MOIETTA, Nicola
MOIETTA (Moietta Mangone), Nicola. – Figlio di Antonio, nacque tra il 1480 e il 1485 a Caravaggio. Nei documenti e nelle firme autografe il M. è ricordato anche come Nicola Mangone, o Nicola Moietta Mangone, o più semplicemente Nicola da Caravaggio, ma si tratta sicuramente della stessa persona. È probabile che il vero cognome fosse Mangone, molto diffuso nel territorio caravaggino, mentre Moietta potrebbe essere un soprannome con cui, tuttavia, egli era conosciuto e con cui siglava spesso i suoi lavori (Comincini, pp. 49, 52 s.).
La più antica testimonianza documentaria risale agli anni 1510-11. Sono due atti notarili redatti a Milano riguardanti una disputa tra un nutrito gruppo di pittori – nel cui elenco compare il M. – e la scuola di S. Luca, la corporazione dei pittori allora guidata dall’anziano Giovan Pietro da Corte.
Il primo, datato 1° febbr. 1510, è una pubblica dichiarazione con la quale gli artisti manifestano la loro contrarietà all’elezione di da Corte a priore della scuola, in quanto priva delle forme prescritte. Nel secondo, del 13-22 maggio 1511, gli stessi dichiarano che non intendono essere più sottoposti alla scuola di S. Luca, bensì al consorzio «secessionista» del maestro Bernardo Zenale (ibid., pp. 49-52, 246). Si trattava di una disputa per la riorganizzazione dell’Accademia milanese, a cui il M. partecipò insieme con un’agguerrita schiera di pittori provenienti dalla Geradadda (il territorio tra Caravaggio, Treviglio e Trezzo), capeggiati da Fermo Tizzoni.
Da questi atti notarili si deduce che il M. non solo era maggiorenne, altrimenti non avrebbe potuto partecipare all’atto, ma era già un maestro riconosciuto con bottega e allievi (viene, infatti, appellato «magister» e nella lista dei pittori compare un certo Pietro Martire della Chiesa, definito discepolo del M.), e quindi doveva avere intorno ai venticinque-trenta anni; risulta inoltre residente a Milano nella parrocchia di S. Giovanni alle Quattro Facce, anche se un documento del marzo dello stesso anno lo ricorda a Caravaggio per l’acquisto di terreni (ibid., p. 246). A quella data il M. era forse già sposato o stava per sposarsi con la caravaggina Bella Ghisoni, vedova di Giuseppe Malusati, che nel 1514 gli conferiva come integrazione della dote due appezzamenti in Caravaggio (ibid., pp. 54, 246). Non risulta che da questa unione siano nati figli.
Prima di queste date la vita e l’attività del M. rimangono avvolte nella totale oscurità. Purtroppo anche dei lavori milanesi non resta finora alcuna traccia. Va peraltro osservato che, nonostante la costante residenza a Milano, il M. conservò sempre stretti legami con la città natale, dove erano tutti i suoi interessi familiari e patrimoniali.
Per chiarire la sua attività artistica giovanile gioca un ruolo importante l’attribuzione di alcuni affreschi presenti nella chiesetta di S. Maria Maddalena di Camuzzago, con le Storie della Maddalena distribuite sulle pareti del presbiterio e dell’abside.
Si tratta di un’impresa affidata probabilmente a Bernardino Butinone intorno al 1510 e in parte da lui progettata, ma poi affidata per l’esecuzione ad altri collaboratori, tra i quali è forse possibile riconoscere la mano del M., che nella stesura ampia, nelle ombreggiature zenaliane, nel fare vivace e spigliato si distingue dal pungente realismo e dal gusto calligrafico di Butinone (Mazzini; Vergani; Moro, 1994, p. 174). In realtà l’attribuzione di tali dipinti, anche alla luce delle nuove conoscenze che offrono gli affreschi riscoperti a Treviglio, rimane materia molto controversa.
La prima prova documentata del M. risale solo al 1519, quando firmò e datò il ciclo di affreschi della chiesa di S. Maria Annunziata di Abbiategrasso, annessa al convento dei frati minori osservanti, un complesso che era stato realizzato nel 1469 per volontà dei signori di Milano, il duca Galeazzo Maria Sforza e la moglie Bona di Savoia.
