RIDOLFI, Niccolo
RIDOLFI, Niccolò. – Nacque il 16 luglio 1501 da Piero di Niccolò e da Contessina di Lorenzo de’ Medici, che si erano sposati il 24 maggio 1494.
Sei mesi dopo i fratelli di Contessina furono costretti a lasciare Firenze dopo la cacciata dei Medici. Anche Piero fu bandito dalla città nell’ottobre del 1497, mentre Contessina rimase a Firenze per la nascita e il battesimo del suo quarto figlio, Niccolò (Firenze, Archivio dell’Opera del Duomo, Registri battesimali, VI, 17 luglio 1501).
Dopo l’elezione di papa Leone X l’11 marzo 1513 Contessina fece pressione per la promozione del marito e dei figli, fino alla morte nel giugno del 1515. Sappiamo pochissimo dell’educazione di Ridolfi. A Roma fu allievo di Giano Lascari. Dal 1535 o già prima Ridolfi sostenne con una pensione l’anziano umanista greco che è seppellito in S. Agata dei Goti a Roma. Il padre di Ridolfi fu gonfaloniere di Giustizia durante l’entrata trionfale di Leone a Firenze nel novembre del 1515 e Niccolò forse vi accompagnò Lascaris per incontrare altri letterati, incluso Giangiorgio Trissino, con il quale strinse un’amicizia duratura (la loro corrispondenza risale almeno al 1518).
Il 1° luglio 1517, subito dopo esser stato nominato protonotario apostolico, Ridolfi fu elevato al cardinalato. Era il più giovane dei tre parenti del papa ai quali fu concessa la porpora: gli altri due erano Luigi de’ Rossi e Giovanni Salviati. In quanto cardinale diacono, Ridolfi venne designato titolare dei Ss. Vito e Modesto il 6 luglio. Non abbiamo prove che prendesse gli ordini minori, ma il 4 dicembre fu pubblicamente ordinato dal papa. In seguito fu trasferito al titolo di S. Maria in Cosmedin, il 19 gennaio 1534, e di S. Maria in Via Lata, il 31 maggio 1540.
Fra i benefici di Ridolfi la prepositura di Prato (tenuta in commenda dal 1518 o forse da prima) e le ricche abbazie di S. Croce alla Fonte dell’Avellana, nel ducato di Urbino, e S. Ginesio di Brescello, vicino Parma, furono conservate fino alla morte. Fu eletto amministratore del vescovato di Orvieto nell’agosto del 1520. Nel settembre del 1529 vi rinunciò in favore del suo familiare Vincenzo Duranti, ma lo riprese per regresso dopo la morte di Duranti nel 1545, e nel 1548 lo cedette a un cugino, Niccolò di Lorenzo Ridolfi. Ricevette altri importanti benefici durante il pontificato di Clemente VII. Il primo fu l’arcivescovato di Firenze a cui Ridolfi fu chiamato all’età di 23 anni, nel gennaio del 1524. Nel 1532 esso fu ceduto, con regresso, ad Andrea Buondelmonti. Dieci anni più tardi ritornò a Ridolfi e fu infine affidato ad Antonio di Bindo Altoviti il 25 maggio 1548. L’arcivescovato di Salerno, che tenne dal 1533 al 1547, venne poi conferito a Rodolfo Pio, cardinale di Carpi, in cambio di due abbazie in Francia: Notre-Dame de la Grasse (Carcassonne) e Notre-Dame de Coulombs. Ridolfi ritenne il diritto a trenta botti di vino di Salerno da trasportare gratis a Roma ogni anno. Tenuto dal marzo del 1524 fino alla morte, il vescovato di Vicenza fu il più duraturo dei principali benefici. I suoi tre altri vescovati furono Forlì (1526-28), Imola (1533-46) e Viterbo che ricevette nel novembre del 1532, ma cedette, con regresso, a Gianpietro Grassi (morto nel 1538) e nel 1548 a Niccolò Monterchi. Come vescovo di Viterbo a Ridolfi spettava l’uso del castello di Bagnaia, che divenne il suo luogo di villeggiatura preferito dal 1532 fino alla morte. Clemente VII lo favorì anche con proficui uffici curiali, come la collettoria d’Inghilterra nel 1529. Trasferita in seguito a Pietro Vanni, segretario alle lettere latine di Enrico VIII, Ridolfi ottenne una pensione molto generosa che gli fu pagata dal 1529 al 1538. Venne inoltre nominato legato a latere del Patrimonio di San Pietro nel 1524, un ufficio che conservò fino al 1539.
