PERROTTI, Nicola
PERROTTI, Nicola. – Nacque a Penne, in provincia di Pescara, il 22 dicembre 1897 da Massimantonio e da Emilia Rasetti.
Nel 1919, dopo aver preso congedo dal servizio militare, svolto senza essere stato in zona di guerra, si iscrisse al Partito socialista inaugurando la sua militanza politica. Nel 1920 Perrotti fu eletto consigliere comunale a Penne e nel 1921 ne divenne sindaco. Nel 1922, quando da un anno si era laureato in medicina a Roma, aderì al Partito socialista unitario e nel 1924 si candidò alle elezioni politiche. Controllato e pedinato dalla polizia, fu inserito, come militante socialista, nell’elenco dei sovversivi.
Le carte della polizia fascista raccontano che nella seconda metà degli anni Venti Perrotti si spostava frequentemente fra Penne e Roma, dove risiedevano i suoi suoceri e dove la moglie, Irma Merloni, che era figlia del deputato socialista Giovanni, e i figli (Massimo, nato nel 1925, Paolo, nato nel 1926, e Daisy, nata nel 1928) trascorrevano i mesi invernali.
Alla fine del decennio modificò il suo orientamento politico: nel 1929 si iscrisse al sindacato fascista degli agricoltori e a quello dei medici e dal 1930 iniziò a collaborare con alcune riviste fasciste, come comunicò la prefettura di Pescara nel 1932 alla solerte polizia politica che lo cancellò dall’elenco dei sovversivi e così lo descrisse: «Dal 1926 e precisamente da quando fu sciolto il partito socialista unitario mutò convinzioni, e dal 1928, incominciò a manifestare apertamente simpatie per il fascismo, inscrivendosi ai sindacati, all’O.N.B. [Opera Nazionale Balilla, ndr] per i figli. Segue le direttive del regime partecipando alla battaglia del grano, per cui meritò per due anni consecutivi i primi premi, e dando sempre il suo contributo per opere assistenziali. Ha manifestato inoltre tale sua favorevole attività anche nel campo scientifico fondando la rivista Il Saggiatore, e scrivendo articoli su Lavoro fascista su Critica fascista e su altre riviste. Recentemente fu all’estero per partecipare al congresso internazionale di psicoanalisi. In questi ultimi mesi poi ha dato sicura prova di ravvedimento per la sua condotta e per il suo tenore di vita in perfetta armonia con le leggi del regime» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 3877).
Fra le attività indicate dalla polizia, a riprova del suo cambiamento, la più importante fu la fondazione de Il Saggiatore, una rivista di critica, filosofia e politica, nata a Roma nel 1930 su cui Perrotti, membro del comitato direttivo, scrisse costantemente fino al 1933 quando la testata dovette chiudere le pubblicazioni. Fortemente critici rispetto alla filosofia di Benedetto Croce, ma soprattutto a quella di Giovanni Gentile accusato di egemonizzare la cultura fascista, Perrotti e i giovani de Il Saggiatore erano convinti che l’idealismo rappresentasse l’ultima grande filosofia della civiltà occidentale, ma che fosse del tutto inadeguato a svolgere una funzione sociale e politica. Con questa certezza, e persuasi di poter svolgere un ruolo attivo nella cultura del loro tempo, nel 1932 lanciarono un’inchiesta sulle diverse generazioni che coinvolse le firme più note del dibattito pubblico degli anni Trenta e rimbalzò sulle pagine delle principali riviste culturali dell’epoca; nel 1933 realizzarono una seconda indagine sulla definizione di nuova cultura. Nelle conclusioni della prima inchiesta, i giovani intellettuali de Il Saggiatore spiegarono che l’unica generazione «sinceramente rivoluzionaria» era quella che non aveva vincoli con il passato: una generazione antigentiliana, «sinceramente fascista», espressione del «realismo scientifico», della «volontà collettiva», del rifiuto dell’individualismo e «della lotta contro le ideologie umanitaristiche e comunistiche» (Tarquini, 2009, p. 172). E in effetti, proprio su questi temi ben sintetizzati dalla rivista, avvenne l’adesione di molti giovani italiani al fascismo. Si trattava, dunque, di un gruppo di giovani intellettuali convinti che ci si dovesse staccare da un passato, rispetto al quale si sentivano estranei, e dalla convinzione che il nuovo Stato fascista consentisse di identificare intellettuali e classe dirigente. In questo senso, nella seconda inchiesta, a cui parteciparono quasi sessanta scrittori, i giovani collaboratori delinearono i contorni della nuova cultura: una cultura che avrebbe rotto con le idee e l’arte del periodo liberale, inadeguate ad affrontare i problemi gravi e urgenti della modernità, e si sarebbe allineata «agli imperativi egualitari, economici e sociali del corporativismo fascista» (Ben-Ghiat, 2000, pp. 169, 175).
