FESTA, Nicola
Nacque a Matera il 17 nov. 1866 da Francesco e da Lucia Mazzei in una famiglia modestamente agiata, capace comunque di permettere al figlio la frequentazione del locale ginnasio-liceo E. Duni, dove, dal 1882 al 1884, ebbe insegnante di latino e greco il professore di prima nomina Giovanni Pascoli. L'insegnamento del Pascoli decise della scelta scolastica e della vita del F., ma non per questo va "mitizzato" il rapporto fra il discepolo e il suo maestro, quantunque continuasse con occasionale affettuosità, cortesia e nostalgia per tutta la vita del poeta. Questi si compiacque di avere scoperto nel mesto giovinetto di Lucania il futuro "illustre" filologo e si lasciò coinvolgere nelle battaglie concorsuali del Festa.
Altro, e durevole, fu invece il merito, il risultato dell'insegnamento impartito dal Pascoli al F.: la decisione d'una scelta in favore della filologia, cui conseguiva la scelta dell'università dove iscriversi. Che fu il fiorentino Istituto di studi superiori, cioè la facoltà e la scuola di G. Vitelli. Del quale il F. doveva diventare quasi un figlio d'anima, il discepolo prediletto.
A Firenze il F., pur di carattere chiuso e difficile, si trovò subito bene, lavorò sodo e si laureò con "una dissertazione sulla geografia e la cosmografia omerica, ricca di buone osservazioni e degna, secondo il parere della nostra Facoltà, di ogni elogio ... Ma la dissertazione del Festa è inedita, perché dell'operosità letteraria egli ha ben altra idea che non sia quella di coloro a cui hanno insegnato a pubblicare ogni aborto". Così il Vitelli, un decennio dopo la laurea del F. (Il signor Giuseppe Fraccaroli e i recenti concorsi universitarii di letteratura greca, Firenze-Roma 1899, p. 10 n. 1). Probabilmente, una dissertazione ancor troppo "letteraria" per chi doveva, o voleva, avviarsi ad essere "filologo", cioè in prima istanza editore di testi, possibilmente tardivi, non "classici" e non "letterarii". Il che anche importava un'esperienza di codici, massime della Laurenziana, da sfruttare e da catalogare.
Questi, invero, i lavori del F. nell'ultimo decennio del secolo, in cui seppe anche trar profitto dalla sua vivissima inclinazione alle matematiche e da certa propensione al filosofare etico-mistico. Pubblicò, per la Teubneriana, Giamblico (De communi mathematica scientia, Lipsiae 1891) e Palefato (De incredibilibus, ibid. 1902), preceduto ed accompagnato da numerosi articoli su codici, fonti, ecc. Né disdegnò, per necessità di vita, prima un posto di precettore presso una nobile famiglia del Valdarno inferiore, quindi l'insegnamento nel ginnasio municipale di Orvieto, donde lo liberò, senza concorso, nel 1894, la nomina a professore straordinario di lingua greca e latina presso l'Istituto di studi superiori. Poté così attendere con lena ai suoi studi greci, cui tosto affiancò severi, e allora pionieristici, studi bizantini, mentre collaborava alle iniziative del Vitelli, sia, dal 1891 gli Studi italiani di filologia classica, sia, dal 1897, la Società italiana per la diffusione degli studi classici, ch'ebbe, ed ha tuttavia, il suo organo nell'Atene e Roma.
La bizantinistica del F. ebbe larghi orizzonti e governò gran parte della sua vita. Il F. la intese come la lingua e la storia del medioevo "greco" tanto nella pars Orientis dell'ex impero romano quanto nell'Italia meridionale, in Sicilia, ecc. Agivano suggestioni "locali", la sua Matera ch'egli chiamò "mezzo greca" e nel cui dialetto ravvisò e ritrovò tracce dell'esperienza, non soltanto linguistica, bizantina (per esempio, i Lombardi, il Longibardus, ecc.), e il permanere di tradizioni e d'influssi "greci" nella stessa Cancelleria di Federico II. La bizantinistica, d'altronde, quasi naturalmente portava in area russa. Il F. perciò apprese il russo e se ne avvalse anche per un'attività letteraria a latere, la traduzione del Tarass Bulba di N. V. Gogol e di vari scritti di A. N. Majkov.
Stampò (Firenze 1897) l'edizione dell'epistolario d'un imperatore duecentesco, Teodoro Duca Lascaris, l'anno medesimo della scoperta del papiro bacchilideo, e l'anno di poi (ibid. 1898) eccolo apprestare un'edizione commentata delle Odie i frammenti di Bacchilide, la sua maggiore prova in campo "classico".
