GUARNA, Nicola Matteo
Nacque a Salerno, primogenito di Andrea e di Cizza Cavaselice, membri di due tra le più illustri famiglie della ricca città campana. È sconosciuta la data di nascita, che può essere collocata tuttavia intorno agli ultimi due decenni del sec. XIV, considerato il rilievo degli incarichi che ricoprì negli anni Trenta del sec. XV, in cui doveva essere già maturo d'età.
Giureconsulto e cavaliere, ebbe posizione eminente nella città natale a giudicare, più che dalle molteplici proprietà immobiliari in essa possedute, dai benefici goduti su importanti enti ecclesiastici.
Tenne lo iuspatronato della chiesa di S. Andrea, da cui traeva una rendita annua di 8 once e 20 tarì; fu compadrone dello iuspatronato di S. Gregorio con gli eredi di Giovanni Guarna, suo prozio, e con alcuni membri delle famiglie Cavaselice e Capograssi di Salerno; ebbe infine lo iuspatronato della chiesa di S. Nicola nella terra di Giffoni. Una posizione, questa, che si rafforzò ulteriormente allorché, scomparsi la regina Giovanna II e Luigi III d'Angiò, riconosciuto dalla prima erede al trono di Napoli, la corona passò al fratello di Luigi, Renato, del quale e della cui moglie, Isabella di Lorena, il G. fu fedele e costante sostenitore.
Reggente della Magna Curia della Vicaria dal 1434, egli ottenne infatti, con atto della regina Isabella del 1435 e conferma dello stesso Renato del 1438, il lucroso ufficio del peso e della misura del sale nel maggior fondaco della città di Salerno, e la giurisdizione su tutti i vassalli afferenti ai casali di Lanza e Catalona, in quel di Giffoni, ricaduti in potere della corte per la ribellione di Giacomo d'Aquino, conte di Loreto e titolare del feudo.
Già collaboratore della Corona anche in qualità di consigliere, il G. operò per il re Renato prevalentemente come oratore in delicate ambasciate. Nel maggio del '38, appena giunto il successore angioino a Napoli, fu inviato presso Francesco Sforza allo scopo di perfezionare il contatto personalmente preso qualche mese innanzi dal re a Porto Pisano con il condottiero, e indurre quest'ultimo a portar guerra al pretendente aragonese, Alfonso V; una missione che procurò l'appoggio formale dello Sforza, al quale furono offerti la conferma di tutti i beni posseduti nel Regno e l'ufficio di gran connestabile, ma che valse solo una breve, benché efficace, puntata del condottiero in Abruzzo. Negli anni che seguirono, di dura e logorante guerra tra il re Renato e Alfonso V, crebbe la fiducia nel G. come procuratore della Corona; con documento del 20 nov. 1439 egli fu solennemente nominato dall'Angiò suo oratore presso le Repubbliche di Firenze e Venezia, con ampi poteri; ma di questa sua legazione non resta traccia nelle fonti.
Lo ritroviamo nel novembre del 1441 a Cremona, nuovamente presso lo Sforza, latore di una drammatica ambasciata per conto del re.
Abbandonato dai suoi capitani, primo tra tutti Antonio Caldora, e stremato da una guerra condotta senza adeguati mezzi finanziari, Renato si trovava allora assediato a Napoli con poche centinaia di armati: l'intervento del maggior condottiero d'Italia, il quale già alcuni anni innanzi aveva manifestato la propria disposizione ad abbracciare la causa angioina, costituiva l'ultima possibilità per riequilibrare la partita con l'Aragonese. La pratica fu condotta con abilità dal G., il quale, rinnovando i patti stipulati nel 1438 e perfezionandoli con ulteriori concessioni, addivenne, il 25 nov. 1441, alla stipula di un nuovo contratto, o alleanza politica, con lo Sforza, vantaggiosa senz'altro per quest'ultimo, ma non sconveniente per l'Angiò: Francesco Sforza era ingaggiato da Renato con una forza di 1000 lance e 1000 fanti, a ragione di 10 ducati al mese per lancia e 2 ducati e mezzo per "paga" di fanteria, con facoltà di accrescere il numero di armati nella necessità di una più rapida conquista dello Stato napoletano; il re prometteva al condottiero l'ufficio di gran connestabile e il titolo di suo vicario generale; a tutti i soldati dello Sforza che avevano posseduto beni nel Regno veniva elargita poi la conferma degli stessi, e al loro capitano quella di tutti i privilegi e beni accordatigli in passato sul territorio napoletano da Giovanna II e Luigi III; lo Sforza era infine nominato per cinque anni maestro portolano del Reame.
