MALINCONICO, Nicola
Nacque a Napoli il 3 ag. 1663, da Andrea, pittore, e Antonia De Popoli, sorella del pittore Giacinto. Secondo consuetudine, e come confermano le fonti a partire da De Dominici, la prima formazione del M. si dovette compiere presso la bottega paterna, in linea con quel che già era accaduto al fratello maggiore Oronzo, che fu pure pittore, sebbene, per quanto si può ricavare dagli elementi disponibili, dalla fisionomia artistica assai poco spiccata.
La data di nascita di Oronzo è fissata dall'atto di battesimo della parrocchia di S. Giuseppe Maggiore il 4 luglio 1661 (Prota-Giurleo, p. 36). I non molti dati certi relativi alla sua carriera partono dal 5 sett. 1681, allorquando la principessa di Montesarchio Anna Guevara gli commissionò sei dipinti per la chiesa parrocchiale di Montesarchio nel Beneventano (tuttora in situ). Il compenso pattuito di 90 ducati fu saldato il 23 dicembre successivo, con l'aggiunta di 20 ducati per un'ulteriore tela raffigurante S. Francesco Saverio. Nel 1691 Oronzo ricevette 80 ducati, a saldo finale di un compenso totale di 320, per otto dipinti destinati alla chiesa napoletana di S. Maria della Pazienza Cesarea. Tra il 1693 e il 1694 fu probabilmente a Bergamo con il M., dove, stando ad alcune fonti settecentesche, collaborò con lui nel Martirio di s. Alessandro per il duomo locale (e dove avrebbe potuto fargli da aiuto nel vasto ciclo di S. Maria Maggiore). Di nuovo a Napoli, nel 1695 ricevette 85 ducati per un quadro destinato alla cappella del palazzo Ruffo di Bagnara e altri 30 per una tela posta sul soffitto di S. Stefano ai Mannesi. Tra gennaio e agosto del 1701 eseguì alcuni quadri per la cappella Carmignano in S. Maria Donnaregina. Fra le ultime opere documentate di Oronzo si devono, infine, considerare tre tele dipinte per S. Giovanni Battista delle Monache, saldate nel dicembre 1705, e le tele eseguite in collaborazione con il fratello per il soffitto della navata mediana del duomo di Sorrento, raffiguranti Quattro martiri sorrentini e Quattro vescovi patroni (per i documenti relativi a tutte le opere citate, si veda Pavone, pp. 411-413). Secondo l'atto di morte della parrocchia di S. Giuseppe, Oronzo si spense a Napoli il 29 giugno 1709 (Prota-Giurleo, p. 38).
Dopo la fase aurorale del suo apprendistato, all'inizio della carriera il M. rivolse la sua attenzione alla natura morta, specializzandosi con successo presso la bottega di Andrea Belvedere, alla fine del Seicento uno dei centri più prestigiosi a Napoli per quel che riguardava la produzione di questo genere artistico ("Primieramente dipinse frutta, e fiori, quali colorì assai bene con la direzione del celebre abate Andrea Belvedere, ed erano i suoi fiori così freschi di colore, che innamoravano li stessi professori": De Dominici, p. 295).
Prendendo le mosse dalla succitata indicazione di De Dominici, la critica si è impegnata a ricostruire un corpus di nature morte del M. rispondente al requisito della prossimità stilistica con le opere di Belvedere. Se l'unico sicuro punto di riferimento a tale riguardo è tuttora costituito dalla grande Natura morta con pavone, firmata, della Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste di Vienna, accanto a questa tela è stato possibile collocare pochi altri dipinti che appaiono strettamente apparentati con essa: in particolare, la coppia di sontuose Nature morte en plein air, con fiori e frutta, di identiche e notevoli dimensioni, che si trovano alla Walters Art Gallery di Baltimora (pubblicate in Zeri). Questo catalogo, minuscolo ma di evidente qualità (tralasciando qui di considerare altre attribuzioni, anche autorevoli, che si sono poi succedute, nessuna però esibendo il crisma di un'indiscutibile evidenza), individua uno spettro di influenze che include anche Giovan Battista Ruoppolo, Abraham Brueghel e il romano Michelangelo Pace. Resta ancora difficile, peraltro, rispondere agli interrogativi riguardo all'estensione cronologica e quantitativa dell'attività del M. nel campo della natura morta; ma certamente ben presto nella sua carriera divenne predominante, se non esclusivo, l'impegno nei soggetti di storia, prevalentemente in opere di destinazione pubblica, laddove si sarebbe imposta energicamente la radice giordanesca del suo linguaggio pittorico (prendendo con decisione il sopravvento su altri punti di riferimento iniziali dell'artista, soprattutto Massimo Stanzione).
