NICIA (Νικίας, Nicĭas)
Generale e uomo politico ateniese, figlio di Nicerato del demo di Cidantide. Nacque probabilmente intorno al 470 a. C. Le sue sostanze si valutavano a 100 talenti (circa seicentomila lire oro), sicché era ritenuto uno dei più ricchi fra gli Ateniesi. Curava attentamente i proprî interessi, ma godeva fama di probità. Coetaneo più giovane di Euripide, si sarebbe detto appartenesse ad altra età, tanto poco risentì l'influsso della sofistica, e tanto rimase fermo ai principî della religione e della morale tradizionale. Entrò nella vita politica mentre Atene era diretta da Pericle e fino da quel tempo pare riuscisse eletto nel collegio degli strateghi, la suprema magistratura militare insieme e politica della città. Ma la sua prima strategia sicuramente testimoniata è quella del 428-7, dopo la morte di Pericle. Fu d'allora in poi fino alla sua morte uno degli uomini politici preminenti della città e venne quasi ogni anno eletto stratego. Risolutamente conservatore, accettò con piena lealtà, insieme con la sua famiglia, la democrazia periclea; e di questa lealtà caddero poi vittime sotto la reazione antidemocratica il fratello Eucrate e il figlio Nicerato. Ma pur restando nel terreno legale, egli voleva il predominio della classe possidente sulle masse proletarie; e poiché durante la guerra del Peloponneso la classe dei possidenti fondiarî era avversissima alla guerra, di cui risentiva tutti i danni senza averne nessun vantaggio, fu risolutamente pacifista, contrapponendosi al mercante di cuoiami Cleone, che con l'appoggio del proletariato, dei negozianti e degl'imprenditori, patrocinava la guerra. A ciò si aggiungeva la stima e l'affetto di N. per l'avversaria di Atene, Sparta, con la quale avrebbe desiderato di stabilire relazioni permanenti di pace. Testimonia la sua probità e insieme l'equanimità del demo l'esserglisi ripetutamente affidata, nonostante queste sue tendenze politiche ben note, la direzione delle imprese militari in una guerra ch'egli deprecava. E tuttavia non può negarsi che ciò contribuì alla scarsa energia con cui essa venne quasi sempre condotta nel primo periodo decennale, la cosiddetta guerra archidamica (431-421).
Caratteristico il suo modo di comportarsi quando, assediato nell'isola di Sfacteria un piccolo reparto spartano (425), gli strateghi di cui era a capo non si risolvevano a un'azione energica per impadronirsi dell'isola che, bloccata, non poteva essere soccorsa dal nemico. Alle ben fondate rampogne che Cleone gli mosse nell'assemblea, N. rispose invitando Cleone, se sapeva far meglio, a prendere lui il comando. Cleone, riluttante, dovette accettare; e aggregatosi un uomo di guerra esperto come Demostene, riuscì in pochissimo tempo nella facile impresa di conquistare l'isola e fare prigioniero il reparto spartano. Dove appare egualmente riprovevole la paurosa cautela per cui N. non aveva osato dirigere questa operazione, e l'imprudenza di affidarne il comando a uomo non pratico di guerra che poteva conchiuderla, come N. credeva, col disastro, con vantaggio della fazione che N. capeggiava, ma con danno e vergogna della patria. L'esempio di Cleone, del resto, riscosse N. dal suo torpore, ed egli nel 424 portò a Sparta un grave colpo impadronendosi dell'isola di Citera presso la costa laconica; impresa vantaggiosa per Atene, ma che avrebbe potuto essere compiuta fino dal primo anno della guerra. Dopo varie alternative il partito della pace riuscì a conchiudere nel 423 la tregua di un anno detta di Lachete dal nome di uno degli amici politici di N. e, dopo la rotta e morte di Cleone sotto Anfipoli (422), la pace che dal suo autore fu detta di Nicia (421), alla quale seguì poco dopo un trattato d'alleanza difensiva con Sparta.
