CHIAROMONTE, Nicola
Nacque il 12 luglio 1905 a Rapolla (Potenza) da Rocco e da Anna Catarinella. Di famiglia cattolica osservante - il padre medico ed antifascista -, il C. iniziò gli studi liceali nel romano collegio Massimo, che volle abbandonare per concluderli al liceo statale "Torquato Tasso". Iscrittosi all'università di Roma, si laureò in giurisprudenza nel 1927, maturando in quegli anni i primi rapporti con l'antifascismo militante e il suo definitivo distacco dalla tradizione familiare, che doveva divenire sempre più remota nel volgersi della sua esperienza culturale e civile, e tuttavia lasciargli il segno di una naturale severità nella riflessione intellettuale.
Anni più tardi, tracciando il ritratto del fratello Mauro, divenuto gesuita (Il gesuita, in Scritti politici, pp. 137 ss.), esprimeva le ragioni di quel suo ideale distacco, collocandole in un aspetto caratteristico della tradizione, non solo religiosa, ma anche politica del nostro paese: "la verità a proposito del realismo politico odierno è che esso trasforma la vita politica in una questione di inerzia collettiva, non di cambiamento. La Real-politik vive per forza di cose, di abitudini di massa e di tradizioni ben salde, non di pensieri nuovi e di impulsi spontanei" (p. 144).
Le sue prime esperienze pubblicistiche, durante gli studi universitari, già esprimono questa sua attitudine a non disgiungere l'impegno politico dalla riflessione etica ed intellettuale, che era, in polemica con il fascismo, la critica all'attivismo, come nichilismo morale, che si ritrova nell'articolo Diagnostica dei ventenni, pubblicato sulla rivista protestante Conscientia (25 sett. 1926), diretta da G. Gangale e P. Chiminelli, e sulla quale, come su Il Mondo di G. Amendola, scrisse vari articoli di cultura e di costume, e le prime note teatrali a cui dopo il 1930 seguirono le critiche cinematografiche sull'Italia letteraria.
Mentre attendeva alla stesura di una monografia su Michelangelo il cui manoscritto andò perduto, il C. collaborava a Solaria, la rivista diretta da A. Carocci, con un saggio, Note sulla civiltà e le utopie, uscito successivamente nel 1935, in cui emergono i primi connotati della sua originale polemica antistoricistica, che è anche rifiuto della tradizione neoidealistica italiana, di quella antifascista del Croce, come di quella fascista del Gentile, con una stringata disamina dei presupposti hegeliani impliciti nelle pur diverse nozioni, storicistica e attualistica, della "politica", rispetto a cui il C. recupera il principio kantiano dello "Stato di diritto" e con esso un vigoroso giusnaturalismo etico, già nutrito di una profonda conoscenza del pensiero classico. Sono motivi che il C. prende contemporaneamente a svolgere, su una falsariga più immediatamente politica, nei Quaderni di Giustizia e Libertà. Sono queste cronache politiche clandestine dall'Italia (la prima è del dicembre 1932: ora sono raccolte nel volume degli Scritti politici e civili, a cura di M. Chiaromonte, Milano 1976) e abbracciano un arco di eventi importante, come la stabilizzazione del regime dopo la crisi del '29-'30 e il parallelo sopravvento del nazismo in Germania, con un'analisi molto lucida, concreta, nient'affatto intellettualistica, in cui però il C. tende a risalire oltre gli eventi per cogliere quelli che gli paiono essere i motivi di fondo della crisi della civiltà europea.
Di qui la riflessione che "il fascismo è il morbo più grave, non il vero e serio problema del mondo contemporaneo: veri e seri problemi sono che cosa il mondo deve fare della tecnica, come bisogna organizzare la vita economica perché l'economia non diventi la tiranna della vita sociale, come, infine, salvare la civiltà moderna eliminando, ciò che ha portato essa civiltà alla tremenda impasse nella quale si dibatte", per soggiungere che "questi problemi vanno probabilmente risolti con spirito largamente socialista e non liberale, ma libertario" (p. 20). Di qui anche la sua prima critica all'antifascismo militante, a quel suo ridursi a "semplice negazione della negazione", alla sterilità di un programma di imperativi categorici, "diritto, giustizia, libertà, civiltà, ragione", in cui si compendiava il problema della "questione d'ordine morale".
Nel 1934 il C. emigrò in Francia, per evitare il mandato di cattura già firmato per lui in Italia, e più stretti si fecero i suoi rapporti con gli ambienti del fuoruscitismo antifascista, in particolare con il gruppo di Giustizia e Libertà. Si cementava allora l'amicizia del C. con Andrea Caffi (cfr. A. Caffi, in Scritti politici, pp. 150 ss.) e un rapporto di scambio intellettuale, attraverso cui egli allargava il raggio delle sua conoscenza della cultura tedesca, in particolare con lo studio del pensiero di Husserl, e di quella mitteleuropea. Partecipando insieme ai dibattiti parigini di Giustizia e Libertà, il C. condivise con il Caffi, alla fine del 1935, e con M. Levi e R. Giua, l'opposizione alla trasformazione in partito politico di quell'associazione antifascista, "dovuta al desiderio che l'antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e più intellettualmente avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria" (p. 162).
