SOGGI, Niccolò
– Nacque, probabilmente alla fine del 1479 o ai primi del 1480, alle Vertighe presso Monte San Savino (Arezzo), secondogenito di Jacopo di Giovanni e di Margherita de’ Cocchi, sposatisi a Firenze il 7 marzo del 1478 (Archivio di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, 15036, c. 321v).
Per quanto i Soggi fossero una famiglia di antica origine fiorentina, già nel 1427 l’intestatario della portata al catasto, Jacopo di Jacopo, bisnonno del pittore, si dichiarava «provigionato nella cittadella d’Arezzo» (Baldini, 1997, pp. 19, 203). La consuetudine con la terra aretina restò costante, come pure la professione militare per vari membri della stirpe (ibid.), svolta ancora nel 1451, quando le proprietà dichiarate dalla famiglia risultavano solo in quel territorio. Una situazione, quest’ultima, che appare immutata nel 1457, al tempo in cui tra i Soggi, segnatamente tra i figli di Jacopo, ovvero Giovanni, Piero e Donato con le rispettive famiglie, compare, quale frutto del matrimonio di Giovanni con monna Antonia, Jacopo, il padre del futuro pittore (pp. 19 s., 204 s.). Anche in seguito – e perlomeno fino a circa il 1480 – i Soggi dovettero avere stabile dimora in Val di Chiana; infatti Donato di Jacopo, ormai capofamiglia, è documentato quale conestabile della rocca di Marciano, al confine fra la Repubblica fiorentina e lo Stato senese, avamposto che egli, durante i frequenti periodi di crisi politico-militare, difendeva affiancato sempre dai suoi congiunti (pp. 20, 205 s.).
Fra il 1478 e il 1480, nella guerra che oppose Firenze al Papato e al Regno di Napoli, Donato, quale capitano, indirizzò il 10 febbraio 1479, da Marciano, una lettera a Lorenzo il Magnifico per tramite del nipote Jacopo (padre del pittore), lui pure coinvolto nelle operazioni belliche (pp. 20 s., 206). È probabile che in tale torno di tempo Jacopo, con la moglie appena sposata, risiedesse in un poderetto dei Soggi «posto nella corte del Monte a Sansavino […] luogho detto Vertighi» (pp. 22, 206 s.), dove, nel medesimo 1478, poté nascere il primogenito Giovanni e poi, l’anno seguente, Niccolò. Infatti sebbene Giorgio Vasari, che a Soggi dedicò una biografia nelle Vite del 1568, lo menzioni come «nato in Fiorenza» (1881, VI, p. 17), i documenti portano a escluderlo, mentre lo stesso Niccolò parve ribadire la propria origine savinese sia firmandosi, intorno al 1520, «Sansovinus» nella pala per la locale Compagnia dei Bianchi (ora ad Arezzo, Museo diocesano), sia dichiarandosi «terrigena Montis» (cioè nato in quel luogo) in due atti di compravendita del 1519 (Baldini, 1997, p. 22).
Di lì a breve, quando la conclusione della guerra e la fine di un’epidemia di peste lo consentirono, Jacopo, con la moglie e i due figli, si trasferì ad Arezzo, dove, come riferisce la portata al catasto del 1480-81 (in cui Niccolò è ricordato di «anni 1»), Jacopo era impiegato quale aromatario (pp. 21 s., 206 s.), professione che aveva già svolto e che presto avrebbe esercitato autonomamente, sempre ad Arezzo, in una bottega che non possedeva più nel 1491 (p. 23). Infatti, rimasto vedovo, si risposò prima del 20 settembre 1489 con un’altra fiorentina, Marietta Pieroni, per conto della quale acquistò una casa a Monte San Savino, in cui i Soggi vissero negli anni seguenti (ibid.). La stabile permanenza della famiglia nella cittadina, alla fine degli anni Ottanta del XV secolo, ha consentito di ipotizzare un primitivo apprendistato di Niccolò presso Andrea Sansovino, lo scultore che, attivo in quel tempo nella sua terra, avrebbe potuto tenere presso di sé Niccolò: un’ipotesi che, per quanto priva di appigli documentari, sembra avvalorata dal susseguirsi degli eventi che portarono a Firenze il figlio di Jacopo.