La pace venne quando Atene stava per raccogliere il frutto della perduranza con cui aveva resistito per 10 anni alle preponderanti forze terrestri spartane, e le tolse di raccoglierlo. Infatti nel 421 spirava la tregua tra Argo e Sparta, e Argo nel pieno rigoglio delle sue forze appoggiata alla democrazia peloponnesiaca stava per riprendere con Sparta la lotta per l'egemonia del Peloponneso. Sicché Atene, le cui forze erano sostanzialmente intatte, avrebbe avuto un'occasione impareggiabile per spezzare la potenza spartana, anticipando le imprese di Epaminonda e acquistando così il predominio su tutta la terraferma greca. Tuttavia il mal volere di Sparta e particolarmente dei suoi alleati, nell'accettare ed eseguire la pace, fu così palese che il partito avverso a N., capeggiato ora da Iperbolo e da Alcibiade, riuscì a far accettare agli Ateniesi l'alleanza con Argo, Mantinea, e l'Elide. Ma, essendo venuto nuovamente al potere il partito della pace con N. nelle elezioni del 418-17, e Alcibiade e i suoi amici essendo stati esclusi dal collegio degli strateghi, mancò nel momento decisivo agli alleati un aiuto ateniese, pari alla gravità degl'interessi in giuoco. Sicché fu facile agli Spartani comandati da Agide di vincere i confederati e il piccolo corpo ateniese che li sosteneva nella battaglia di Mantinea (418), e spezzare la confederazione e imporre agli Argivi la loro alleanza; onde la potenza spartana, per effetto della politica di N., si rassodò nel Peloponneso come non mai prima di allora. N. fu costretto a cercare diversivi al malcontento e al desiderio di espansione degli Ateniesi. Il primo fu Melo, piccola isola rimasta, sola fra le Cicladi, fuori della lega marittima, che N. assediò e conquistò (416). L'altro diversivo fu la Sicilia. Non è certo N. il solo responsabile dell'intervento ateniese nella piccola questione tra Selinunte e l'alleata ateniese Segesta, ma certo a N. soprattutto si deve se questo intervento si mutò in un'impresa grandiosa, la quale mirava evidentemente non alla sola difesa di Segesta da Selinunte, ma alla sottomissione dell'intera Sicilia.
La spedizione s'iniziò nel 415 e fu affidata a N., Alcibiade e Lamaco. N., secondo Tucidide, avrebbe voluto che gli Ateniesi si limitassero a soccorrere e presidiare Segesta e tornassero in patria dopo una dimostrazione navale, ma gli altri due strateghi vollero una guerra di proporzioni più ampie. Ciò è molto dubbio, perché, richiamato Alcibiade e rimasto N. solo con Lamaco, niente gl'impediva di far prevalere la sua autorità. si deve invece imputare senza dubbio alla lentezza ed eccessiva cautela di N. se, perdendo un tempo prezioso, l'assedio di Siracusa non si cominciò effettivamente che nel 414 e se il muro che doveva chiudere Siracusa non era compiuto quando ai Siracusani giunsero rinforzi dal Peloponneso. A tale ritardo e alla mancanza di genialità del duce, va soprattutto imputato il disastro con cui la spedizione ateniese si chiuse nel 413. Esiziale fu altresì il ritardo nell'ordinare la ritirata dell'esercito assediante dopo la totale distruzione dell'armata.
L'effetto fu la catastrofe presso il fiume Asinaro, che terminò con la resa. Si arrese anche N., che fu messo a morte dal vincitore. Come politico e generale N. fu uno degli uomini che più contribuirono alla rovina dell'impero ateniese.
Bibl.: Oltre alle storie generali, citate alla v. grecia (tra cui particolarmente per la raccolta dei dati di fatto, G. Busolt, Griechische Geschichte, III, ii, Gotha 1904, p. 999 segg. e passim, ivi anche ampia bibliografia); G. Gilbert, Beiträge zur inneren Gesch. Athens, Lipsia 1877, p. 146 segg. e passim; J. Beloch, Die Attische Politik, Lipsia 1884, p. 28 segg. e passim; A. Ferrabino, L'impero ateniese, Torino 1927, passim; G. De Sanctis, Problemi di storia antica, Bari 1932, pp. 93 segg. e 10 segg.; J. Kirchner, Prosopogr. Attica, II, Berlino 1903, n. 10.808. Per la vita plutarchea di Nicia, cfr. W. Fucke, Untersuchungen über die Quellen des Plutarchos im Nikias und Alkibiades, Lipsia 1869.