In sintonia con l’orientamento culturale del periodico che aveva contribuito a fondare, Perrotti, che non scrisse mai articoli di natura direttamente politica, diede il proprio apporto all’elaborazione di una cultura antintellettualistica, antidealistica, pragmatista, realistica e decisamente moderna e diffuse sulle pagine de Il Saggiatore la psicoanalisi: la disciplina che avrebbe caratterizzato il suo percorso biografico e intellettuale, ancora scarsamente diffusa in Italia.
All’inizio degli anni Venti, Perrotti era entrato in contatto con il triestino Edoardo Weiss, allievo e seguace di Freud. Da allora aveva considerato la psicoanalisi come uno strumento di indagine dell’individuo, ma anche come un mezzo di azione sociale. Per questo si impegnò nella diffusione delle teorie freudiane che non mancarono di suscitare dure reazioni da parte di molti intellettuali italiani (David, 1966, pp. 198-206).
Nel gennaio del 1932 sulle pagine della rivista di Croce, La Critica, Guido De Ruggiero aveva rilevato la scarsa coerenza concettuale della definizione di inconscio, sostenendo che ogni fatto psichico di cui è possibile parlare, ogni oggetto di ricerca e di riflessione, non è inconscio perché attiene alla coscienza, e quindi a una sfera razionale della soggettività. Perrotti rispose che l’inconscio psicoanalitico non era una realtà fisiologica, né una dimensione degradata della razionalità, ma un’istanza dell’Io che era possibile conoscere grazie all’osservazione empirica e quindi all’analisi sperimentale (Zapperi, 2013, p. 102). In realtà, secondo Perrotti, gli intellettuali come De Ruggiero mostravano che l’uomo moderno aveva rinunciato alla propria creatività per celebrare il totale trionfo e predominio della scienza; per assicurarsi un controllo sulla realtà, che lo avrebbe portato al distacco dal centro della vita in un luogo in cui la razionalità avrebbe assorbito, fagocitato e consumato la vita delle emozioni, e in cui la funzione critica degli individui sarebbe degenerata in un delirio razionalistico (Polemiche psicoanalitiche con museo di errori di G. De Ruggiero, in Il Saggiatore, febbraio 1932, pp. 496-502; Il trionfo dell’insufficienza. Risposta a Guido De Ruggiero, ibid., maggio 1932, pp. 139-143).
Con questa fiducia nelle teorie freudiane partecipò alla nascita della Società psicoanalitica italiana, che era stata fondata nominalmente nel 1925 a Teramo da Marco Levi Bianchini, ed ebbe effettiva costituzione nel 1932 nella casa romana di Weiss. Con lui e con Emilio Servadio, Perrotti diede vita alla Rivista italiana di psicoanalisi, che ospitò la sua prima pubblicazione di carattere scientifico dedicata a La suggestione (1932, n. 1, pp. 41-49) e fu tra i fondatori della collana editoriale Biblioteca psicoanalitica internazionale nella quale apparvero le prime traduzioni italiane delle opere di Freud e gli scritti a lui dedicati.
Come è stato ricordato, si trattò di una breve esperienza perché la proposta psicoanalitica venne condannata dal regime fascista che stigmatizzò il pessimismo freudiano in nome dell’ottimismo volontaristico e non tollerò la prossimità fra la malattia e la normalità (Veggetti Finzi, 1986, p. 256). Di fatto, nel 1934 la rivista fu soppressa e nel 1938 fu sciolta la Società psicoanalitica, che poté tornare in attività solo dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Con la caduta del fascismo, Perrotti, che non commentò mai la propria partecipazione ad alcune delle iniziative culturali e politiche del regime mussoliniano, divenne uno dei personaggi di primo piano della politica democratica e antifascista: partecipò alla rifondazione del Partito socialista italiano (PSI) e fu fra i promotori del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Pescara; membro della Consulta, dal 1945 fu nominato alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica; nel 1948 venne eletto deputato nelle liste del PSI e, soprattutto, nel 1946 fu tra i fondatori della nuova Società psicoanalitica italiana, che diresse fino al 1951. Mentre l’impegno politico nazionale durò solo fino al 1953, perché alla fine della prima legislatura Perrotti non si ricandidò alle elezioni politiche, da allora l’attività di psicoanalista segnò la sua vita di medico e di studioso.
Nel 1948 divenne direttore della rivista Psiche. Su quelle pagine condusse un’intensa attività di divulgazione e di organizzazione: fu promotore dei congressi degli psicoanalisti di lingue romanze, ebbe un ruolo di rilievo in seno all’associazione psicoanalitica internazionale e, soprattutto, cercò di rivolgersi a un pubblico di non specialisti e di analizzare fenomeni di ordine politico e sociale con gli strumenti e i principi della psicoanalisi. Portando nella cultura italiana contributi di autori che all’epoca non erano conosciuti, ospitò sulla rivista analisti come Donald Winnicott, insieme a lavori di psicoanalisi applicata alla realtà sociale.