Sono motivi che segnano una continuità con il suo pensiero, ma costituiscono anche un passo ulteriore in avanti, verso quella sua caratteristica "antipoliticità", in cui compendiava uno degli elementi essenziali dell'autonomia del "mestiere intellettuale", che sarà poi il tema centrale della sua testimonianza civile nel periodo del secondo dopoguerra. Già fin in quegli anni, nel cuore dei dibattiti dell'antifascismo militante, il C. elaborava i connotati della sua battaglia per la "libertà della cultura", che, nel suo caso, certamente non sono circoscrivibili nella formula della guerra fredda.
Probabilmente fin dal tempo della guerra di Spagna, a cui il C. partecipò come mitragliere nella squadriglia dell'aviazione repubblicana organizzata da A. Malraux, egli aveva maturato il suo definitivo distacco critico da quella che, nell'antifascismo, egli intravvedeva, come una commistione spuria tra cultura e politica. La guerra di Spagna gli riserbò una parte di protagonista, quella del personaggio di "Scali", nel romanzo L'Espoir di Malraux, ma, come ha notato Silone (testimonianza in Scritti, p. 340), il C., tra quelli "che parteciparono a quell'impresa, forse è stato l'unico, o uno dei pochi, a non farne oggetto di pubblicità". Il C. affrontò l'argomento in poche note succinte. Una, pubblicata su Critica sociale nel 1959 (20 giugno), dal titolo La guerra di Spagna, è una cronaca scarna, lineare degli avvenimenti. C'è tuttavia in essa quel connotato "antieroico", quel rifiuto alla celebrazione sentimentale di quella epopea popolare, nella considerazione della tragicità degli eventi, che non troviamo in Orwell, Koestler, Hemingway e altri. E ciò non è solo "un riflesso della sua visione dell'uomo nell'irrazionalità della storia". Il C. in realtà scevera attentamente i fatti, e il suo rifiuto non sta tanto nella considerazione astratta della irrazionalità della storia, ma nella ribellione all'accettazione individuale della sua necessità, che riduceva il dramma della guerra civile allo scontro tra due totalitarismi, e vedeva riflessa, nella fragilità della democrazia spagnola, quella delle democrazie europee.
La guerra civile spagnola fu probabilmente per il C. la prova dell'identità negativa dei due totalitarismi, che non era per lui semplice comparazione tra stalinismo e nazismo, ma comune trasgressione al principio dello Stato di diritto, al carattere "naturale" delle libertà e dei diritti civili in cui si esprimevano i fondamenti della civiltà europea. Si approfondiva così in lui il distacco tra politica e cultura, lungo un itinerario molto diverso da quello della maggior parte degli intellettuali in quello scorcio d'anni.
Tornato a Parigi, con l'invasione tedesca riparava prima a Tolosa, dove gli moriva la prima moglie Annie Pohl; poi, dopo essere stato arrestato, riusciva a imbarcarsi, nel 1940, per Algeri. In Algeria strinse amicizia con Camus; trascorse un periodo in Marocco, a Casablanca, frequentando il gruppo di antifascisti italiani, ivi concentrati in attesa di sbarcare in Italia, tra i quali A. Cianca, A. Garosci, L. Valiani. In una testimonianza di quest'ultimo si avverte tra le righe la traccia delle differenze di valutazione tra il C. e i suoi amici, la determinatezza della sua vocazione individualistica rispetto agli eventi, che a ben guardare è testimonianza di difficile e rara coerenza.
Alla fine del 1941 il C. partiva per gli Stati Uniti, dove risiedette, salvo un viaggio in Italia nel 1947, fino al 1948. Stringeva affettuosa amicizia con G. Salvemini, partecipando, come redattore, al settimanale italiano di New York, L'Italia libera, si faceva anche scrittore di lingua inglese, collaborando a The New Republic,Atlantic Monthly,Partisan Review e ispirando accanto a Dwight Macdonald la rivista Politics, e sposava la sua seconda moglie Miriam Rosenthal, che alla morte di lui si farà curatrice delle sue opere. Sono, gli scritti di questo periodo, in gran parte commenti a caldo su cose italiane, ma, tra queste, vanno segnalate alcune riflessioni più di fondo, come la nota su Proudhon, scritta in polemica con J. S. Schapiro, quella su Bernanos e la libertàcristiana e, infine, il commento a La morte di Gandhi, che sviluppa il tema della violenza, più tardi ripreso nel saggio su Tolstoj, Violenza e non violenza, in Tempo presente, agosto 1968 (Scritti..., pp. 299-314).