Questa fitta rete di entrate ecclesiastiche e curiali assicurò a Ridolfi una notevole se non eccezionale ricchezza: Donato Giannotti stimò il suo reddito in 18.000 ducati nel 1544 (Donato Giannotti..., 1974, II, p. 114). In una lettera del 21 dicembre 1545 l’agente mediceo Francesco Babbi osservò a proposito del suo straordinario accumulo di benefici: «pare che si vogli sgravare di tante chiese che ha per rispetto de’ tempi che correno, non essendo hoggi cardinale nel Collegio che ne habbi più che lui» (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3590, c. 15). A Roma, nei primi anni, Ridolfi risiedette nel palazzo apostolico, e non si trasferì nel palazzo di S. Apollinare fino al 1524.
Nonostante egli dovesse la sua fortuna ai Medici, verso la fine degli anni Venti, tuttavia, condivise l’idea di altri ottimati che la più auspicabile forma di governo a Firenze fosse una repubblica di impianto popolare. Questa convinzione si sarebbe rinforzata negli anni a venire, come scrisse Benedetto Varchi: Ridolfi «nel vero […] fu sempre della libertà di Firenze amatore e fautore» (Storia, 1843, I, p. 324). Lo sviluppo di queste idee era indubbiamente complesso. Inizialmente erano limitate dalla lealtà a Clemente VII, nondimeno il mecenatismo di Ridolfi, forse combinato con la sua reputazione, attrasse un letterato di parte repubblicana come Giannotti. La prima testimonianza dei loro rapporti appare in una lettera di Alessandro de’ Pazzi a Ridolfi del 4 febbraio 1527 (Starn, 1968, p. 21), anche se Giannotti non ebbe rapporti stretti con Ridolfi fino al 1539.
A Firenze, l’impopolarità dei metodi autoritari adottati dal cardinale Silvio Passerini forzò Clemente VII a inviare il cardinale Innocenzo Cibo e Ridolfi per sostenere il regime mediceo. L’arrivo di Ridolfi non ebbe questo risultato, come Varchi notava, perché egli «avea parentado con gran parte e amistà quasi di tutti coloro che gli Ottimati ed il governo largo desideravano, cagionò contrario effetto all’intenzione di Clemente» (Varchi, 1843, I, p. 94). Quando Ridolfi, Cibo e Passerini lasciarono Firenze per andare incontro al duca di Urbino, il 26 aprile 1527 scoppiò il cosiddetto tumulto del venerdì. La notizia del sacco di Roma raggiunse Firenze l’11 maggio, e il ritorno di Filippo Strozzi in città portò infine il 16 maggio alla rimozione di Passerini e dei suoi giovani protegés Medici, Ippolito e Alessandro. Ridolfi prestò il suo sostegno a Strozzi, un parente, perché si sentiva messo in un angolo da «un vivere popolare apassionatissimo», concludendo che «se io mi fussi partito, non solo harebbono perseguitato loro [i Medici] ma et me et tutta Casa mia» (Ridolfi a Trissino, Firenze 17 giugno 1527). A Roma il fratello di Ridolfi, Lorenzo, fu preso in ostaggio, mentre altri membri della famiglia cardinalizia furono uccisi o fuggirono a Orte (Sanuto, 1901-1903, XLV, pp. 179 s., 504 s.). Con notevole preveggenza la sua preziosa biblioteca greca era già stata trasportata a Orvieto, ma le medaglie e le antichità andarono perse.
Alla fine di luglio Ridolfi lasciò Firenze per cercare rifugio dalla peste a Calenzano. Scrivendo a Niccolò Capponi il 29 settembre da Parma, cercò di coinvolgere il gonfaloniere in piani che lui e i cardinali Cibo, Ercole Gonzaga e Alessandro Farnese stavano discutendo. Nei caotici mesi prima della fuga di Clemente il 7 dicembre, Ridolfi persistette in questa linea riconciliatrice, ma tornando a Firenze fu considerato troppo vicino al regime precedente e scortato al confine a Pontassieve. Dal dicembre fino al giugno successivo, risiedette presso la ridotta corte papale a Orvieto, suo vescovato. Scelto da Thomas Wolsey per cercare sostegno alla causa del divorzio del re inglese, fu con Clemente per ricevere la delegazione inglese all’inizio del 1528.
Accompagnò Clemente a Bologna per l’incoronazione di Carlo V, arrivando il 24 ottobre 1529, due settimane prima dell’inizio dell’assedio di Firenze. La città capitolò il 12 agosto 1530. L’ascesa di Alessandro de’ Medici e la nuova costituzione confermarono i peggiori timori di Ridolfi per la città. Ma era ancora legato a Clemente: Varchi notò che lui e Salviati «quasi ogni sera erano chiamati a ristretto in camera del papa» (Varchi, 1843, II, p. 633).