Molteplici le circostanze che consentirono lo stabilirsi di Niccolò nella capitale del dominio: oltre a una riannodata consuetudine della famiglia con Firenze, in cui, già nel 1466, Donato Soggi aveva acquistato una casa (Baldini, 2016, p. 59), Jacopo poté contare sui rapporti diretti che aveva avuto con il Magnifico, e che consentirono al figlio di essere nel novero dei giovinetti che, stando alle notizie delle Vite vasariane, furono accolti nel giardino di San Marco, il luogo in cui il Medici ospitò giovani artisti di talento (fra cui Michelangelo) a studiare le antichità che vi si conservavano sotto la direzione di Bertoldo di Giovanni (Vasari, 1568, 1879, IV, pp. 256-259). Niccolò poté essere incluso in quel ristretto ambito anche per la sua familiarità con il Sansovino, il quale, per motivi anagrafici, ebbe una più lunga frequentazione delle collezioni laurenziane. Tuttavia, proprio per la sua tenera età, Soggi poté essere accolto nel giardino per poco tempo, forse dal 1491 e non oltre la morte del Magnifico (aprile del 1492), quando è assai probabile che l’orto terminasse la sua funzione di luogo di studio.
Al contempo Soggi ebbe l’opportunità di affiancare tale apprendistato e poi proseguirlo presso una bottega artistica, e per lui dovette risultare imprescindibile di nuovo il Sansovino, che fra il 1491 e il 1492 stava impiantando a Firenze una propria officina, per quanto già il 15 dicembre di quel medesimo 1492 abbandonasse l’Italia per il Portogallo (da ultimo G. Fattorini, Andrea Sansovino, Loreto-Trento 2013, pp. 41-48). Così è plausibile che Niccolò, sia per l’assenza di Andrea sia per l’esilio dei Medici (novembre del 1494), facesse ritorno a Monte San Savino accostandosi all’arte di Luca Signorelli, attivo nel territorio aretino in opere che, sebbene perdute, sono testimoniate dalle fonti. Riconducibili a Soggi in questo torno di tempo, verso il 1496, sono due Angeli reggifiaccola e il frammento di un’Architettura dipinta, resti di affreschi sulla parete destra del coro della pieve di Monte San Savino, come pure la Madonna col Bambino in trono fra i ss. Pietro e Girolamo della pieve di Micciano presso Anghiari, opera antecedente al 1498 (Baldini, 1997, pp. 28-30, 155; Ead., 2016, p. 64). Di queste due opere, quella savinese poté forse essere promossa da Antonio Ciocchi del Monte, il religioso che, in virtù degli importanti incarichi avuti e che si apprestava a ottenere sotto i papi Innocenzo VIII e Alessandro VI, ebbe un alto grado presso la Curia romana e che fu anche in seguito protettore e committente di Soggi.
Di lì a poco per Niccolò si manifestò l’opportunità di entrare in una delle più celebrate botteghe artistiche del tempo. Come narra infatti Vasari, il padre, che lo vide «molto inclinato alla pittura, l’acconciò con Pietro Perugino», affermando inoltre il biografo che, fra i tanti discepoli avuti dal maestro umbro, «niuno ve n’ebbe, dopo Raffaello da Urbino, che fusse né più studioso né più diligente di Niccolò», e che ben presto «Pietro cominciò a servirsene nelle cose sue, con molto utile» di Niccolò stesso. Nell’officina fiorentina di Vannucci si è ritenuto che Niccolò, proprio per l’evoluzione del suo linguaggio, così attento alla prospettiva (come ricorda sempre Vasari) e all’architettura (cui peraltro approdò al termine della carriera), si specializzasse nella realizzazione delle quinte e dei fondali dei dipinti, un’attività unita a quella di «fare modelli di terra e di cera», da cui poté forse derivargli quella maniera «secca» imputatagli sempre dal biografo aretino, e che condizionò i «molti quadri di Nostre Donne» per le case dei cittadini fiorentini, opere di cui, solo per via di attribuzione, se ne sono riconosciute alcune, e dei tempi più tardi (Vasari, 1568, 1881, VI, p. 17).