Chiamato a collaborare all'Unesco, il C. nel 1949 si trasferiva a Parigi. Negli anni dell'immediato dopoguerra aveva collaborato al quotidiano socialdemocratico L'Umanità e nel 1949 aveva iniziato la sua collaborazione a Il Mondo di M. Pannunzio. Si stabilì definitivamente a Roma nel 1953.In quegli anni scuri di conformismo culturale di destra e disinistra riprese e sviluppò interamente il suo tema dell'autonomia intellettuale, con una polemica spietata, ma scevra di risvolti politici, contro tutte le forme spurie di engagement, il cui paradigma identificava facilmente nella parabola intellettuale di J.-P. Sartre, in cui egli vedeva rispecchiarsi "il gran bisogno da cui è posseduto l'intellettuale moderno di una religione non religiosa, e cioè di un'ideologia efficace" e come questa comportasse il fine della "realizzazione di uno stato di cose assolutamente morale", cioè "il segno visibile della forza collettiva, ossia della capacità effettiva di realizzare la moralità integrale attraverso "uno Stato rigidamente organizzato e diretto" (Il tempodella malafede, a cura dell'Associazione italiana per la libertà della cultura, Roma 1953).
Sono temi che troviamo più volte ripresi e svolti in questi anni, con articoli su Il Mondo,Il Ponte,Nuovi Argomenti e, dal 1956, su Tempo presente, la rivista da lui fondata e diretta assieme a I. Silone, dal 1956 al 1968. Ma la critica del C. non ebbe solo un segno non fu solo precoce, almeno rispetto alle temperie della cultura italiana, conoscenza e consapevolezza dei problemi morali e politici che poneva alla cultura contemporanea l'affermazione del "socialismo reale", ma fu anche insieme critica alle radici autoritarie della civiltà contemporanea, a cui non faceva da velo la distinzione di campo tra capitalismo e socialismo.
È una considerazione questa che trova compiutezza di svolgimento nel saggio La tirannia moderna (Tempo presente, maggio 1968), in cui si svolge il tema della mancanza di libertà dovuta allo stato di avanzata collettivizzazione e meccanizzazione della "esistenza collettiva" e la polemica contro l'assolutezza della politica nella cultura contemporanea, connessa al credo della crescita materiale come continuum necessario, che lega inesorabilmente la politica alla "violenza tecnicamente organizzata".
Sono motivi originali della speculazione del C., che tuttavia per quasi un ventennio egli arricchisce continuamente di apporti critici personali, ma anche facendo convergere nella sua riflessione un coro ampio di voci della cultura europea. Sono i motivi della rivolta di Camus, come la critica all'industria culturale di H. M. Enzensberger (Coscienza condizionata e avanguardia intellettuale, in Silenzio e parole, pp. 97 ss.), le voci del dissenso dell'Est, la polemica antiautoritaria di Leo Strauss o di Hanna Arendt. Motivi pressoché sconosciuti nell'Italia di allora e che solo più tardi dovevano divenire elementi comuni di riflessione e che la cultura originale e insieme internaziole del C. anticipava con grande ricchezza di riferimenti. Egli scelse questo ruolo distaccato per la sua polemica civile, affidandosi al suo mestiere di intellettuale: una sola fugace eccezione, atto di fedeltà a un gruppo di amici, l'adesione nel febbraio 1956 alla lista dei fondatori del Partito radicale (lettera in Il Mondo, 28 febbr. 1956).
La stessa accanita ricerca di questi motivi etici la ritroviamo nella sua attività di saggista letterario, con gli scritti su Guerra e pace, Roger Martin du Gard Stendhal, Pasternak, raccolti nel volume Credere e non credere (Milano 1971), e con quelli su Mallarmé, Manzoni, Pirandello, Simone Weil, Solženicyn, raccolti nel volume Silenzio e parole (Milano 1978).Ma ciò in cui maggiormente il C. espresse questa sua capacità di esprimere nel "mestiere intellettuale" il rapporto lineare tra cultura e vita civile fu nella sua attività di critico teatrale che svolse per un ventennio, ininterrottamente, prima sulle colonne del Mondo, poi su quelle dell'Espresso, con un susseguirsi di saggi, note, recensioni in parte raccolti nei due volumi La situazione drammatica (Milano 1966)e Scritti sul teatro (prefaz. di M. McCarthy, Torino 1976).
Il suo è innanzitutto un "discorso del metodo", che tende a definire le essenze teatrali per esclusione. Il teatro non è illusione, perché è il luogo dove si dibatte la verità. Non è rappresentazione della realtà, perché è anzi il luogo dove si rimette in discussione la realtà. Né egli confonde la verità con il "verismo", perché "lo sforzo di illudere, di far vero e magari di superare il vero intralcia la verità". L'oggetto del teatro non è la realtà, né la società, ma "quel mondo interiore e puramente umano di credenze comuni di cui l'ordine sociale non è che l'aspetto esteriore, e che è tanto più reale quanto più gli uomini non solo vi credano ma anche vi dubitino insieme. Sono le peripezie di un tale mondo, più che le passioni, e le virtù e i vizi individuali, che il dramma intende imitare attraverso la sua azione". La sua lezione di metodo sul teatro realizza così, nella esemplarità dei suoi ruoli, quello che, lontano dalla scena, era per il C. il metodo della conoscenza intellettuale.
Il C. morì a Roma il 18 genn. 1972.
Oltre alle raccolte miscellanee italiane dei suoi scritti, sono da ricordare due in lingua inglese: The paradox of history (London 1970) e The Worm of consciousness and other essays (prefazione di M. McCarthy, New York 1976).
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