PARISIO, Nicola
– Nacque a Napoli il 25 agosto 1781 da Camillo e Marianna Rossi, originari di Celico, in Calabria Citra. Alcuni suoi antenati si erano distinti nella giurisprudenza e nelle carriere ecclesiastica e militare. Un suo fratello, Luigi Maria, abbracciò la vita religiosa fino a divenire vescovo di Gaeta.
Studiò presso i barnabiti, dove apprese le lettere italiane e latine e i fondamenti della filosofia e delle scienze naturali; quindi intraprese lo studio del diritto sotto la guida di Marino Graziano. Negli anni tumultuosi della Repubblica napoletana e della prima restaurazione si tenne lontano dalla vita politica, dedicandosi agli studi e alle pratiche devozionali, testimonianza di una salda fede religiosa che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Nel 1819 s’iscrisse all’Arciconfraternita della Santissima Trinità del reale albergo dei pellegrini e convalescenti di Napoli.
Nel 1806, al tempo della seconda venuta dei francesi, che avrebbe apportato fondamentali novità istituzionali e legislative, Parisio mosse i primi passi nel foro napoletano. In veste di patrocinatore di una causa dinanzi alla Commissione feudale, fu notato dal procuratore generale della Commissione, Davide Winspeare, il cui favore ne propiziò l’accesso alla magistratura. Il 20 marzo, su proposta del ministro Giuseppe Zurlo, fu nominato giudice del Tribunale di prima istanza di Napoli, di cui nell’aprile 1812 divenne vicepresidente; il 12 luglio 1817 ottenne la nomina a giudice della Gran Corte criminale e fu destinato alla presidenza del Tribunale civile di Napoli; il 7 marzo 1820 fu designato giudice soprannumerario della Gran Corte civile di Napoli, di cui dall’11 giugno fu giudice ordinario.
Non fu coinvolto nei moti costituzionali del 1820-21, che invece comportarono la prigione, l’esilio o la fine della carriera per molti di coloro che vi avevano preso parte. Il percorso professionale di Parisio continuò a essere in ascesa. Il 24 giugno 1824 fu promosso regio procuratore generale sostituto della Gran Corte civile, il 27 dicembre passò alla Suprema Corte come consigliere soprannumerario, quindi divenne consigliere ordinario il 31 ottobre dell’anno successivo. Pochi anni prima, il 23 maggio 1823, aveva sposato Maria Lutugarda D’Onofrio, di diciannove anni più giovane, dalla quale avrebbe avuto quattro figli: Luigi (che entrò pure in magistratura), Raffaele, Teresa e Amalia.
Parisio non diede alle stampe alcun saggio o trattato, sebbene fosse riconosciuto da molti come valente e dotto giureconsulto, fama che gli valse la prestigiosa nomina a membro della Consulta «per i Reali domini di qua dal Faro» il 3 marzo 1827. In tale veste prese parte ai dibattiti che, tra gli anni Venti e Trenta, furono suscitati dalle proposte di riforma dei codici: in particolare, intervenne con decisione nelle discussioni sulla riforma del diritto commerciale napoletano, opponendosi alla proposta avanzata dal consultore Gennaro Bammacaro che mirava all’ampliamento della giurisdizione dei tribunali di commercio a scapito di quella ordinaria.
In veste di consultore di Stato, inoltre, all’inizio del 1831 indirizzò al nuovo re Ferdinando II una memoria manoscritta sulle competenze della Consulta e sui suoi rapporti con i vertici dell’amministrazione. Il breve testo era teso a sostenere una visione restrittiva delle prerogative di quell’organo, istituito nel 1824 in ottemperanza alle risoluzioni del convegno di Lubiana del 1821: contro quanti, ispirati da ideali liberali e costituzionali, intendevano farne un organo capace di temperare il potere assoluto del sovrano e di rappresentare la società civile, Parisio sosteneva che alla Consulta non dovesse essere attribuita alcuna potestà sugli organi amministrativi e che le si dovessero riconoscere compiti puramente consultivi: la si doveva interpellare quando la «prudenza governativa vuol mostrare che niuna veduta sia stata omessa per procurar la pubblica utilità, ch’è il più che possan tollerare di popolarità i Governi Monarchici» (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, b. 1115, II parte, c. 949). Lo scritto denota l’adesione a una visione assolutistica del potere regio, da difendere contro la diffusione delle spinte democratiche e di «quelle forme popolari, che prevalgono ora in parecchi Stati di Europa»: i re «tengono la sovranità per dritto loro non per rappresentanza dei popoli» (ibid., c. 951).
