MARTONI, Nicola
de. – Nacque a Carinola, in Terra di Lavoro, presumibilmente verso la metà del sec. XIV. Unica fonte su di lui è il resoconto del suo viaggio in Terrasanta.
Era notaio a Carinola. Dal matrimonio con Costanza ebbe dei figli morti prematuramente e seppelliti nella tomba di famiglia nella cappella patronale di S. Caterina nella cattedrale di Carinola, di cui il fratello era arcidiacono.
Nel 1394-95 il M. compì un viaggio in Egitto e Terrasanta, accompagnato da un famiglio, insieme con Antoniazzo di Aspello di Sessa e Cobello di Dyano di Teano, nobiluomini del Regno. Si imbarcò a Gaeta il 17 giugno 1394, toccò Rodi il 13 luglio, giunse ad Alessandria il 25; continuò in barca sul Nilo fino al Cairo, dove fu il 20 agosto. Da lì, con una carovana di cammelli, raggiunse il monastero di S. Caterina nella penisola del Sinai l’8 settembre. Il 22 dello stesso mese era a Gaza, il 26 a Betlemme da cui ripartì il 28 per Gerusalemme, dove rimase sino al 2 ottobre. Il 25 ottobre s’imbarcò da Giaffa per Beirut, da dove iniziò la sua anabasi che lo condusse a spostarsi tra le isole dell’Egeo in cerca di una nave che lo riportasse a casa. Si trovò quindi a passare, tra gli altri luoghi, per Cipro, nuovamente Rodi, Cos, Atene, Negroponte, Corfù; tra le altre vicissitudini, all’isola di Termia il M. e i suoi compagni riuscirono a sfuggire a un accerchiamento di «corsari». Il 6 maggio 1395 sbarcarono sulla costa pugliese, a San Cataldo. Il 27 maggio tornarono a Carinola, dove il M. seppe della morte della moglie, avvenuta il 10 aprile.
Si ignorano luogo e data della sua morte.
Si deve a L. Le Grand la scoperta e la pubblicazione, nel 1865, dell’itinerario del M., in latino, nel ms. Fonds latin 6521 della Bibliothèque nationale di Parigi.
Nel suo resoconto il M. descrive la sua paura fino alle lacrime, quando la prima burrasca in mare «agitò i flutti con tale violenza che si vedevano la vela e l’albero piegarsi fino a toccare l’acqua. A questa vista, io notaio Nicola, del tutto terrorizzato, dopo essermi trovato un luogo appartato in un angolo della poppa piangevo amaramente i miei peccati e rigavo di lacrime la mia faccia, vedendo tutti i marinai in preda alla paura e pregando Dio affinché avesse misericordia per i miei peccati e accogliesse la mia anima affidata nelle sue mani» (Io notaio, p. 21). Nel porto di Beirut, aveva deciso di scendere a terra per alcuni acquisti; il mare era in tempesta e le ondate colpivano di traverso la barca, che era piena di sale: «La barca si riempì di acqua. Io non sapevo nuotare e mi considerai morto; e se non perché volle Dio, aiuto di tutti i disperati, che un Saraceno arrivasse fino a me e con gran fatica mi tirasse fuori dal mare, lì i miei giorni sarebbero finiti. Perciò non c’è da meravigliarsi se per questo e molti altri pericoli che mi occorsero prima e dopo, i peli della barba e i capelli sulla testa divennero precocemente bianchi» (p. 103).
Il M. è uomo colto del suo tempo: conosce le Sacre Scritture e cita anche la storia romana e i poemi omerici, anche se fa un po’ di confusione fra Troiani e Romani e tra il colosso di Rodi e i Colossesi dell’Asia Minore ai quali s. Paolo scrisse una delle sue lettere. Durante la sosta nell’isola di Negroponte ricorda anche alcuni eroi del ciclo bretone.
Curioso e appassionato del mondo antico, se ne aveva occasione visitava le città e i borghi, Alessandria e il Cairo, Nicosia e Rodi, con una predilezione per le rovine dei monumenti antichi, come ad Atene, a Corinto e a Costanza, nei pressi di Famagosta. La sua descrizione delle rovine di Atene nel ricordo di Aristotele e Platone risulta l’unica per il XIV secolo.
