NICOLA d'Angelo
NICOLA d’Angelo (Nicolaus de Angelo; Nicolaus Angeli; Niconaus de Angilo; Nicolaus natus Angelus). – Mancano i dati biografici di questo scultore e architetto attivo a Roma e nel Lazio prevalentemente nella seconda metà del secolo XII.
Il padre Angelo si può identificare con l'artista attivo a Roma, intorno alla metà del secolo XII, nella realizzazione di arredi interni (cibori con altare in particolare) con i fratelli Giovanni, Pietro e Sassone. Loro padre era Paolo, uno dei capostipiti della tradizione plastica romana, operoso nell’Urbe e nella regione nei primi decenni del secolo XII (Claussen, 1987).
Nicola d’Angelo si trovò a operare in un periodo di grande fervore artistico per la città, in concomitanza con il rinnovamento architettonico, dell’arredo e della decorazione plastica delle principali chiese cittadine promosso da papi, cardinali e funzionari della Curia durante i pontificati intercorsi tra Alessandro III (1159-1181) e Innocenzo III (1198-1216). Fu tra i primi a realizzare opere in collaborazione con membri di altre famiglie, aprendo una strada nuova nel panorama della tradizione artistica romana e rivelandosi, oltre che esecutore, anche responsabile e soprintendente di opere, alla cui realizzazione parteciparono artisti diversi.
La sua firma («Nicolaus Angeli fecit hoc opus») era presente sul pilastro destro del portico di S. Giovanni in Laterano a sancire la paternità delle parti strutturali e dell’impianto dell’opera, soggetta a riattazioni prima della completa distruzione in età moderna (Herklotz, 1989). Il pronao presentava sei colonne di spoglio su cui poggiava un’ampia fascia architravata, secondo una tipologia che si affermò a Roma a partire dalla metà del XII secolo. L’opera monumentale era percorsa da un’iscrizione inneggiante alla Chiesa e alla supremazia papale che accompagnava una serie di scene musive istoriate con lo stesso intento ideologico, come il Battesimo e la Donazione di Costantino, martìri di santi e la Conquista di Gerusalemme di Tito, sprone e monito per la recente perdita della Terra Santa (1187), probabile terminus post quem per la decorazione del monumento.
Con la collaborazione di Pietro Vassalletto, primo esponente noto della omonima famiglia di marmorari romani attivo nei decenni a cavallo tra XII e XIII secolo, eseguì la colonna reggicandelabro pasquale di dimensioni monumentali della basilica di S. Paolo fuori le mura, collocata in origine presso l’ambone sinistro della schola cantorum e oggi nella navata centrale presso il presbiterio (Bassan, 1982; 2011). Il manufatto, di cui fu responsabile in primo luogo Nicola – come indica l’iscrizione sull’anello di base delle Storie della Passione («+ Ego Niconaus de Angilo cum Petro Bassalletto hoc opus co(m)plevi») – si ispirò, nella divisione in registri figurati e con racemi, alle colonne costantiniane del presbiterio di S. Pietro in Vaticano, già replicate agli inizi del secolo XII negli esemplari della chiesa romana di Trinità dei Monti e di S. Carlo a Cave (Roma). Nelle scene istoriate l’artista e i suoi collaboratori ripresero la tradizione della scultura di figura già presente a Roma rinnovandola sui modelli della classicità e della tarda antichità, richiamati non più solo per l’iconografia ma anche nei caratteri stilistici, come rivelano i riferimenti alle rappresentazioni dei sarcofagi paleocristiani.
Eseguì un’opera anche nella chiesa di S. Bartolomeo all’Isola, come risulta da un’iscrizione perduta: «Nicolaus de Angelo fecit hoc opus». Fu probabilmente il responsabile del recinto presbiteriale, con parapetti, sostegni e architrave, che circondava l’altare nella cappella santa di S. Bartolomeo, come si può dedurre da un’altra epigrafe, anch’essa perduta, con la data lacunosa dell’opera (1180-99) e una lunga memoria apostolico-agiografica, e dalle due colonne (oggi nella chiesa dei Ss. Bonifacio e Alessio) superstiti delle 19 eseguite per sostenere la cornice architravata da un altro artista collaboratore di Nicola, «Iacobus/ Laurentii», figlio del capostipite della famiglia, Lorenzo di Tebaldo, attivo tra il 1180 e il 1220 a Roma e nel Lazio (Kinney, 2005; Creti, 2009).
La paternità del campanile della cattedrale di Gaeta è attestata da un’iscrizione posta nei cunei laterali della chiave di volta (con la raffigurazione di un’aquila) sul secondo arco interno del pianterreno: «Nico//la(us)/ n(atus) Ange//lu(s) ro/manu(s)// magi/ster m(e)// fecit». L’opera fu costruita nella seconda metà del XII secolo, addossandola, decentrata, al prospetto; alla base un fornice archiacuto di grandi dimensioni, con pilastri e volta a crociera retti da colonne di reimpiego, conduceva all’ingresso principale della chiesa medievale (Fiengo, 1969; D’Onofrio, 1996-97). La base fu innalzata con il riuso di grandi conci di calcare, frammenti ed epigrafi antichi e altomedievali; due leoni angolari all’altezza dell’arcata ricordano esemplari analoghi dei portali e degli arredi interni delle chiese romane del tempo, così come i piani successivi, aperti da bifore a doppia ghiera, sono realizzati in cotto con elementi decorativi e inserti in marmo e pietra confrontabili con le soluzioni adottate nei campanili coevi dell’Urbe (più tarda è la parte terminale con la cella campanaria, completata nel 1279).
Nella cattedrale di Sutri, l’epigrafe perduta dell’altare maggiore (1170) menzionava un artefice Nicola (con il figlio), ma si tratta probabilmente di Nicola figlio di Ranuccio (o Rainerius, operoso a Roma nella prima metà del XII secolo), artista attivo nel Lazio settentrionale nella seconda metà del XII secolo. Nel pulpito ricomposto del duomo di Fondi (Gianandrea, 2006), le cui lastre intarsiate sono attribuibili alla prima metà del secolo XIII, sono presenti due archivolti che recano nell’iscrizione la menzione di uno scultore, Giovanni «romano genito cognomine Nicolao», nel quale si è voluto riconoscere un figlio di Nicola d’Angelo, ma non ci sono elementi sufficienti per confermare o rigettare tale ipotesi.
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