La committenza del ciclo sembra spettare non al frate guardiano di Abbiategrasso, che pure era originario di Caravaggio, ma alla «casa madre», il convento osservante di S. Angelo a Milano, che per l’occasione avrebbe scelto di affidarsi a un pittore attivo sulla piazza meneghina; in effetti appena l’anno prima, nell’ottobre del 1518, il M. era documentato residente a Milano, questa volta nella parrocchia di S. Vittore al Teatro (Comincini, p. 246). Gli affreschi, che erano stati coperti da altri intonaci, sono inseriti in architetture bramantesche dipinte sulle pareti del presbiterio e sull’arcone trionfale, e presentano un'intricata iconografia legata alle virtù mariane: l’Annunciazione, l’Adorazione dei pastori e il Riposo durante la fuga in Egitto sull’arco absidale; clipei con le teste degli Antenati di Cristo ed edicole con busti di Re biblici nel sottarco; nell’abside a pianta rettangolare si trovano l’Assunzione sulla parete est, l’Albero di Jesse e l’Incontro di Gioacchino e Anna alla porta Aurea sulla parete nord, la Nascita, la Presentazione al tempio e il Matrimonio di Maria in un’unica scena nel registro superiore della parete sud, la Morte, il funerale e il seppellimento di Maria riuniti nel registro inferiore della stessa parete; nella volta i Quattro evangelisti e i Quattro padri della Chiesa a coppie alternate; infine, nello zoccolo della parete sud si annidano tra intrecci e nodi leonardeschi clipei con i busti dei Protomartiri francescani. Si tratta dunque di un ciclo molto complesso, adatto a esprimere figurativamente la mariologia immacolista dei frati minoriti secondo una grammatica iconografica che era stata già sperimentata in ambito lombardo, per esempio nel coro dell’Annunziata di Borno, in S. Maria della Misericordia a Missaglia, in S. Maria degli Angeli a Lugano o nelle due cappelline sotto il tramezzo di S. Maria delle Grazie a Varallo. L’impianto strutturale, le composizioni ricche di soluzioni prospettiche, lo stile esecutivo sicuro rivelano un artista già maturo, probabilmente uscito da qualche bottega di Caravaggio, dove si insegnava a disegnare prospettive illusionistiche alla D. Bramante con gusto per la precisione calligrafica e il colore smaltato introdotto a Treviglio e dintorni da Butinone e Zenale. Ma l’educazione caravaggina, già arricchita dalle influenze di V. Foppa e A. Mantegna, risulta qui aggiornata in direzione milanese, con una ricezione ampia anche se superficiale del leonardismo: in particolare sono stati riconosciuti debiti verso Bernardino Luini, per la varietà di gesti ed espressioni e l’uso di spazi aperti, come alla Pelucca, mentre i tipi fisionomici e il trattamento morbido dei panneggi richiamano lo stile di Marco da Oggiono (Cavalieri, 2006, pp. 119-130; Gnaccolini, pp. 16 s.). Questo ciclo, però, non è soltanto un esempio di filiazione periferica della grande stagione leonardesca: le figure vivaci, i paesaggi dai marcati tagli prospettici, i particolari di vita quotidiana restituiscono una personalità artistica originale, a volte incerta e discontinua nei risultati, ma dotata di estro e singolare inventiva, che le più recenti indagini archivistiche e filologiche inducono a considerare tutt’altro che marginale nel vivace contesto lombardo di inizio Cinquecento.
Alla data del 1520 si ha notizia di un suo acquisto immobiliare a Caravaggio, seguito da affittanza dello stesso (Comincini, pp. 246 s.).
L’anno successivo realizzò la Madonna col Bambino in trono e s. Giovannino tra i santi Francesco, Gerolamo ed Elisabetta e un devoto, una tavola a olio firmata e datata («Nicolaus Caravaginus pinxit MDXXI»), conservata nel palazzo comunale di Caravaggio, ma proveniente dalla chiesa di S. Bernardino.
