susseguirsi di elementi e notazioni realistiche. Al di là del sostrato culturale classico, il linguaggio si palesa pienamente gotico. I lavori del pulpito risultano conclusi entro il 1268.
Nel 1267 le spoglie di san Domenico erano state tumulate nell’omonima chiesa bolognese entro il nuovo solenne monumento marmoreo, realizzato a partire dal 1264 da Nicola e dalla sua bottega per volontà forse del maestro generale dell’ordine, il beato Giovanni da Vercelli. Come nel coevo pulpito di Siena si riscontra anche qui l’intervento di più scultori, tra cui lo stesso Arnolfo e il converso domenicano fra Guglielmo da Pisa, quest’ultimo forse attivo a fianco del maestro fin dai tempi del pulpito del battistero pisano. Spetta comunque a Nicola l’idea originalissima di questa nuova struttura monumentale, naturale evoluzione delle casse-reliquiario realizzate dagli orefici del Nord Europa, di cui l’arca bolognese cerca di restituire la preziosità. Prima dei rifacimenti e delle integrazioni successive (da Nicolò dell’Arca; a Michelangelo; ad Alfonso Lombardo), l’arca, originariamente posta di fronte al tramezzo, si presentava come un sarcofago scolpito di chiare reminiscenze classiche, sorretto da vari supporti figurati (due sono stati individuati presso il Museum of Fine Arts di Boston e il Museo Nazionale del Bargello di Firenze). Lungo i lati dell’arca si dispongono sei rilievi raffiguranti varie episodi della vita di san Domenico, fiancheggiati da figure scolpite che intervallano, come nel pulpito senese, la sequenza delle scene. Anche dal punto di vista stilistico e compositivo i rilievi dell’arca si avvicinano a quelli senesi, con cui condividono quella maturazione in senso più propriamente gotico, che a Bologna ha modo di esprimersi nel gusto spettacolare di certe scene affollatissime.
Quasi dieci anni separano l’impresa del pergamo del Duomo di Siena dall’ultima opera documentata di Nicola: la grande fontana della piazza di Perugia portata a termine, come riporta l’iscrizione, insieme al figlio Giovanni nel 1278. Qui, oltre al nome dei due scultori, compare anche quello del perugino fra Bevignate, identificato come “operis structur et per omnia ductur ””, e pertanto ritenuto da alcuni il vero responsabile del progetto. Questo rivela tuttavia affinità con certe parti dei pulpiti di Pisa e di Siena. È quindi probabile che l’ideazione architettonica della fontana possa spettare in realtà allo stesso Nicola, in larga misura coadiuvato per la parte scultorea dal figlio Giovanni, cui spettano la maggior parte dei rilievi.
Evidente è l’intento celebrativo del progetto, che oltre a sottolineare la funzione della fonte, si fa simbolo dell’orgoglio civico della città, espresso attraverso un complesso programma iconografico. La fonte appare costituita da due vasche poligonali sovrapposte di cui quella inferiore, di maggiori dimensioni, è decorata con rilievi ispirati alla storia dell’umanità e all’attività dell’uomo (Storie di Adamo ed Eva e Storie di Sansone, i Dodici Mesi, le Sette Arti Liberali, la Filosofia, il Leone guelfo, il Grifo perugino). Il programma iconografico della vasca mediana invece, decorata da ventiquattro sculture che si alternano alle specchiature in marmo rosso, appare legato alla dimensione locale, con l’intento di istituire un parallelo tra la storia dell’umanità e quella della città, evocata non solo attraverso le raffigurazioni dei santi locali o del mitico fondatore Euliste, ma anche di personaggi contemporanei quali il podestà Ermanno da Sassoferrato o il capitano del popolo Matteo da Correggio. Non sempre risulta agevole distinguere in questi rilievi la mano dei due diversi autori, anche se talvolta, nelle formelle della vasca inferiore, l’ardita ricerca di una spazialità ottenuta nel rapporto tra fondo e superficie sembra fare pensare all’intervento diretto di Nicola. È questo l’ultimo insegnamento trasmesso dall’artista, che aveva aperto la strada agli esiti dell’arte gotica che, di lì a poco, vedrà nascere l’astro di Giotto.
In un documento del 13 marzo 1284 Nicola risulta essere già morto.