La complessa congiuntura politica del momento, tuttavia, con la chiara ostilità manifestata dal duca di Milano allo Sforza, avversione alimentata ad arte dal re Alfonso, impedì al condottiero di recarsi personalmente nel Regno. Per tener fede ai patti, questi inviò allora suo fratello Giovanni Attendolo (Giovanni Sforza) in Abruzzo con un contingente di 2000 cavalli; gli Sforzeschi, con i quali si trovava anche il G., che aveva il compito di assoldare altre milizie in loco, avrebbero dovuto unirsi alle forze di Antonio Caldora, ribellatosi ora al re d'Aragona (con quest'ultimo, abbandonato l'Angiò, l'inaffidabile barone abruzzese aveva stretto patti di accordo l'anno innanzi), e avviare insieme la riconquista.
La caduta di Napoli, il 2 giugno 1442, inibì l'ambizioso progetto: nella necessità di rassodare immediatamente la conquista e impedire che l'azione congiunta di sforzeschi e caldoreschi riaprisse la partita, Alfonso si lanciò subito con il grosso dell'esercito vittorioso verso le estreme province settentrionali del Regno. Lo scontro non poté essere evitato. A Sessano del Molise, il 29 giugno, le schiere filoangioine furono travolte dalle armi aragonesi; il G. cadde prigioniero insieme col Caldora e con la maggior parte dei soldati di questo, mentre Giovanni Sforza riusciva a evitare la disfatta riparando verso Nord.
La prigionia del G., come del resto quella di Antonio Caldora, non durò però molto: egli ebbe modo di sperimentare la veridicità dell'appellativo di Magnanimo del quale da sempre si fregiava il monarca aragonese. Il trattamento riservato al G., apprezzato evidentemente per le sue doti politiche, fu in effetti in quell'occasione non solo moderato ma, a dir poco, incoraggiante. Lo stesso anno, infatti, Raimondo Orsini, gran giustiziere e camerlengo del Regno, principe di Salerno e capitano della città di Napoli, comandava a Ramón Boyl, camerlengo di Principato Citra, su ordine espresso del re Alfonso, di restituire al G. e a Verità Guarna (sua sorella) tutti i beni, burgensatici e feudali, e le case possedute nella città e nelle pertinenze di Salerno, e particolarmente il feudo detto della Tintoria, e i poderi posti nel contado, cioè il Guarno e la "starza" sita nel luogo detto Picenza.
Il destino del G. non doveva compiersi tuttavia al servizio del nuovo re di Napoli. I vari contatti presi in precedenza con lo Sforza come agente di Renato, e fors'anche la militanza di suo figlio Giacomaccio nelle schiere del condottiero, avevano legato la sorte del G. a quella del futuro duca di Milano. Già nel 1443 egli presenziava alla stipula di un atto che interessava lo Sforza; nel 1446 era suo agente ufficiale a Milano. In effetti il periodo più delicato e ricco di pericoli e speranze per lo Sforza vide il G. collocato in un posto di grande rilievo strategico per la gestione dei difficili rapporti del condottiero con i potentati italiani.
Non è chiara, in questa fase, la posizione del G. e della sua famiglia nel Regno in relazione ai critici rapporti tra lo Sforza e Alfonso, che già nel '42 occupava i possedimenti pugliesi del primo e, nel novembre dello stesso anno, firmava un'alleanza con Milano e Roma per allontanare il condottiero dalle Marche e disfarlo del tutto (tale alleanza, riconfermata nel 1445, portò all'isolamento dello Sforza e alla perdita di tutti i suoi domini in Italia centrale, tranne Jesi).
L'azione diplomatica del G. si mostrò comunque particolarmente preziosa per lo Sforza nel '47, anno cruciale per il condottiero, per il riavvicinamento a Filippo Maria Visconti dopo l'occupazione veneziana di gran parte dello Stato milanese (1446), per l'accordo con il papa, che gli procurò i mezzi finanziari necessari a riprendere l'azione politica - lo Sforza consegnò Jesi al pontefice dietro il pagamento di 35.000 ducati d'oro e fu libero di porsi al soldo del suocero -, e infine per l'improvvisa morte di Filippo Maria, che aprì il capitolo, fondamentale, della successione al Ducato.