Se la formazione fu fiorentina, tuttavia le prime testimonianze, certe, dell’attività di Niccolò le abbiamo ad Arezzo. Un documento del 9 febbraio 1501 ricorda come egli avesse realizzato, per la Fraternita dei laici, un drappellone (oggi perduto) con la figura di s. Donato (Baldini, 1997, pp. 32, 208 s.), e al contempo, per Antonio Menconi, un affresco (oggi mutilo) risalente proprio al 1500-01 in S. Francesco e che rappresenta la Madonna col Bambino e santi, opera con cui Niccolò introdusse in città il linguaggio peruginesco, permeato tuttavia dal suo fare rigido (pp. 32 s., 209). Tale affresco è la prima prova certa che abbiamo di Soggi, e a esso si può avvicinare una Madonna col Bambino (già Firenze, collezione Moretti) che anticipa, nel modo di eseguire i volti e i panneggi, le opere del periodo maturo (Baldini, 1999). Pur nella difficoltà di ricomporre il catalogo di Soggi, conservandosi, per quegli anni, poche notizie su di lui, lo ritroviamo tuttavia nel 1506, di nuovo a Monte San Savino, impegnato nella «pittura et immissione d’oro» di un Marzocco scolpito per la cisterna di piazza S. Agostino dallo scalpellino Biancalana, ma alla cui realizzazione partecipò anche Sansovino, chiamato «a rapsettarlo»: opera che, andata parzialmente distrutta, è ora murata sulla Porta Senese (Baldini, 1997, pp. 37 s.; Ead., 2016, pp. 67, 79 s.).
Se in questo primo decennio del XVI secolo la consuetudine di Niccolò con Arezzo e Monte San Savino non venne mai meno, tuttavia la sua attività gravitava su Firenze, dove nel 1505 il padre Jacopo, coadiuvato dal figlio maggiore Giovanni, si dedicava all’attività di aromatario sulla piazza del Grano, in una bottega che poté essere utilizzata anche da Niccolò dopo il 9 gennaio 1507, quando, nell’iscriversi all’Arte dei medici e degli speziali (Baldini, 1997, pp. 53, 209 s.), egli, pur dichiarandosi ancora «pictor cum Pietro Perugino», compì un passo decisivo al fine d’intraprendere un’attività autonoma. A fronte di tali ricordi è tuttavia ancora una volta ad Arezzo che si trovano le prove dell’attività del pittore. Di poco precedente all’iscrizione all’Arte è la commissione di un disegno per un dipinto con la Circoncisione, ricevuta, il 10 febbraio 1506, dalla locale Compagnia della Trinità, mentre dalla Fraternita dei laici egli venne incaricato, nel 1509, di eseguire per un baldacchino processionale – affidato nel 1502 a Bartolomeo della Gatta e poi, alla morte di questi, compiuto dal suo allievo Domenico Pecori – una figura della Vergine Maria (pp. 32 s.; Baldini, 2004, pp. 144 s., 179-183). Se il baldacchino fu distrutto nel corso del XVI secolo, l’esecuzione della Circoncisione (Arezzo, chiesa di S. Agostino), di cui Nicolò aveva fornito il disegno, fu affidata a Pecori: tuttavia l’opera, che quest’ultimo aveva perlomeno iniziata, non fu portata a compimento e, presumibilmente, andò distrutta, cosicché un’altra, con il medesimo soggetto, venne noviter dipinta a partire dal 1511 (Baldini, 1997, pp. 35-37, 156; Ead., 2004, pp. 185-189, 208, 210-219). Alla realizzazione della nuova pala dovettero collaborare, con Pecori, anche Soggi e un pittore spagnolo, Fernando de Coca. La Circoncisione non fu la sola opera cui i tre artisti lavorarono insieme, ma, come ricorda ancora Vasari, a Domenico e Fernando furono commissionate, ancora con Soggi e sempre verso il 1506, una Madonna della Misericordia per la Pieve (Arezzo, Museo nazionale d’arte medievale e moderna) e un perduto Noli me tangere ad affresco per un piccolo edificio nell’orto della Badia aretina (Baldini, 1997, p. 37; Ead., 2004, pp. 219-227).