Secondo Tirloni (1975, p. 539), la pala sarebbe stata commissionata dalla nobile famiglia Secco d’Aragona, dai cui beni proveniva il dipinto. Se l’ipotesi è corretta, il devoto in ginocchio, presentato alla Vergine da s. Francesco, potrebbe essere Francesco Secco iunior, che aveva ereditato i beni di Antonio e Stefano Secco, promotori della fondazione del convento di S. Bernardino (Cavalieri, 2007, p. 134). Le figure sono disposte in classico contrappunto sotto una loggia che si apre prospetticamente su un retrostante paesaggio fluviale; sullo sfondo si intravedono alcune montagne e figure realizzate in punta di pennello. Sulle facce visibili del piedistallo ottagonale della Vergine sono raffigurati tre episodi biblici in rapporto analogico con le virtù mariane: la Creazione di Eva, il Peccato originale e la Cacciata dal paradiso terrestre. L’architettura del portico, che appare molto alto rispetto al piano della base, e la struttura lignea, che protegge la sacra conversazione, si ritrovano in molti dipinti lombardi coevi, come la pala Busti di Brera e il trittico di S. Mattia alla Moneta ora all’Ambrosiana, e richiamano lo stile di Zenale. Le figure, invece, sono desunte da Mantegna, in particolare il gruppo centrale ha stringenti assonanze con la Madonna della Vittoria del Louvre (1496), conosciuta probabilmente tramite un’incisione, un modello in realtà già abbastanza datato la cui scelta può forse spiegarsi come una precisa richiesta della committenza che vedeva nel prototipo mantegnesco il manifesto della visione mariana minorita contro quella dei domenicani.
Nel 1522 il M. è nuovamente documentato a Milano per la composizione di una controversia con il pittore Niccolò Appiani, che gli era debitore fin dal 1515 (Shell, 1995, pp. 25 s.).
Difficile è l’attribuzione al M. della predella con episodi dell’Assedio della città di Treviglio, conservata nel santuario della Madonna delle Lacrime di Treviglio, ma proveniente dal locale monastero di S. Agostino. La tavola, dipinta a olio, faceva parte di un polittico montato intorno all’immagine ad affresco della Madonna le cui lacrime avrebbero miracolosamente salvato Treviglio dal saccheggio delle truppe francesi guidate da Odet de Foix, visconte di Lautrec, il 28 febbr. 1522. Il nome del M., avanzato da Binaghi Olivari (1987, pp. 231 s.) sulla scorta di somiglianze formali con lo Sposalizio di Maria affrescato nella cappella del battistero della parrocchiale di Treviglio, all’epoca assegnato con sicurezza al M., è stato messo in discussione e quasi certamente espunto allorché il restauro di quegli affreschi ha messo in luce la presenza di mani diverse oltre a quella del M., in particolare proprio nella scena dello Sposalizio, e ciò lascia per il momento ancora aperta la questione della paternità della predella (Casero, 2007). Si può invece assegnare al M. il S. Francesco in gloria (1522 circa), affrescato su un pilastro della chiesa di S. Bernardino di Caravaggio, inserito in una raffinata cornice a greca in rilievo che si ritrova simile nei pilastri dipinti della pala caravaggina del 1521. Sempre in S. Bernardino si trova un altro affresco attribuibile al M. degli anni venti, un Cristo passo a buon fresco, un poco piatto e rigido nell’esecuzione delle mani, ma efficace nell’espressione triste del capo reclinato, che ricorda i volti pallidi e malinconici di Ambrogio da Fossano detto il Bergognone. Queste opere confermano il ruolo centrale che il M. ebbe, tra il secondo e il terzo decennio del secolo, nell’ambito dell’Osservanza francescana, almeno nel territorio delle province intorno Milano.
Del 1524 è l’affresco raffigurante la Madonna col Bambino in trono e s. Giovannino tra i ss. Gerolamo e Caterina d’Alessandria che presentano due devoti, nell’abside della chiesa di S. Andrea a Melzo, attribuitogli da Agosti (p. 475) per gli innegabili riferimenti a Mantegna e per la struttura architettonica perfettamente scorciata. Intorno a questi anni o poco prima dovrebbe collocarsi l’affresco con il Martirio di s. Stefano nella chiesa di S. Stefano di Mozzanica, oggi trasportato su tela (Cavalieri, 2006, p. 149).