Il G. funse da occhi e orecchi del conte a Milano. Il 5 maggio 1447, rispondendo allo Sforza che gli chiedeva di sollecitare Filippo Maria a inviargli i 46.000 ducati promessigli, utili per la sua campagna contro Venezia, il G. metteva in guardia il proprio signore, avvertendolo di diffidare della recente riconciliazione con il suocero, perché i suoi nemici a Milano operavano presso questo per screditarlo, affermando che la vera ragione per cui rientrava in Lombardia era che "venevate qua come Signore e non come soldato" (Cognasso, p. 379), e aggiungeva: "el Signore è entrato in grande gielosia della Signoria vostra et la mente sua non è sincera verso voy" (ibid., p. 380). In precedenza il G. gli aveva scritto della ingombrante presenza a Milano di Ramón Boyl, fiduciario del re Alfonso, che il duca aveva creato suo "superiore delle genti d'arme", palesandogli le proprie preoccupazioni per un'eventuale preminenza aragonese a Milano. La fitta corrispondenza del G. costituì per lo Sforza il principale canale informativo per la valutazione delle condizioni interne del Ducato nella fase complessa e delicata che precedette e seguì la morte del duca: essa mostra tutte le doti diplomatiche del G., abile a orientarsi nella trama intricata di accadimenti che segnarono quei giorni convulsi e fatali e a darne immediata notizia al conte (scriveva il giorno stesso della morte del duca: "sento da alcuni boni et notabili cittadini che la dispositione di questa citade è, dopo la morte de costui, fare consiglio generale fra loro et de proponere et invocare la libertade", Cognasso, p. 397).
Il G. si dimostrò anche abile a procacciare aderenze al suo signore, per favorirlo nella delicata congiuntura. In tale quadro vanno iscritte le strette relazioni intrecciate dal G. con Guindazzo Manfredi da Faenza, la stipula del contratto di condotta con Pandolfo Novello Malatesta e la cura della pratica di alleanza con il nobile Rolando Pallavicini. Sin dai primi giorni della proclamazione della Repubblica Ambrosiana, inoltre, e ancora lontano il conte Francesco, il G. si adoperò affinché Pavia, città appetita da Milano e dal duca di Savoia, si desse al condottiero, intavolando di propria iniziativa trattative con Giacomo di Lonato, capitano della città, e collaborando con Agnese Del Maino, madre di Bianca Maria Visconti, che pure vantava aderenze nella città e che vedeva ora nell'esaltazione del genero, sconosciuto fino allora, la rivalsa del proprio sangue: una pratica che condusse all'acquisizione da parte dello Sforza del titolo di conte di Pavia e che gli consentì di presentarsi in Lombardia forte di una base politica.
L'ultima azione documentata compiuta dal G. fu un'ambasciata per lo Sforza nel 1448 a Ferrara e a Cremona, città quest'ultima da lui eletta a residenza; poi le sue tracce si perdono. Morì tra il 1453 e il 1454, data dell'atto con il quale il figlio Giovanni succedeva nella proprietà dei beni del G. nel Regno.
Aveva sposato una gentildonna salernitana di cui conosciamo solo il nome, Angela, forse una Cavaselice o una Capograsso, che gli diede cinque figli: Luigi, morto scapolo e senza figli; Giacomaccio, che fu condottiero; Giovanni, anch'egli uomo d'arme; Giovanni Andrea, che sposò una Laura Gargani d'Aversa e, infine, Maddalena, impalmata da Nicolò Capograsso, salernitano, dottore in legge.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Salerno, ms. in microfilm: Prignano, cc. 367v-369v; Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIV.H.22: Memorie storiche dell'antichissima nobiltà salernitana raccolte da vari manoscritti e stampe, a cura di Luigi Staibano, passim; Napoli, Biblioteca della Società napoletana di storia patria, ms. III corr./V.a.4: Spigolature d'archivio sulla famiglia Guarna fatte dall'archeologo Luigi Staibano, passim; P.C. Decembrio, Rerum gestarum in vita illustrissimi Francisci Sfortiae…, a cura di A. Butti - F. Fossati - G. Petraglione, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XX, 1, p. 522; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, ibid., XXI, 2, pp. 112, 176; A. Mazza, Historiarum epitome de rebus Salernitanis, Napoli 1681, p. 102; A. Lecoy de la Marche, Le roi René…, Paris 1875, I, pp. 170, 203 s., 272; F. Cognasso, Il Ducato visconteo e la Repubblica Ambrosiana (1392-1450), in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 328-332, 378-409; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, I, Roma 1958, p. 973 n. 6; L. Cerioni, La diplomazia sforzesca, Roma 1970, I, pp. 184 s.