Nel 1952 Perrotti fondò l’Istituto di psicoanalisi di Roma realizzando una vera e propria scuola per generazioni di psicoterapeuti. Fin dagli esordi l’Istituto ebbe una forte impronta clinica mutuata dalla formazione medica dei suoi componenti e mostrò una profonda attenzione al sociale e al confronto con i più importanti analisti stranieri. In realtà, con l’inizio dell’attività didattica diretta alla preparazione degli aspiranti psicoanalisti, all’inizio degli anni Sessanta nacquero i primi contrasti all’interno della psicoanalisi italiana che sancirono la costituzione di altri due gruppi: l’Istituto del centro psicoanalitico di Roma, fondato nel 1962 da Servadio, e il Centro di psicoanalisi milanese presieduto dal 1963 da Cesare Musatti, che si aggiunsero all’Istituto romano diretto da Perrotti.
In quegli anni si occupò di problemi centrali per il dibattito teorico e la clinica psicoanalitica: l’istinto di morte e l’angoscia dell’uomo moderno; l’alienazione psichica e sociale; le minacce provenienti dalla suggestione e dai fenomeni collettivi; e soprattutto l’aggressività. Nel 1951 pubblicò su Psiche un breve saggio, tratto dall’intervento che presentò al II Congresso della Società psicanalitica italiana del 1950 dedicato all’aggressività, che integrava i principi della psicoanalisi tradizionale con le riflessioni di Melanie Klein e Anna Freud.
Perrotti partiva da Freud e dall’idea che l’Io lotta contro le sue «tendenze istintive primarie e per difendersi da queste spinte istintive, e dai conflitti che ne risultano, costruisce le sue difese» (L’aggressività umana, in Psiche, IV (1951), p. 87) e si soffermava sulla fase preedipica, sui primi sei mesi di vita, «quando il neonato esprime sensazioni generiche ed elementari» per studiare i meccanismi che preludono al formarsi del Super-Io, dell’Io e dei primi conflitti. Con uno stile chiaro e decisamente poco accademico, spiegava che l’aggressività non era riconducibile alla sola frustrazione: si trattava di un istinto «primordiale, irriducibile, cieco», «un potenziale elettrico di cui è carico il rivestimento dell’essere vivente, pronto a sprizzare scintille ed a scaricarsi attraverso qualche punta offertagli dal mondo esteriore» anche indipendentemente da quello sessuale. «Orbene, dal momento che consideriamo tutti e due gli istinti primari, quello erotico e quello aggressivo, come istinti di vita, nulla vieta di considerarli come una differenziazione di un istinto di vita» (p. 99). In questo senso, concludeva Perrotti, i nostri atteggiamenti originari nei confronti del mondo sono ostili e solo in un secondo tempo vengono bilanciati da attaccamenti affettivi.
Negli anni successivi Perrotti studiò le dinamiche dell’intelligenza, del linguaggio, della responsabilità e della struttura dell’Io, dei meccanismi di difesa, della funzione del principio di realtà, dei rapporti fra l’Io e il Sé, delle identificazioni necessarie al costituirsi dell’identità personale. Come notava Musatti, sulla sua riflessione influì la sua esperienza di medico e le indagini che fece sulle forme che implicano la partecipazione di processi organici e di processi di carattere psichico, quelli che nella letteratura corrente si raccolgono sotto il nome di medicina psicosomatica (Musatti, 1970, p. 18).
Perrotti si occupò dunque di temi che saranno alla base delle iniziative di igiene mentale e di servizio sociale degli anni Settanta e li studiò in un’epoca in cui le conseguenze della repressione manicomiale e di una psichiatria di tipo organicista erano denunciate ancora solo sporadicamente.
Morì a Roma il 7 settembre 1970.
Una raccolta di suoi scritti è stata pubblicata postuma, con il titolo L’Io legato e la libertà (Roma 1989).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 3877; per la carriera parlamentare si veda il fascicolo pubblicato sul sito della Camera dei deputati all’URL http://storia.camera.it/ deputato/nicola-perrotti-18971222#nav (12 gen-naio 2015).
La bibliografia delle opere di Perrotti è In memoria di N. P., numero speciale di Psiche, VII (1970), 3, utile strumento anche per ricostruirne la vita e l’opera. M. David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino 1966, pp. 198-207, 279-281; C. Musatti, Commemorazione di N. P. all’Università di Roma, in Psiche, VII (1970), 3, pp. 15-19; L. Mangoni, Il fascismo, in Letteratura Italiana, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 538-541; M. Sechi, Il mito della nuova cultura. Giovani, realismo e politica negli anni Trenta, Bari 1984, pp. 65-70; S. Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Milano 1986, pp. 256-258; L’Italia nella psicoanalisi, Roma 1989, pp. 127-131; E. Servadio, Dall’ipnosi alla psicoanalisi, intervista a cura di G. Errera, Firenze 1990, p. 38; R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna 2000, pp. 169-175; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009, pp. 171-175; R. Zapperi, Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il regime fascista, Roma 2013, pp. 101-102, 123-124.