Negli anni 1524-25 e 1529-31 il M. risulta impegnato a Caravaggio in acquisti fondiari (Comincini, pp. 55, 247). Da un documento del 1530 veniamo a sapere che si era sposato con Clara Varoli, pure di Caravaggio. Evidentemente, morta in data imprecisata la prima moglie, il M. si era unito in seconde nozze con Clara, di famiglia benestante a giudicare dalla ricca dote, ed era andato ad abitare in casa di lei, in porta Prata a Caravaggio (ibid., pp. 56, 247). Con Clara il M. ebbe tre figli: Angiolino, nato intorno al 1530, Vincenzo nel 1532 e Gerolamo nel 1542.
Nel frattempo, probabilmente a partire dal 1527, il M. aveva iniziato la decorazione della cappella di S. Giuseppe nella parrocchiale caravaggina dei Ss. Fermo e Rustico, che doveva impegnarlo almeno fino al 1530 (Cavalieri, 2006, pp. 136-140; Comincini, 2006, pp. 55, 247).
Di questo lavoro, commissionatogli dalla locale Confraternita di S. Giuseppe, non rimane che la pala d’altare, firmata e datata 1529, un’Adorazione dei pastori con i ss. Cristoforo e Caterina d’Alessandria, conservata nella parrocchiale di Caravaggio. L’opera si presenta oggi divisa in tre pannelli – quello centrale centinato con l’Adorazione in basso e l’Annuncio ai pastori in alto, quelli laterali con i due santi – e non è chiaro se in origine facessero parte di un’unica tavola o se ci fosse una cornice adatta ad assemblarli, ma l’impianto prospettico era sicuramente unico. La costruzione delle figure è solida e precisa, come già si vedeva nelle opere precedenti, tuttavia qui si distinguono il cromatismo acceso e lo sfumato dei volti, che richiamano la lezione leonardesca filtrata attraverso Luini, per il viso della Vergine e gli angioletti, e Vincenzo Civerchio (Fanoni), per le fisionomie maschili. La componente leonardesca non nasconde il riferimento più immediato a un Presepe in legno di Giovanni Angelo del Maino realizzato pochi anni prima (1515 circa) per la stessa Confraternita (Cavalieri, 2006, p. 140). La forza innovativa della pala, però, risiede soprattutto nella costruzione spaziale che rivela una sicurezza di tutto rispetto: è uno spazio praticabile alla Bramante, con pavimento a scacchiera ben scorciato, scandito da pilastri e lesene con capitelli corinzi dorati, che dovevano completare in modo illusorio la finta architettura della cornice antica. Diversamente la lunetta della centina, con la chiamata dei pastori, suggerisce un modello nordico o forse veneto, traccia di un interesse per il paesaggio già riscontrabile negli affreschi di Abbiategrasso. Di questa pala si conosce un disegno preparatorio, una sorta di prima idea compositiva per le figure centrali, datato 1527 e conservato al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi.
Il lavoro della cappella di S. Giuseppe ebbe strascichi legali spiacevoli. Infatti, nel 1531 gli scolari della Confraternita e il M. nominarono due arbitri, i pittori Civerchio e Francesco Prata da Caravaggio, per dirimere una loro controversia riguardante il fatto che il M. non avesse usato l’oro e l’azzurro oltremarino nei dipinti della cappella, come stabilito; appena due giorni dopo i periti si espressero a favore della scuola. Tuttavia la decisione alimentò il risentimento del M., che negli anni successivi ricorse a ogni mezzo per recuperare il suo credito residuo, costringendo la Confraternita a cedergli diversi appezzamenti di terreno. La lite si sanò solo nel 1538 grazie a una complessa transazione che vide come protagonista anche la moglie del M. (Comincini, pp. 55 s., 247 s.). Gli anni Trenta furono per lui ricchi di affari immobiliari, ma piuttosto poveri di produzione artistica. I documenti ricordano solo «pinture fatte alle porte de Caravagio» nel 1536 per ordine del marchese Giampaolo Sforza, probabilmente lo stemma nobiliare, di cui non rimane traccia (ibid., pp. 56, 247 s).