Forse per reazione al battage pubblicitario degli amici fiorentini, il F., già uscito malconcio dal concorso per la cattedra di Catania (concorso poi annullato dal Consiglio superiore su proposta del Vitelli), fu trattato ancor peggio dalla medesima commissione (relatore nuovamente G. Fraccaroli, mentre, ritiratosi D. Comparetti, la presidenza passò a M. Kerbacher). Anche questo concorso, e ancora su proposta del Vitelli, fu annullato dal Consiglio superiore, tranne per il primo vincitore, G. Setti. Mentre il Vitelli proclamava sul Marzocco "scandalosamenteingiusto" il verdetto, p. E. Pistelli indirizzava una lettera aperta al Pascoli, allora professore all'università di Messina, per sollecitare l'intervento a protesta e a sostegno dell'amico.
Il Pascoli rispose evasivo, anche per non guastarsi col Fraccaroli, recensente benevolo del suo primo volume dantesco: il quale Fraccaroli rendeva pubblica, frattanto, la sua stroncatura del Bacchilide in oltre settanta pagine della Rivista di filologia (1898-99).Negava alcun merito al libro del F., che tradiva evidenti la fretta e l'aiuto altrui, specialmente di Fr. Blass, mentre deliberatamente trascurava la metrica e troppo indulgeva, nella grafia, nello stile, nel paesaggismo e nello sforzo infelice del "bello scrivere", al descrizionismo già declinante (né solo per avversione all'uso e al metodo dello Zumbini, ma per una più affinata coscienza critica) e a certi modi e stilemi decadentistici di cui si compiacevano gli scrittori del Marzocco. Insorse il Vitelli (con l'opuscolo sopra citato), a difesa di troppe lezioni poi abbandonate dal medesimo F., e riducendo, comunque, i prematuri e pregiudizievoli elogi della cerchia fiorentina. Rispose al Vitelli il Fraccaroli con Il metodo critico del Prof. G. Vitelli (Torino 1899) e con l'augurio si facesse il silenzio intorno al F. e al suo Bacchilide. Ne profittò il F. forse anche più del necessario, se, rifatto il suo libro (Firenze 1916),accolse quasi tutte le critiche e correzioni del suo censore, si preoccupò della metrica e tagliò via risolutamente tutti i preziosismi grafici e descrittivi, dando all'opera propria un valore filologico normativo.
Nel 1900, scaduto il Vitelli dal Consiglio superiore, quindi eleggibile ed eletto (non senza un'attiva campagna in favor suo del Pistelli e del Pascoli) tra i giudici d'un nuovo concorso, il F. ne uscì vincitore, e vacando la cattedra di Roma per il ritiro del Piccolomini infermo, vi fu chiamato, preludendo al suo corso con la singolare prolusione Sulle più recenti interpretazioni della teoria aristotelica della catarsi nel dramma (Firenze 1901). Singolare, invero, perché, mentre assai giustamente il F. vi auspica "che tra gli studi filosofici e i filologici si stabiliscano più saldi e più intimi legami di quelli generalmente oggi esistenti", la prolusione medesima non costituisce, come dovrebbe, un contributo alla storia dell'estetica antica, né offre, quindi, un'interpretazione adeguata della catarsi aristotelica, quale in diverso clima storico-filosofico offriranno successivamente M. Valgimigli e A. Rostagni. Ed è anche significativo che, pur travagliatosi lungamente intorno alla cosiddetta edizione nazionale della Poetica, il F. non ne facesse poi nulla, impari, probabilmente, il filologo dinanzi a un testo non intelligibile senza un'adeguata preparazione appunto storico-filosofica.
Da Roma il F. non si mosse più. E, sebbene abbia avuto fra i propri allievi gli stessi maggiori maestri del Novecento (per esempio, L. Salvatorelli e G. Levi Della Vida, L. Venturi, G. Pasquali e P. P. Trompeo), né essi poterono sentirsi suoi discepoli sebbene abbia esercitato autorità e potere in ambito di commissioni per la maturità e le scuole medie; sebbene sia presto entrato ai Lincei e in Arcadia (di cui fu a lungo custode generale); sebbene abbia collaborato alla Cultura, e con C. De Lollis sia stato per molti anni condirettore d'una rivista militante e "crocianeggiante", non si può dire che abbia lasciato una traccia incisiva nella cultura, classica e non, del Novecento italiano. Promosse, con un quindicennio d'incarico ininterrotto, gli studi bizantinistici, ma stranamente battagliò, sulla Cultura appunto, con articoli a un tempo ingenui e faziosi, contro Gabriele D'Annunzio e contro G. Ferrero (C. Barbagallo, L'opera storica di G. Ferrero e i suoi critici, Milano 1911, pp. 176 n. 1, 211 n. 2).