Tali idee si riflettevano, poi, anche nella sua concezione della figura del magistrato come responsabile davanti al solo re, che si rileva in alcune proposte di legge avanzate durante la sua attività di governo nel corso degli anni Trenta e Quaranta. La sua alta considerazione del potere monarchico ne favorì la nomina a ministro segretario di Stato di Grazia e Giustizia, avvenuta il 16 febbraio 1831 su indicazione del precedente titolare di quel dicastero, Donato Tommasi, che aveva assunto la carica di presidente del Consiglio dei ministri ad interim. Parisio rimase a capo di quel ministero per quasi diciassette anni, prendendo parte ai gabinetti guidati da Carlo Avarna di Gualtieri, da Girolamo Ruffo e da Giuseppe Ceva Grimaldi di Pietracatella; dal 1832 assolveva le funzioni di ministro di Polizia generale nei periodi di assenza del titolare.
Nella sua attività di governo lasciò ampio spazio al forte interventismo di Ferdinando II e, a giudizio di diversi osservatori contemporanei (Michitelli, La Cecilia, Vesi), persino alle ingerenze e prevaricazioni dei suoi colleghi di governo.
Uno dei principali obiettivi perseguiti da Parisio fu il ripristino dell’immagine di una giustizia imparziale, attraverso il ristabilimento del prestigio del corpo giudiziario. Tra i primi atti miranti a questo scopo vi fu la riorganizzazione del dicastero (Regolamento di modifica del 30 dicembre 1831), con la soppressione del ripartimento del personale e il suo accorpamento alla Segreteria, e soprattutto con la separazione degli affari civili e penali, i cui relativi ripartimenti ebbero compiti prevalentemente disciplinari; un successivo decreto del 1840 ridefinì in maniera stabile la pianta ministeriale (Segretariato, personale e archivio; Affari civili; Affari penali; Affari di grazia e giustizia presso il luogotenente generale di Sicilia; Contabilità).
Al medesimo scopo di vigilare sull’attività dei tribunali e sulla formazione dei giudici tesero altre sue iniziative. Da subito si sforzò di perfezionare la statistica giudiziaria, introdotta nel Regno solo di recente. Nel presentare la Statistica generale relativa al 1833 e pubblicata due anni dopo (Statistica generale dell’amministrazione per la giustizia civile e commerciale ne’ Reali domini di qua dal Faro rassegnata a S.M. il Re (N.S.) dal Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia, Napoli 1835), Parisio insisteva sulla necessità di moltiplicare le informazioni sull’attività dei tribunali al fine di controllare l’operato dei giudici e di intervenire con gli strumenti legislativi allo scopo di migliorare la vita giudiziaria. Inoltre, emanò un regolamento per esami e concorsi per coloro che aspiravano a cariche giudiziarie e consolidò ed estese alla Sicilia l’istituzione degli alunnati di giurisprudenza pratica, periodi di formazione dei giovani giudici che venivano inseriti nei tribunali come soprannumerari. Ancora al medesimo obiettivo furono tesi i suoi reiterati tentativi, solo in parte coronati da successo, d’introdurre criteri meritocratici nelle carriere dei magistrati, i cui avanzamenti erano basati su principi burocratici (promozioni in relazione all’anzianità).