Stando ai documenti, al principio dell'ultimo decennio del secolo il M. aveva già virato con successo la sua attività nell'ambito della pittura di storia, anche in conseguenza di una fase di discepolato (poco meno che certa, seppure non provata in via definitiva) trascorsa durante gli anni Ottanta nell'attivissimo e frequentatissimo atelier di Luca Giordano (com'è noto De Dominici fornisce notizie su ben ventotto allievi dell'artista, intendendo soffermarsi solo sui migliori). Limitandosi alle opere attestate documentariamente, si sa che nel 1692 il M. ricevette la commissione di un dipinto raffigurante la Vergine col Bambino in braccio tra i ss. Felice di Nola e Severo vescovo di Napoli per la cappella Carmignani della chiesa di S. Giovanni in Porta e venne pagato per un "quadro di S. Gregorio Magno pittato da lui per una cappella della chiesa di Policastro" (Pavone, pp. 390 s.). Di lì a poco, fra il 1693 e il 1694, il M. s'impegnò in una delle commissioni più cospicue e significative della sua carriera: il ciclo di dipinti per la chiesa di S. Maria Maggiore a Bergamo, per il quale fu chiamato in sostituzione di Giordano. Quest'ultimo nel 1682 aveva inviato nella città lombarda, da Napoli, una tela raffigurante la Sommersione del faraone, ottenendo un'approvazione senza riserve e l'affidamento (poi reiteratamente disatteso) di tutto il resto dell'impresa decorativa, alla quale Giordano avrebbe rinunciato definitivamente all'inizio dell'ultimo decennio, in conseguenza del suo trasferimento alla corte del re di Spagna.
Il M. fu incaricato di eseguire dieci riquadri ad affresco sulla volta della basilica e tre tele ai lati della navata maggiore, che si sarebbero aggiunte a quella di Abramo visitato dagli angeli, inviata dal pittore ai committenti come saggio delle proprie qualità e da questi ultimi adeguatamente apprezzata (in realtà, diversamente da quanto sancito nell'impegno sottoscritto dalle parti, tutte le opere che il M. eseguì nella basilica di S. Maria Maggiore furono realizzate a olio su tela). Grazie alla pubblicazione della capillare documentazione (Ravelli), è possibile conoscere nel dettaglio le vicende relative a questa importante trasferta artistica del M., nella quale svolse un ruolo di primo piano il mercante d'arte veneziano Simone Giugalli, incaricato dal Consorzio della Mia di Bergamo, responsabile della basilica, di fare da mediatore con il Malinconico. Quest'ultimo fu scelto forse su segnalazione di Giordano, e chiaramente in quanto suo discepolo e seguace: e proprio sull'affinità del M. con il celebrato maestro, e sul suo presunto non minore talento (oltre che sulla grande dimestichezza nella tecnica dell'affresco: aspetto che, peraltro, all'atto pratico si sarebbe rivelato del tutto ininfluente) puntò Giugalli per persuadere i governatori di S. Maria Maggiore circa la bontà della scelta. Al contempo, egli s'impegnò a rinegoziare al ribasso con il M. il compenso precedentemente definito per Giordano (che ammontava a 5000 scudi più le spese - viaggi, vitto, alloggio, colori - per il pittore e i suoi aiuti). Il M. sottoscrisse il contratto d'allogazione dei lavori il 3 febbr. 1693, accettando un compenso complessivo di 4000 ducati bergamaschi (con le sole spese per tele e colori, i ponteggi e le opere di muratura a carico del Consorzio), e giunse in città il 10 giugno successivo, in compagnia del padre e di un fratello (quasi certamente Oronzo). Riguardo all'iconografia, le parti convennero che la Mia, nell'autorità dell'abate Giovan Battista Mazzoleni, avrebbe fornito al M. un'ampia rosa di soggetti (ben trentuno, selezionati sulla base della loro adeguatezza al programma di celebrazione mariana sotteso alla decorazione) all'interno della quale egli avrebbe potuto scegliere le tredici storie da tradurre in immagine. Nel gennaio 1694 furono aggiunte altre due tele all'incarico precedentemente fissato, che vennero completate dal M. nel marzo successivo. Nei mesi seguenti il pittore fu impegnato nella città lombarda in un ulteriore prestigioso compito: il Martirio di s. Alessandro, in duomo, che, ancor più delle opere in S. Maria Maggiore, testimonia con eloquenza come a questa altezza cronologica agisse già energicamente sul M., oltre all'inaggirabile modello giordanesco, anche il punto di riferimento dell'arte di Francesco Solimena. Nel mese di maggio il M. lasciò infine Bergamo per tornare a Napoli.