Alle soglie della prima guerra mondiale, comparve, non senza l'elogio del sodale pascoliano L. Siciliani, un F. "essoterico", desideroso cioè di uscir dalla cerchia dei tecnici e di far profittare il cosiddetto gran pubblico dell'opera sua di ellenista. In collaborazione con una giovane allieva, Hilda Montesi, che poi divenne sua moglie, intraprese una serie notevolissima di versioni prosastiche da poesia greca, Sofocle (tranne l'Aiace), i due poemi d'Omero e, contemporaneamente, saggi illustrativi e divulgativi, sull'Atene e Roma soprattutto, mentre dava opera, col Salvemini e altri, ad organizzare gli insegnanti medi e universitari, con un chiaro programma antimassonico e cattolico, ma sostanzialmente "liberale". Così, alla destituzione "patriottico-bellica" del collega K.J. Beloch, si batté vigorosamente perché gli succedesse il cattolico bensì, ma neutralista, G. De Sanctis e, fondato nel 1919 il Partito popolare italiano, tosto vi aderì. Candidato (non riuscito) appunto per il partito popolare alle elezioni politiche del maggio 1921, ebbe a subire la violenza delle prime squadre fasciste, in una battaglia ch'ebbe in Basilicata particolare drammaticità fra clientelismo, squadrismo, ecc. (come attestano anche le lettere di B. Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione, a Giovanni Castellano, Napoli 1985, pp. 113 ss.). Poco di poi (14 apr. 1922) si costituiva in Roma l'Associazione professori universitari cattolici, che elesse il F. a suo presidente (donde più strette relazioni con G. De Sanctis, presidente della sezione torinese dell'Associazione stessa e in più presidente d'una società cattolica di cultura). Il 1925 lo trovò tra gli antifascisti militanti. Patrocinò con impegno e successo l'ascrizione del Croce all'Arcadia. Fu tra i primi firmatari del "manifesto Croce" e il successivo 10 giugno apparve tra i collaboratori d'un volumetto, subito sequestrato dalla polizia, in memoria di G. Matteotti nel primo anniversario dell'assassinio: la traduzione. o trascrizione appunto in chiave Matteotti, della pagina platonica sul Giusto perseguitato e crocifisso dai nemici della Verità. Ma il suo antifascismo durò poco.
Licenziò allora, primo volume dell'edizione nazionale, il testo critico dell'Africa (Firenze 1926) e l'accompagnò con un Saggio sull'"Africa" del Petrarca (Palermo 1926), il maggior frutto dei suoi studi sull'umanesimo. Il Saggio è ancora tipico della "scuola storica"; è, in altri termini, una storia esterna del poema (cronologia compositiva, edizioni, traduzioni, lacune, ecc.), con troppo scarso rinvio alle fonti del poema (come tosto avvertì il suo cordialmente severo recensore E. Fraenkel) e nessun tentativo o proposito d'individuare finalità, scopo e poesia dell'Africa, benché, nell'offrire il Saggio in dono nuziale alla figlia di G. Gentile, augurasse al poema di "diventare un giorno - speriamo vicino - il nostro poema nazionale".