Benché il periodo in cui fu al governo fosse caratterizzato da una notevole instabilità, legata ai fermenti politici e ai numerosi tentativi insurrezionali, Parisio cercò spesso di mostrarsi clemente, concedendo grazie o riduzioni di pena a diversi condannati per motivi politici. Un simile atteggiamento tenne anche negli ultimi mesi del 1847 e all’inizio dell’anno successivo, quando i segnali di una prossima sollevazione si moltiplicavano. Lo scoppio dei moti a Palermo e a Napoli costrinse alle dimissioni l’intero governo guidato da Ceva Grimaldi, il 27 gennaio 1848, per lasciare spazio a un nuovo gabinetto meno ostile alle istanze costituzionali, in cui il portafoglio della giustizia fu affidato a Cesidio Buonanni.
Ritiratosi a vita privata, Parisio morì pochi mesi dopo, il 27 novembre 1848.
In considerazione dei suoi servigi, della sua alta concezione del potere monarchico e della sua lunga familiarità con Ferdinando II, era stato nominato cavaliere di Gran croce del Real Ordine di Francesco I e dell’Ordine costantiniano. Aveva ottenuto simili riconoscimenti da alcuni sovrani stranieri: gran croce dell’Ordine di Carlo III di Spagna, gran croce dell’Ordine del Cristo del Brasile, gran croce dell’Ordine di S. Giuseppe di Toscana, croce di grand’ufficiale della Legion d’onore in Francia. Alla sua morte, alla vedova e ai figli furono concesse cospicue pensioni.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Tesoreria generale, Assienti, voll. 650, c. 146; 656, c. 60; Ministero delle Finanze, b. 11914; Archivio Borbone, bb. 807, cc. 1027-1202; 1115, cc. 949-955; 1124, cc. 1444-1500; Ministero di Grazia e Giustizia, bb. 2351; b. 3016; Annuario storico del Regno delle Due Sicilie, dal principio del Regno di Ferdinando II Borbone, Napoli 1838, pp. 30, 96; G. Marini-Serra, Parole lette... sulla spoglia del Cav. D. Nicola Pariso in occasione delle esequie fatte il dì 28 novembre 1848, Napoli 1848; B. Caracciolo, Elogio funebre alla memoria del Cavaliere Nicola Parisio, L’Aquila 1849; F. Michitelli, Storia degli ultimi fatti di Napoli fino a tutto il 15 maggio 1848, Napoli 1849, pp. 21, 46, 61, 86, 132, 150, 183; S. Mandarini, Elogio del Cav. Niccola Parisio, già ministro segretario di Stato di Grazia e Giustizia, Napoli 1850; A. Vesi, L’educatore ed il narratore storico italiano, II, Firenze 1851, p. 388; L. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle Due Sicilie sotto la dinastia borbonica dal 1734 in poi, II, Napoli 1857, p. 562; G. La Cecilia, Storie segrete o misteri della vita intima dei Borboni di Napoli e Sicilia, Palermo 1861, passim; F. Nicolini, Niccola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del sec. XIX. Scritti e lettere raccolti e illustrati da F. N., Napoli 1907, p. 135; G. Talamo, Napoli da Giuseppe Bonaparte a Ferdinando II, in Storia di Napoli, IX, Dalla Restaurazione al crollo del Reame, Napoli 1972, p. 108; R. Feola, Dall’Illuminismo alla Restaurazione. Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli 1977, pp. 273-290; G. Landi, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861), I, Milano 1977, pp. 270-272, 448-458; A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 1997; C. Castellano, Magistratura e politica nell’età della codificazione. Il caso napoletano 1806-1821, in Laboratoire italien, II (2001), pp. 35-54; F. Masciari, La scienza giuridica meridionale della Restaurazione. Codificazione e codici nell’opera di Giuseppe Amorosi, Soveria Mannelli 2003, pp. 61-63; C. Castellano, Il mestiere di giudice. Magistrati e sistema giuridico tra i francesi e i Borboni, 1799-1848, Bologna 2004, pp. 192, 196, 222 s., 259.