Alla metà del quarto decennio si dovrebbero datare gli affreschi della cappella del battistero della collegiata dei Ss. Martino e Maria Assunta di Treviglio con Storie della Vergine, i ss. Stefano, Lucio e il povero, Francesco che riceve le stimmate, Gerolamo penitente, Bernardo, Sebastiano e l’Arcangelo Michele col demonio sulle pareti, Dio benedicente tra un coro di angeli e i Quattro dottori della chiesa sulla volta, accompagnati da mezzibusti di Sibille e Profeti.
Gli affreschi, in gran parte riemersi dopo il restauro del 1988-89 che ha liberato la cappella da successive sovrastrutture, sono molto danneggiati e di difficile lettura. La decorazione, in effetti, è un caso critico ancora irrisolto, non solo per la datazione (che oscilla dal 1520 al 1535), ma anche per la paternità. È infatti molto probabile che il ciclo sia stato realizzato da più autori, almeno due se non tre, in diversi periodi, e che la parte sicuramente attribuibile al M. è, al momento, solo quella del registro più basso, dove compare il suo nome scritto all’interno di una tabella mutila; la firma in origine era forse accompagnata dalla data 1535, secondo la testimonianza di una fonte manoscritta ottocentesca (Cavalieri, 2006, p. 141). Nelle scene del registro più basso – l’Adorazione dei pastori e la Fuga in Egitto, i santi Francesco, Gerolamo, Lucio e Stefano – si riconosce l’estro maturo del M., quello capace di riusare le fonti antiche in un linguaggio personale e autonomo, in quest’occasione vicino alle forzature grafiche e cromatiche di Civerchio e di G. Romanino, e quindi gli affreschi sono coerenti con una datazione intorno alla metà degli anni Trenta. Al contrario il registro superiore e le vele presentano interventi di segno diverso, di certo più arcaici: uno butinoniano nelle vele, l’altro più vicino a Zenale e Bramantino (B. Suardi), soprattutto nella scena che raffigura lo Sposalizio della Vergine, sulla cui identità la questione è ancora aperta (Cavalieri, 2006, pp. 144-146; Bora, pp. XIV-XXIV; Gnaccolini, p. 18).
Del 1537 è la S. Lucia affrescata sul pilastro d’ingresso dell’ultima cappella della navata destra della basilica di Treviglio, che reca sul piedistallo l’iscrizione ripassata «2 iunio 1537». La santa, però, ha un aspetto ancora molto zenaliano e una sfaccettatura dei panneggi che non si ritrova nelle opere sicure del M. degli anni Trenta e ciò lascia alcuni dubbi sull’attribuzione dell’opera (Gnaccolini, p. 22).
Ancora più difficile è l’assegnazione al M. del S. Matteo e l’angelo affrescato in una delle vele della seconda cappella di sinistra della chiesa di S. Bernardino a Caravaggio, un’opera di buon livello esecutivo ma lontana dalla maniera del M. (Cavalieri, 2006, p. 150). Potrebbe invece essere suo l’affresco trasportato su tela conservato nella Pinacoteca di Brera, che raffigura le Nozze mistiche di s. Caterina, affine a certe figure di Floriano Ferramola e Andrea Solario (ibid., p. 149). Nel 1542 la moglie Clara gli diede in dote alcuni terreni e un sedime stimato 1200 lire imperiali, insieme con altri beni mobili (Comincini, pp. 56, 248). Nel novembre dell’anno successivo il M., indicato ancora come residente a Milano, mise il figlio Angiolino a bottega del maestro da legname Cristoforo da Legnano (ibid., pp. 57, 248). Nel 1544 consegnò 150 lire imperiali al tesoriere della Comunità di Caravaggio, per un debito che lo stesso aveva con quella Comunità (ibid., p. 249).
Il M. morì poco dopo il gennaio del 1546, probabilmente a Caravaggio (ibid., pp. 57, 249).
