CAPUTO, Nicola
Figlio primogenito di Salvatore, marchese di Cerveto, e di Marianna Cacciatore, già vedova di Saverio Abadessa, nacque a Napoli il 3 febbr. 1774. Probabilmente influì sulla sua formazione la religiosità della madre, che aveva come direttore spirituale s. Alfonso de' Liguori. Compì gli studi di legge nella stessa Napoli e dopo aver esercitato per qualche tempo la professione di avvocato ed essersi avvicinato alla vita politica proprio alla vigilia dello scoppio della rivoluzione del 1799, una crisi spirituale lo indusse a chiedere, il 12 genn. 1799, di vestire l'abito clericale. Abbreviando di molto l'iter canonico e rinunciando al titolo di marchese che gli spettava, fu ordinato sacerdote il 20 sett. 1800. Operò quindi negli ambienti popolari della capitale, ma dovette anche farsi una buona fama di predicatore e acquistarsi la simpatia del ceto più elevato, tanto da essere ritenuto una delle figure di maggior rilievo del clero napoletano (cfr. Greco, p. 9). Il 13 ottobre del 1805 diveniva canonico nella cattedrale di Napoli e quindi prefetto del coro della stessa. Nel giugno del 1818 Ferdinando I lo aveva già proposto per la nomina a vescovo di Tropea, ma con un decreto regio del 14 settembre ne dispose la nomina per la diocesi di Lecce. Conseguita la laurea in teologia presso l'università di Napoli il 4 nov. 1818 e consacrato vescovo, giunse a Lecce nel 1819.
Il C. dovette affrontare una situazione che si rese subito difficile a causa degli avvenimenti che seguirono nel 1810. Alla notizia dei moti politici la cittadinanza leccese si era anch'essa entusiasmata e aveva partecipato nella cattedrale alla cerimonia religiosa in cui il C. aveva benedetto dopo il canto del Te Deum le insegne costituzionali e aveva pronunciato un discorso carico di sentimenti liberali. Nell'agosto si riunirono nel palazzo vescovile i membri della giunta preparatoria per la elezione dei deputati al Parlamento nazionale, della quale il C. fece parte. Fu eletto poi consigliere di Stato nella terna dei vescovi (gli altri due furono quelli di Monreale e di Reggio) da parte dello stesso Parlamento che nella seduta del, 6 nov. 1820 gli esprimeva somma riconoscenza per la fattiva collaborazione e per l'opera di persuasione a favore del nuovo governo svolta in diocesi per mezzo di lettere pastorali e di indirizzi al clero. Nella reazione che seguì, Ferdinando I, sottoponendo nel luglio 1821 alla S. Sede i risultati di una inchiesta sul comportamelito dell'episcopato durante il periodo rivoluzionario, notava che soltanto nove vescovi erano stati favorevoli alla rivoluzione e restringeva il numero dei più consapevoli e accesi a quattro: tra questi il C., che aveva con ciò confermato, secondo il sovrano, le tradizioni rivoluzionarie della famiglia e si era lasciato sopraffare dai carbonari.
La sua partecipazione ai fatti del 1820 creò nella tradizione storiografica erudita locale il mito, ripreso poi anche dal De Cesare, di un C. vescovo liberale tout court: in realtà però, a partire da quella data, egli si mostrò convinto che, salva la religione, potevano essere accettati il regime borbonico, quello costituzionale del 1848, infine quello italiano, e fu intento a tenere sempre nettamente separato il temporale dallo spirituale.
Nel 1822, dando inizio ad un'accurata visita della diocesi, il C. si trovò di fronte, come molti altri vescovi del Regno, ad una organizzazione ecclesiastica posta in crisi dalla politica illuminata dei primi Borboni e dal riformismo dei Napoleonidi. Gravi problemi in particolare avevano creato per l'apparato organizzativo e per la vita religiosa dell'intera diocesi di Lecce le recenti soppressioni dei conventi: dei trentuno tra conventi e monasteri ancora esistenti nel 1791 e che avevano dato a Lecce (città che contava solo 14.000 abitanti) il volto di una vera e propria ville-église, ne restavano solo cinque. Le molte confraternite, che in maggior parte erano governate inspiritualibus appunto dai regolari, si erano improvvisamente trovate senza una guida religiosa. La vita della diocesi era caratterizzata dalla presenza di un clero tradizionalmente numeroso e colto nei centri economicamente più sviluppati e dall'influsso negativo di preti vecchi e ignoranti nelle zone più povere e meno popolate: non mancava in un caso e nell'altro una frangia di clero discorde e ribelle. All'inizio del terzo decennio del secolo il C. si trovò nel complesso a disporre di circa duecento sacerdoti irregolarmente distribuiti nei vari centri della diocesi e di una settantina residenti in Lecce. Questi ultimi dovevano esercitare il ministero tra una popolazione cittadina che, "distratta dagli affari e dagli spettacoli" (come riferiva il C. alla congregazione del Concilio), si mostrava perlomeno indifferente alle pratiche della vita religiosa, mentre i primi potevano contare sui buoni costumi della gente di campagna, che però in alcuni casi era fortemente condizionata dalle arretrate condizioni economiche nelle manifestazioni della propria religiosità (superstizione, magia, tarantolismo).