All’incirca negli stessi tempi troviamo Niccolò impegnato a realizzare, presumibilmente a Firenze, alcune opere che mostrano sia un parziale superamento del linguaggio peruginesco, sia un’adesione al classicismo espresso dai maggiori artisti già attivi in città. Così nella Madonna in trono col Bambino tra i ss. Giovanni Battista e Lussorio (Rossore) (Firenze, Galleria Palatina) si nota, pur nell’impianto consolidato, un’attenzione al linguaggio leonardesco, mentre la costante rigidità di Soggi nell’impostazione delle figure si riscatta nella realizzazione della quinta paesistica, ancora memore del Perugino (Baldini, 1997, pp. 54-58, 157 s.; Ead., 2014); l’opera era fornita di una predella, di cui un piccolo scomparto con la Decollazione di s. Lussorio si conserva nel Museo di Castelvecchio a Verona (Rossi, 2010). Non distanti da questa tavola si collocano le due redazioni di una Madonna col Bambino e s. Giovannino (una già nella collezione Wantage a Lockinge House, ora di ubicazione ignota, e l’altra nella collezione di lord Faringdon a Buscot Park nell’Oxfordschire, Regno Unito), l’Ercole al bivio fra il Vizio e la Virtù di Berlino (Gemäldegalerie) e i due pannelli con la Storia di Stella (Hearst San Simeon State Historical Monument, California), nei quali l’interesse per la resa prospettica e paesaggistica si lega con una narrazione assai prossima a quella, semplice e didascalica, delle sacre rappresentazioni (Baldini, 1997, pp. 54, 59-64, 157-159).
Le opere ricordate si pongono a breve distanza dalla partenza di Soggi alla volta di Roma, un viaggio che il pittore dovette intraprendere intorno alla fine del 1514 e che si concluse verso il novembre del 1515. Le motivazioni che spinsero Niccolò a recarsi nell’Urbe sono genericamente legate all’ascesa al soglio pontificio di Leone X de’ Medici, mentre, anche secondo Vasari (1568, 1881, VI, pp. 18 s.), furono determinate dall’opportunità di una ‘visita’ a Ciocchi del Monte, diventato da poco cardinale. Il porporato, che dimorava in palazzo Orsini a Pasquino, incaricò Soggi di alcune opere (perdute): un affresco con i tre stemmi di Leone X, della città di Roma e del cardinale nella facciata dell’edificio (ibid.) – stemmi ancora visibili nel 1627 (Baldini, 1997, pp. 73-75) – e un «quadro a olio» per la chiesa di S. Prassede, di cui Ciocchi del Monte deteneva da poco il titolo (p. 19). Questo soggiorno di Niccolò, più che contraddistinto da un’attività di qualche valore, dovette risultare un aggiornamento sulla maniera moderna, di cui è possibile cogliere i positivi riverberi nella successiva produzione in patria.
Tornato Niccolò in Toscana, prima del 14 luglio 1516 dovette morire Jacopo Soggi, che lasciò ai figli un ragguardevole numero di beni immobili in Val di Chiana (p. 78). Tale avvenimento fu una sorta di spartiacque nella vita dell’artista: da tale torno di tempo, infatti, e sempre più in seguito, l’esistenza di Niccolò si divise fra il mestiere di pittore, che divenne più sfuggente negli anni, e la gestione dei beni fondiari. In essi egli investiva i proventi della sua attività artistica, che ebbe un momento di accelerazione intorno al 1519-20, quando gli vennero commissionate opere ad Arezzo, Prato e Monte San Savino. Una delle prime opere cui Niccolò dovette dare il proprio apporto fu la Sacra conversazione realizzata ad Arezzo per il canonico Donato Marinelli a partire dal 1519 (Baldini, 1998). La tavola, in origine nella cattedrale aretina (ora nel Museo nazionale d’arte medievale e moderna), è attribuita da Vasari a Pecori con la collaborazione del «Capanna senese» (Agnolo Capanna); tuttavia è assai probabile che vi partecipasse anche Soggi, il quale sembra anticipare, in questo dipinto, alcune soluzioni compositive poi espresse in un’opera centrale della sua attività, l’Adorazione dei pastori per l’altare di Francesco Ricciardi nella chiesa della Ss. Annunziata ad Arezzo (Vasari, 1568, 1881, VI, pp. 20 s.). La tavola, la cui impostazione architettonica risente della produzione romana del secondo decennio del secolo, mostra nelle figure la cifra di Niccolò, improntata a un classicismo rigido, contraddistinto da una gamma cromatica fredda (Baldini, 1997, pp. 82-86, 159, 214 s.). Questo stile ben definito consente di raggruppare intorno al dipinto altre opere giunte fino a noi. Così