Riesce a dare pathos al suo racconto, pur indulgendo a latinizzare le parole che normalmente usa in napoletano: tummolo come unità di misura, tommola per volta, crisommole per albicocche, palmento per la vasca dove pigiare l’uva, zirro per orci, tartarecto per piattaforma, barcello per piccola barca, caula per cavoli, pitarcio per anfora.
Viaggia sempre con la mente rivolta ai luoghi già noti, in particolare alla sua città di origine. Fuori di Gerusalemme, visitando la chiesa del monastero della S. Croce, la paragona a quella della sua città. A Betlemme, la vista dei mosaici nell’abside della basilica della Natività gli ricorda il mosaico del presbiterio della chiesa di S. Bernardo a Carinola, con la Vergine con Bambino tra Abramo e Davide. A Rodi, descrivendo la chiesa di S. Antonio, vede «lungo il perimetro del cortile 51 sepolture ad arco con cupole come quelle di San Matteo di Carinola» (p. 27). Di Carinola ricorda l’acqua e la paragona a quella del Nilo che è così buona – dicono i Saraceni – perché viene dal paradiso.
Dopo Carinola, il paragone che ricorre più frequentemente è con Capua, di cui ricorda la cattedrale, la porta di Federico II e la piazza del mercato. Visitando nella penisola del Sinai il monastero di S. Caterina, ha un ricordo per la cattedrale di Sessa Aurunca. In Egitto, descrivendo il sistema di canali con i quali venivano riempite le cisterne di Alessandria, si ricorda di Teano. La città di Corfù «è grande, stimo, come Teano» (p. 163).
Il paragone tra Alessandria e Napoli è a favore di quest’ultima; l’arsenale di Famagosta nell’isola di Cipro «è grande e bello come quello di Napoli» (p. 109). A Nicosia, nell’isola di Cipro, il palazzo del re di Cipro «è piuttosto bello con una grande piazza d’armi come Castel Nuovo di Napoli» (p. 115).
Il M. è attirato dai monumenti, ma mostra una predilezione per l’acqua e per i giardini e la terra coltivata. Il bellissimo giardino di Dayr al-Arba῾in sul monte Sinai nella valle che egli chiama di S. Maria di Valle Verde ai piedi del Jabal Catherine con molte e diverse piante da frutto – fichi, uva, frutti con la forma e il sapore delle pere, prugne, pesche, mandorle, mele, melegrane e pergole d’uva – gli fa scrivere: «veramente un giardino che sarebbe bello anche a Sorrento e a Salerno» (p. 69). Nicosia con giardini all’interno delle case «in qualche punto sembra la città di Alife con luoghi alberati all’interno» (p. 115). Per le belle vigne della montagna di Giudea non ha un paragone: «Ritengo che tutta la Terra di Lavoro non abbia tante vigne, ma [i Saraceni] non fanno il vino» (p. 93), perché – spiega altrove – «lì non si beve vino ma sempre acqua» (p. 53). Ad Atene ognuna delle 60 colonne scanalate del Partenone «è più alta delle scale della vendemmia» (p. 139) evidentemente in Terra di Lavoro dove si coltivava e si coltiva la vigna arrampicata sugli alberi. Il Giordano, dove si reca per commemorare il battesimo di Gesù, «mi sembra che somigli al fiume di Castro Vairano [cioè al Volturno], ma non è così largo» (p. 89).
Nell’isola di Cipro l’acqua arriva a Famagosta «convogliata da un acquedotto costruito con pilastri e archi, come nei pressi di Scauro nel territorio di Traietto o Garigliano» (p. 111). Nel Delta egiziano, attraversato in barca, nota lungo i canali le norie per l’irrigazione azionate da bufale, che giudica più piccole di quelle di Terra di Lavoro. Tra gli elefanti visti al Cairo, uno «era particolarmente grande, stimo in verità che avesse le dimensioni di quattro grossi bufali» e aggiunge: «La sua forma è come si dipinge» (p. 55). Incuriosito chiede il prezzo di questi animali e annota che i buoi sembrano meno cari che a Carinola.
Roma resta la città più lontana del suo orizzonte culturale. Nella basilica del S. Sepolcro a Gerusalemme la cupola a cono aperta in alto, che copre l’edicola sulla tomba di Gesù, gli ricorda il Pantheon e camminando per le strade del Cairo ha l’impressione che siano come le strade e le case di Roma.