In tale situazione il C. agì in direzioni diverse. Nel 1831, in seguito ad un reiterato invito della stessa congregazione del Concilio, fu celebrato il sinodo diocesano, che non si teneva in Lecce dal 1663. Pur avendo il C. sottolineato nel discorso di apertura che con quell'atto pastorale si proponeva di agire in una sfera esclusivamente spirituale per adattare i principi cristiani alle mutate condizioni dei tempi, la Consulta gli rimandò indietro da Napoli il testo del sinodo per la revisione sostanziale di alcuni decreti che sembravano lesivi delle prerogative regie. Ebbe inizio così da quella data una puntigliosa corrispondenza col ministro per gli Affari Ecclesiastici D'Andrea: da un lato il C. non intendeva in alcun modo inserire in un testo da lui ritenuto totalmente canonico un qualsiasi riferimento che potesse far pensare a condizionamenti dell'autorità temporale, dall'altro il governo borbonico era impegnato in una cauta politica di rivalutazione della giurisdizione regia con l'intento più o meno palese di legare al regime l'episcopato. Conseguenza di tale contrasto fu la mancata approvazione degli atti sinodali.
Ciò che caratterizzò però l'azione pastorale del C. fu una vigorosa politica delle ordinazioni sacerdotali: essendo egli convinto che lo strumento per migliorare la vita religiosa della diocesi dovesse essere un clero più numeroso e più preparato possibile, dette l'avvio a vere e proprie ordinazioni "in massa".
Quando nel 1848 i moti politici sconvolsero nuovamente - anche se perbreve tempo - la diocesi, l'azione pastorale del C. si era ormai rinchiusa - come del resto era apparso evidente dal tono degli atti sinodali del 1831 - entro i limiti di una rigida osservanza delle norme tridentine. Anche questa volta il C. benedisse la bandiera costituzionale, ma mantenne una linea di condotta ispirata ad un conscio disimpegno politico, anche se successivamente, iniziata la reazione, intervenne come testimone a favore dei patrioti leccesi protagonisti dei fatti del 1848. Tale atteggiamento fece interpretare in chiave del tutto politica il viaggio che nel 1856 il C. fu costretto ad affrontare per recarsi da Ferdinando II. In proposito anzi Antonio Scialoia nel suo Note e confronti dei bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi (Torino 1857) indicava come emblematico della reazionaria politica borbonica il caso di monsignor Caputo. In realtà già nel 1855, in seguito a una richiesta dell'Antonelli, era stata promossa dal nunzio di Napoli un'inchiesta sul conto del C. e Pio IX aveva personalmente prospettato a Ferdinando II la possibilità di far dimettere il vescovo dalla carica o di dargli un coadiutore in considerazione dell'età avanzatissima e dei ricorsi relativi alla cattiva amministrazione della diocesi.
Dopo il successo riportato dalla spedizione dei Mille, distinguendosi tra i vescovi (tutti filoborbonici) di Terra d'Otranto, il 20 sett. 1860 il C. firmò insieme col capitolo della sua cattedra ed altri sacerdoti un Indirizzo a Garibaldi, in cui si manifestava rispetto per l'autorità costituita e si sottolineavano il carattere e la funzione prettamente apostolici del ministero sacerdotale. E uguale tono ebbe l'altro indirizzo a Vittorio Emanuele II del 16 novembre successivo.
Il C. visse ancora qualche anno e non mancò di prender parte alle polemiche relative al potere temporale. In risposta alla raccolta di firme che sul locale Il cittadino leccese aveva visto comparire sin dal primo elenco ben 124 nominativi di sacerdoti della diocesi di Lecce che chiedevano a Pio IX la rinuncia al potere temporale, il torinese L'Armonia pubblicò il 14 marzo 1862 un appello, a firma del C. e di un'altra parte del clero leccese, di tono completamente opposto.
Il C. morì a Lecce il 6 nov. 1862.
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