all’Adorazione, probabilmente conclusa intorno al 1522 ma già a uno stadio avanzato nel novembre del 1520 (Waldman, 2007), si avvicina Cristo, la Madonna e s. Pietro martire intercedono presso Dio Padre, nel monastero dell’Escorial (Madrid), tavola che potrebbe identificarsi con un’opera menzionata da Vasari (1568, 1881, VI, p. 23) e commissionata a Niccolò nel 1521 dalla Compagnia di S. Pietro Martire a Prato (Redín Michaus, 2012, p. 35). Per questa città, sempre nei primi anni Venti del Cinquecento, Soggi realizzò sia una perduta tavola, rappresentante un’Incoronazione della Vergine, destinata all’altare maggiore della Madonna delle Carceri e per la cui esecuzione fu preferito ad Andrea del Sarto (Vasari, 1568, 1880, V, pp. 43 s.), sia il Ritratto di Baldo Magini che si conserva nella sacrestia del duomo (ibid., VI, pp. 21-23; Baldini, 1997, pp. 92 s.). Queste opere, cui si può affiancare una Madonna col Bambino del Museo Piersanti di Matelica assegnatagli di recente (Pagnotta, 2012, p. 30), mostrano caratteristiche stilistiche omogenee proprie del tempo più felice di Soggi, cui appartiene anche la Madonna della Neve che egli realizzò, firmandola, per la Compagnia dei Bianchi della sua terra natale (Vasari, 1568, 1881, VI, p. 21): in essa le peculiarità architettoniche di segno bramantesco si sposano con figure classicamente e rigidamente composte, ma anche con riferimenti alle novità fiorentine soprattutto pontormesche (Baldini, 1997, pp. 86-90, 159 s.; Ead., 2016, pp. 130-133).
Nel 1524, anno in cui presumibilmente fu conclusa la Madonna della Neve, Soggi prese moglie ad Arezzo, sposando Antonia Castellani, una scelta che implicò non solo l’abbandono di Firenze ma anche la speranza di nuove commissioni aretine, due delle quali sono giunte fino a noi. Una è la Visione di Ottaviano ad affresco per la Compagnia della Nunziata, che gliela allogò nel 1527. Dopo che il Rosso fiorentino, al quale era stato commissionato un intero ciclo, aveva abbandonato la città, si pensò di incaricare Soggi della realizzazione del progetto, ma egli, non dimostrandosi all’altezza delle richieste dei committenti, dopo tale prima prova non venne confermato nell’incarico (Vasari, 1568, 1881, VI, pp. 24 s.; Baldini, 1997, pp. 99-105, 160 s.). Successivamente Soggi eseguì ad affresco per il convento di S. Chiara Novella un Compianto sul Cristo morto che, staccato e in cattivo stato di conservazione, è ora presso il Museo nazionale d’arte medievale e moderna (Vasari, 1568, 1881, VI, p. 25; Baldini, 1997, pp. 106 s., 161).
Con la fine del terzo decennio del XVI secolo la carriera artistica di Soggi sembrerebbe volgere al termine. Tuttavia, se alcune opere testimoniate da Vasari saranno andate perdute (Vasari, 1568, 1881, VI, p. 25), nel ventennio successivo Niccolò si dedicò all’attività di architetto. Nel 1544, al tempo di un soggiorno del duca Cosimo I de’ Medici ad Arezzo, l’artista ragguagliava per lettera il sovrano circa un disegno da lui realizzato per riedificare parte della fortezza aretina. Tale progetto, che non ebbe seguito, si affianca a ulteriori interventi architettonici per i quali Niccolò fu almeno consultato, non ultimo quello per l’edificazione della loggia dei Mercanti a Monte San Savino, che risale al quinto decennio del XVI secolo (Baldini, 1997, pp. 131-134). A tali testimonianze si aggiunge un disegno di recente rinvenuto presso l’Archivio dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze, che Niccolò firmò, e che rivela il suo impegno nella progettazione, negli anni Trenta o Quaranta del secolo, di un palazzo forse destinato a qualche ricco cittadino aretino (Baldini, 2016, pp. 155-158). L’attività di architetto spiega perché Niccolò avesse presso di sé quale allievo, peraltro dal terzo decennio del Cinquecento, il pratese Domenico Giuntalodi, che nell’architettura, soprattutto militare, si distinse a partire da circa il 1540 e che, documentato nel 1546 a Milano, vi fu visitato da Niccolò ormai anziano (Vasari, 1568, 1881, VI, p. 28).
Morì ad Arezzo il 9 marzo 1552 e fu inumato nella chiesa di S. Domenico, sulla cui piazza si affacciava la casa in cui aveva vissuto per circa quattro decenni (Baldini, 1997, p. 138). Lasciava la moglie e un figlio Donato, che aveva abbracciato lo stato ecclesiastico.
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