Nei monumenti che visita viene attirato in modo particolare dalle pitture. Al Cairo la chiesa di S. Maria di Cava «è una bella chiesa con immagini dipinte di nostro Signore, della beata Vergine Maria e di altri santi» (p. 49). S. Caterina al Sinai «è pavimentata con lastre marmoree e lavorate a mosaico ed è dipinta con molte pitture oltre ad avere numerose e bellissime icone» (p. 65). I pellegrini partecipano alla S. Messa celebrata in «una bellissima cappella con il soffitto mirabilmente lavorato dedicata alla beata Vergine Maria» (p. 67).
Nella grotta della Natività nota «una bellissima icona della Natività del Signore» (p. 73) e racconta che il chiostro è «magnificamente decorato con un mosaico e sul lato maggiore ci sono i tre Re Magi [che] offrirono doni a Gesù Cristo» (p. 75).
Nella chiesa di S. Francesco a Beirut menziona un crocifisso dipinto che gli dà occasione di raccontare il miracolo del sangue sprizzato sotto il coltello come risposta al gesto sacrilego di due saraceni che volevano sfigurarlo. Il più bello tra i crocifissi visti lo nota nella chiesa di S. Stefano a Famagosta. La chiesa di S. Sofia di Nicosia ha la «volta dipinta di un azzurro delicato con stelle d’oro dall’arco trionfale fino all’altare maggiore» (p. 115). A Patrasso, in una sala del palazzo dell’arcivescovo lunga 25 passi, vede dipinta «sulle pareti tutt’intorno la storia della distruzione di Troia» (p. 157).
Il M. è il primo pellegrino a ricordare di essere stato accompagnato, nella sua visita ai luoghi santi di Gerusalemme, dai frati minori del convento del Monte Sion.
Diverse annotazioni del M. acquisiscono un valore che va oltre lo scopo religioso del suo viaggio-pellegrinaggio e si inseriscono nel contesto della storia coeva del Regno di Napoli e delle vicende politiche nel Mediterraneo orientale. Ad Alessandria, appena sbarcato, dopo aver illustrato il sistema di comunicazione con colombi tra il porto e la capitale, descrive i due porti della città, uno per le navi cristiane e l’altro per quelle saracene: «La ragione è che da quel porto fu conquistata la città di Alessandria dal re di Cipro, e mi fu mostrato il punto fino al quale il re si era spinto con le sue truppe nella distruzione della città; stimo che l’ottava parte di Alessandria fu devastata» (p. 31). Il M. si riferisce agli effetti dell’incursione della flotta di Pietro I re di Cipro che aveva forzato il porto il 10 ott. 1365 saccheggiando la città. Un episodio che aveva lasciato tracce vistose in città a cominciare dal colore dei turbanti diventato un segno di riconoscimento perché «i Saraceni vogliono stabilire se si tratta di Giudei [con turbante giallo] o di Cristiani [con turbante azzurro]» (p. 33).
L’attacco aveva creato sospetto contro gli Occidentali, pellegrini, mercanti o frati, a torto o a ragione ritenuti possibili spie o informatori delle potenze che in quel periodo si contendevano il controllo del Mediterraneo. In quella atmosfera di sospetto anche il racconto del M. poteva essere considerato una relazione informativa: è un fatto indubitabile che il M. si trovava sempre nel punto più caldo a registrare gli avvenimenti, a descrivere i porti, la popolazione delle città e dei casali, tanto da far pensare ad annotazioni strategiche utili a qualcuno. Non è perciò un caso che il manoscritto sia stato copiato ad appena due anni dal viaggio, nel marzo 1397.
Il racconto del M. è stato pubblicato da L. Le Grand, Relation du pèlerinage à Jérusalem de Nicolas de M. notaire italien, in Revue de l’Orient latin, III (1895), pp. 566-669; e successivamente a cura di M. Piccirillo, Io notaio N. de Martoni. Il pellegrinaggio ai Luoghi Santi da Carinola a Gerusalemme 1394-1395, Gerusalemme 2003.
Fonti e Bibl.: G. Golubovich, Biblioteca bio-bibliogr. della Terra Santa e dell’Oriente francescano, V, Quaracchi 1927, pp. 305-309; E. Cerulli, Il miracolo postumo di s. Tommaso apostolo secondo l’Itinerario del notaio de M. da Carinola, in Id., Etiopi in Palestina. Storia della comunità etiopica di Gerusalemme, I, Roma 1943, pp. 174-199; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, VIII, p. 213, s.v. Nicolaus de Marthono.