Nella sua città il M. fu subito coinvolto in una sequenza d'impegni che si può dire non conobbe soluzione di continuità per i successivi tre decenni. Il 19 nov. 1694 egli percepì 30 ducati a saldo di un S. Francesco riceve le stimmate, eseguito per la chiesa dei Ss. Bernardino e Margherita. Al 1696-97 risalgono le opere realizzate per la chiesa napoletana della Croce di Lucca: l'affresco sulla volta raffigurante l'Assunta, la tela dell'altare maggiore con l'Immacolata Concezione e due tele laterali con lo Sposalizio della Vergine e S. Bernardo converte Guglielmo d'Aquitania. Proprio a cavallo dei due secoli, il M. fu quindi impegnato nell'esecuzione del vasto ciclo di tele - ai lati dei finestroni (doveva trattarsi di Profeti; ma alla fine si optò per una serie di Santi), in controfacciata (Entrata di Cristo a Gerusalemme) e sul soffitto (Assunzione della Vergine, S. Aniello scaccia i saraceni, Martirio di s. Agata, ultimate nell'ottobre 1702) - nella chiesa di S. Maria Donnalbina a Napoli, dove forse poté trovarsi a lavorare fianco a fianco con Solimena. Pressoché contemporaneamente a quest'ultimo impegno, ebbe notevole rilievo anche l'incarico ricevuto nel 1699 per la decorazione di S. Maria la Nova, ove realizzò gli affreschi dei dieci archi esterni delle cappelle della navata (Figure allegoriche delle Virtù, portate a termine nel 1701) e le due notevoli tele poste nei bracci del transetto (Adorazione dei magi e Adorazione dei pastori, compiute nel 1703).
Nel nucleo di opere per S. Maria Donnalbina e S. Maria la Nova è dato rilevare una tendenza evolutiva in senso classicista del linguaggio del M., in grado di metabolizzare una trama sempre più fitta di suggestioni artistiche (seppure non senza il rischio di incrementare un certo spirito imitativo che gli era connaturato). È così che, accanto ai punti di riferimento consolidati, crebbe di significato la riflessione intorno all'eredità dei pittori emiliani attivi a Napoli (Guido Reni, Domenico Zampieri detto il Domenichino e Giovanni Lanfranco), ma anche di Pietro da Cortona e dei cortoneschi, in combinazione con lo stimolo montante della maniera solimenesca e con l'esempio dei contemporanei Carlo Maratti e Paolo De Matteis.
Nel 1700 il M. si sposò con Rosa Teresa De Magistris, ventenne; e si sa che la coppia ebbe prole numerosa (Prota-Giurleo, p. 38). Nel 1703 ottenne il titolo di cavaliere; e nel 1706, quello di conte. In particolare quest'ultimo costituì per il M. un motivo di vanto, esibito largamente nella firma delle sue opere (fornendo in tal modo un prezioso terminus post quem per la datazione dei suoi dipinti), a conferma della personalità incline alle glorie mondane tratteggiata da De Dominici ("Fu Nicola alquanto vano della persona, e delle opere sue, ed inclinato al fasto, e al grandeggiare, onde si procurò, non saprei dire con qual mezzo, un cavalierato [(] e non contento di questo, ottenne il titolo di conte, co' quali titoli a gran caratteri sottoscriveva il suo nome nelle opere ch'ei dipingeva": p. 297).