Nel maggio dell’anno successivo il pretore di Caravaggio nominò Clara Veroli tutrice dei figli minori Vincenzo e Gerolamo (Angiolino, non citato, doveva essere già scomparso) e, contemporaneamente, la vedova accettava l’eredità del marito dichiarando che era «potius lucrosam, quam damnosam». Tuttavia il M. lasciava insolute diverse pendenze penali, tanto che Clara fu costretta nel 1548 a nominare quattro procuratori nell’interesse dei figli (ibid., p. 249). Entrambi i figli del M. divennero pittori, mentre però Gerolamo rimase un oscuro mestierante, Vincenzo dovette acquisire una discreta notorietà in ambito locale, almeno come decoratore: sono infatti note alcune sue collaborazioni con Bernardino Campi a Caravaggio, e il suo nome ricorre costantemente nella letteratura artistica, tanto da ingenerare un curiosa sovrapposizione con la figura del padre (Cavalieri, 2006, p. 117; Comincini, pp. 58-61, 249-256). Al momento non si conoscono opere di sicura attribuzione.
Fonti e Bibl.: P. Tirloni, Pittori caravaggini del Cinquecento, Bergamo 1963, pp. 23-28; F. Mazzini, Affreschi lombardi del Quattrocento, Milano 1965, p. 476; P. Tirloni, in I pittori bergamaschi: dal XIII al XIX secolo, III, 1, Il Cinquecento, a cura di G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1975, pp. 539-549; M. Tanzi, in Pittura tra Adda e Serio. Lodi, Treviglio, Caravaggio, Crema, Milano 1987, pp. 181, 230-232; M.T. Binaghi Olivari, ibid., pp. 169, 231 s.; F. Moro, ibid., p. 107; G.A. Vergani, in Il monastero e la Cascina di Camuzzago: otto secoli di storia, arte e architettura, Mezzago 1987, pp. 43-54, 58 s.; F. Frangi, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1988, p. 773; J. Shell, The scuola di S. Luca, or Universitas pictorum, in Renaissance Milan, in Arte lombarda, CIV (1993), pp. 81, 95; F. Moro, in Dizionario degli artisti di Caravaggio e Treviglio, a cura di E. De Pascale - M. Olivari, Treviglio 1994, pp. 174-178; J. Shell, Pittori in bottega. Milano nel Rinascimento, Torino 1995, pp. 25 s., 49-53, 78, 168 s., 209-215, 237, 281 s.; Disegni del Rinascimento in Valpadana. Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, a cura di G. Agosti, Firenze 2001, p. 44; G. Agosti, Su Mantegna, I, Milano 2005, pp. 54, 475; M. Comincini, I Moietta: profili biografici e Appendice terza. Documenti per la biografia di N. M., in Il convento dell’Annunziata di Abbiategrasso, a cura di M. Comincini, Abbiategrasso 2006, pp. 49-58, 246-249 (58-61, 249-256 per i figli); F. Cavalieri, Intorno a N. M., ibid., pp. 117-152 (con ampia bibl.); P. Brambilla Barcilon, Il complesso conventuale di S. Maria Annunziata, in Rinascimento ritrovato: la chiesa e il convento di S. Maria Annunziata ad Abbiategrasso, a cura di P. De Vecchi - G. Bora, Milano 2007, pp. 81-130; F. Cavalieri, Note per la decorazione delle chiese francescane osservanti della provincia milanese, ibid., pp. 134, 137-139; S. Bandera Bistoletti, Testimonianze pittoriche rinascimentali nel territorio di Abbiategrasso, ibid., pp. 151, 162-165; G. Bora, N. M. «De Mangonis» da Caravaggio a Abbiategrasso, 1519 l’anello mancante, in Rinascimento ritrovato: nell'età di Bramante e Leonardo tra i Navigli e il Ticino, a cura di C. Bertelli - G. Bora, Milano 2007, pp. XIII-XLII; F. Cavalieri, ibid., pp. 34 s.; C. Casero, ibid., pp. 35-37; L.P. Gnaccolini, Il primo Rinascimento a Caravaggio: 1480-1550 ca., in Pittura a Caravaggio: avvenimenti figurativi in una terra di confine, a cura di S. Muzzin - A. Civai, Bergamo 2008, pp. 16-18, 22, 35-40; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXV, p. 22.