Era la fase di transizione al fascismo, confermata dall'autoscioglimento dell'Associazione professori mediante referendum tra i soci (il F. comunicò a De Sanctis i risultati di tale referendum il 25 giugno 1926).La politica "perbenistica" del regime, la bonifica dell'Agro Pontino, la campagna demografica, la conciliazione infine fecero il resto, non foss'altro per i legami del F. col peggior ambiente clerico-fascista dell'Urbe, la sua attività in Arcadia e all'Istituto di studi romani, imperversando altresì le celebrazioni bimillenarie di Virgilio, di Orazio e di Augusto. Il F. trasse argomento da un discorso sull'Originalità di Virgilio (in Nuova Antologia, settembre-ottobre 1930, pp. 333)per inveire contro la critica del Croce e del Norden, del Marchesi e del Fiore, accusati di antipatriottismo e di scarso o punto amore per la (rinnovata) latinità (littorio) imperiale. Dettò, quindi, per il volume collettivo dell'Accademia dei Lincei (Augustus, Roma 1938)un saggio (pp. 251-305),dove elogia il depoliticizzamento universalistico della letteratura augustea, esalta di Orazio le odi romane e di apparato, ché "toccava all'età nostra, all'Italia fascista, instaurare l'interpretazione integrale, il giudizio complessivo ed esatto dell'opera multiforme del poeta di Venosa" (p. 293);dopo di che non si perita di presumere "di avere additato vie nuove alla giusta comprensione di quella età che oggi vogliamo celebrare. E lo afferma volentieri, in quanto sa che il merito non è suo, ma di chi ha voluto e saputo rinnovare nell'Italia d'oggi la vita e le gesta e i propositi di venti secoli addietro" (p. 299). Nel medesimo stile è il breve libro sull'Umanesimo (Milano 1935),che riesce non di meno a serbare un onesto equilibrio fra il pasticcio dei coevi cattolici alla Toffanin e la sola storica immagine d'origine protestantico-idealistica e tedesco-meridionale. Infine la traduzione (1936)latina dei discorsi "imperiali" del Mussolini, analoghe epigrafi latine per la Città universitaria di Roma (che non gli perdonò, pur al F. sempre assai benevolo, il De Sanctis) e la difesa dell'autarchia.
Perdurava, tuttavia, accanto al F. "essoterico" il probo e silenzioso filologo esoterico, impegnato, anzi, di questi anni, in una delle sue opere più valide: i due volumi laterziani (Bari 1932-35) dei Frammenti degli stoici antichi. Intrapresa, inizialmente, come un semplice volgarizzamento degli Stoicorum veterum fragmenta (S. V.F.), edita da H. von Arnim, la silloge del F. più e più acquistò, rispetto all'originale greco-germanico, in annotazioni, illustrazioni e ritratti introduttivi dei filosofi dei quali il F. commenta i frammenti, provvedendo così anche ad una ricostruzione delle opere perdute. Con tale suo estremo lavoro il F. conferma e avvalora, altresì, una felice scoperta papirologica del Vitelli e di M. Norsa.
Ormai declinante in salute, si vide, sciolta l'Accademia dei Lincei, "aggregato" all'Accademia d'Italia (1938) ed entrò (autunno 1939) in Senato, "per opera del Duce".
Il F. si spense in Roma, il 30 maggio 1940.
Bibl.: Un elenco, incompleto né sempre corretto, degli scritti apprestò la vedova H. Montesi Festa, in Attidell'Accad. degli Arcadi, XXI-XXII (1940-41), pp. 29 ss. Di gran lunga il meglio sul F., pur nell'inevitabile diversità dei singoli interventi, è nel volumetto N. F., Venosa 1984, cioè gli Atti del convegno di studio, Matera, 25-27 ott. 1982. Insigne, fra gli scritti ivi raccolti, il saggio di M. Gigante, pp. 61 ss., che ha pure stampato (ibid., pp. 87 ss.) un folto manipolo di lettere del F. al Vitelli. Sul termine, il necrologio di G. Pasquali, rist. in Scritti filologici, II,Firenze 1986, pp. 772-774 (per anteriori e forse più benevoli giudizi del Pasquali sul F., ibid.,pp. 741 ss.). Affettuosa, ma generica e spesso inesatta, la commemorazione di N. Terzaghi, in Atti dell'Accad. degli Arcadi, XXI-XXII (1940-41), pp. 12 ss. Sul F. e l'ambiente fiorentino-pascoliano, si veda P. Vannucci, Pascolie gli scolopi, Roma 1950, pp. 167 ss., e L. Siciliani, I voltidel nemico, Milano 1918, pp. 60-68. Per l'attività del F. nell'Associazione dei professori cattolici, vedi S. Accame, G. de Sanctis fra culturae politica, Firenze 1975, passim, adnomen. Larecensione di E. Fraenkel all'ed. dell'Africa (cui F. rispose debolmente sulla Cultura, VII [1928], pp. 168 ss.) è rist. in KI. Beiträgezur klassischen Philologie, Roma 1964, II, pp. 527-538. Ulteriore bibl. in Enc. Ital., App. II, p. 931. V. ora anche G. Sasso, Variazioni sulla storia di una rivista italiana: "La cultura" (1882-1935), Bologna 1992, adIndicem.