Grazie alla firma preceduta dal titolo nobiliare si può datare dopo il 1706 un'imponente quantità di dipinti del M. di destinazione pubblica, l'elenco dei quali fornisce un parametro eloquente del successo vivissimo da lui riscosso nell'ambito delle commissioni ecclesiastiche (per i documenti relativi a tutte le opere citate qui di seguito si veda Pavone, pp. 404-410). Si succedettero così nella seconda metà del primo decennio, rispettando per quanto possibile la sequenza cronologica, le due tele della certosa di S. Giacomo a Capri (una Scena biblica e l'Adorazione dei magi, datata 1706); la Vergine bambina con Gioacchino e Anna in S. Giuseppe a Chiaia; le tele oggi nell'abbazia di Montecassino, provenienti dalla chiesa benedettina di S. Lorenzo in Aversa (almeno parte delle quali terminate nel 1708); l'Assunzione con s. Tommaso di Canterbury nell'abside della cattedrale di Mottola; l'Incoronazione della Vergine per il soffitto della chiesa dello Spirito Santo a Sant'Antimo. Seguirono, firmati e datati 1710, gli affreschi nell'abside della chiesa dell'Annunziata a Marcianise, raffiguranti Storie di Maria. Verso la fine del 1711 il M. consegnò nove tele per la navata centrale e il presbiterio della cattedrale di Teano (tutte perdute); e analogamente, nel 1713 fu incaricato di eseguire una serie di tele per la navata maggiore e la crociera della chiesa napoletana di S. Pietro a Maiella. Ancora entro la metà del secondo decennio si colloca la realizzazione della Madonna del Rosario in S. Gregorio Armeno che precede di poco i dipinti dedicati a Episodi della vita di s. Nicola, nella prima cappella destra della chiesa napoletana dei Ss. Apostoli, di impronta strettamente solimenesca. Risale al 1718 il S. Michele nella chiesa eponima di Anacapri. Alla parte estrema della carriera e dell'esistenza del M. risalgono la Ss. Trinità per la casa professa dei gesuiti (1723) e le Nozze di Cana nel refettorio della certosa di S. Martino (1724). Ma la commissione più prestigiosa ricevuta nel terzo decennio del Settecento dal M. fu certamente la vasta decorazione ad affresco della sagrestia della chiesa dei Ss. Apostoli eseguita tra il 1725 e il 1726 per un compenso totale di 1500 ducati. Sulle pareti il M. rappresentò sei allegorie, una serie di soggetti veterotestamentari e nella volta l'Assunzione della Vergine.
Tra le ultimissime opere del M. si devono considerare una tela raffigurante il Martirio di s. Antimo per il soffitto della parrocchiale di Sant'Antimo, saldata a Domenico e Benedetto, figli ed eredi del pittore, il 17 giugno 1727; il sorprendentemente riberesco Buon samaritano oggi nelle Gallerie comunali di Prato, firmato, che il 15 marzo 1728 il committente Antonio De Dura saldò ancora a Benedetto; e soprattutto le decorazioni pittoriche con Storie di s. Agata (che nella parabola del M. segnano un apice di giordanismo "di ritorno", per quanto tale riferimento non risulti mai obliato nella sua pur composita maniera) eseguite per la cattedrale di Gallipoli su commissione del vescovo Oronzo Filomarini, che fu eccezionalmente attivo sul versante artistico e per quarant'anni a capo della diocesi pugliese. Si trattò di un impegno di entità abnorme, per un totale di ben cinquantanove tele dislocate pressoché ovunque all'interno della chiesa (svariati bozzetti per opere che fanno parte del complesso si conservano oggi in collezione privata), in cui il M. poté contare sulla collaborazione del figlio Carlo, il quale ebbe la responsabilità di condurre a termine l'impresa dopo la morte del padre.
Nato il 23 apr. 1705, Carlo fu l'unico figlio del M. che svolse, ma con esiti modesti, la professione paterna. A detta di De Dominici visse "bisognoso, dopo aver coi suoi fratelli consumato tutta l'eredità paterna" (p. 297). Oltre al suo cospicuo impegno nella cattedrale di Gallipoli, si sa che nel 1734 Carlo firmò e datò tre affreschi con Storie francescane nella volta della chiesa del convento francescano di Orta di Atella (Pinto, pp. 149 s.).
De Dominici collocò la morte del M. nel 1721, ma erroneamente. In effetti, essa non dovette precedere di molto il terminus ante quem del 17 giugno 1727, allorquando, risultando il padre deceduto, i figli riscossero dall'università di Sant'Antimo la porzione di compenso ancora dovuta per la tela eseguita per la chiesa parrocchiale della città.
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