Nella dedica dell’edizione romana dei Discorsi di Niccolò Machiavelli (1531), Antonio Blado affermò che, «per benifitio di Mons. Rev.mo de’ Ridolfi, padron mio», l’opera era stata riscontrata sull’«originale di propria mano dell’autore». Sulla base di questa frase si può ritenere che Ridolfi possedesse un apografo del manoscritto originale rimasto a Firenze, ma è anche possibile che la relazione di Ridolfi con Blado fosse di supporto finanziario.
Gli anni che seguirono videro Ridolfi giocare un ruolo sempre più importante per la causa dei fuoriusciti, specialmente dopo la morte di Clemente VII il 25 settembre 1534. La discordia fra i più radicali ‘piccoli’ e i ‘grandi’ si protrasse fino alla primavera del 1535. Nel maggio del 1535 Lorenzo Ridolfi si unì all’ambasciata a Barcellona per conto di suo fratello con la proposta che Ippolito de’ Medici governasse al posto di Alessandro. La morte di Ippolito eliminò quella possibilità.
In autunno si diceva che Ridolfi e Salviati fossero pronti a offrire larghe somme all’imperatore «a causa che restituischi il stato di Firenze nel suo primo essere, et provedi al Duca di un altro stato conveniente a lui» (Francesco Chierigato al duca di Mantova Federico Gonzaga, dicembre 1535, Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 884). I progetti di matrimonio fra Alessandro e Margherita d’Austria costituivano una grave minaccia. Salviati e Ridolfi condussero la delegazione di fuoriusciti fiorentini a Napoli per incontrare Carlo V al suo rientro da Tunisi (Nardi, 1842, II, p. 277). Paolo Giovio scrisse – con scarsa simpatia – che i fuoriusciti, sotto la protezione di Salviati e Ridolfi, «si sforzavono di spogliare il Duca Alessandro di ogni riputazione, del prencipato di Toscana, et finalmente della moglie, ancorché le nozze fussero apparecchiate» (Istorie, II, lib. 34). Non sarebbe servito a nulla.
L’assassinio del duca il 6 gennaio 1537 per mano di Lorenzino de’ Medici fu accolto con sollievo dai fuoriusciti fiorentini. Il 10 gennaio, da Roma, Ridolfi chiese retoricamente a Cosimo di restaurare la città «alla pristina libertà et consueto modo di governo» (agente anonimo a Cosimo de’ Medici, Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 330, c. 3r). Tuttavia, quando Ridolfi visitò Firenze all’inizio di febbraio, si rese conto che ciò non sarebbe mai avvenuto e partì. Il fratello maggiore Luigi rimase un attivo sostenitore del nuovo duca, ma per Ridolfi cominciò un esilio volontario.
La discordia frustrò nuovamente i piani dei fuoriusciti a Bologna. Scrivendo a Cosimo, il suo ambasciatore Alessandro Strozzi notò l’opposizione di Salviati, Gaddi e Filippo Strozzi al generale desiderio di conflitto armato (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3260, c. 55v), ma l’intransigente rifiuto di Ridolfi di tollerare il governo di Cosimo rinforzò la decisione di restaurare la libertà fiorentina. Alla fine, dopo essersi assicurato il sostegno di Filippo Strozzi e aver riunito le truppe a Ferrara e Bologna, scrisse a Salviati: «sempre vado immaginando qualche via per la quale potessimo liberarla [Firenze] da così duro servitio. Né certo a me pare havere mai veduta occasione più opportuna che si vede hora» (Bologna, 21 luglio 1537, ibid., 3716, c. 38). Anche dopo la sconfitta di Montemurlo (2 agosto 1537), la residenza romana di Ridolfi a S. Apollinare e il suo palazzo suburbano a S. Agata dei Goti venivano sorvegliati da agenti medicei. I frutti di molti dei suoi benefici furono sequestrati per ordine di Carlo V.
Ridolfi fu tra i cardinali nominati alla commissione riformatrice di Paolo III nella primavera del 1539. Nonostante la sua «stretta conversazione» con il cardinale Reginald Pole, egli non viene mai nominato tra gli spirituali, anche se era in rapporti con molti di essi. Oltre a essere lodato da Marcantonio Flaminio (1727, pp. 175 s.), accolse Iacopo Bonfadio nella sua famiglia poco prima della morte di Juan de Valdés (Firpo, 2015, p. 141). Il 14 marzo 1541 Gasparo Contarini diede a Pole i nomi dei cardinali informati delle sue azioni alla dieta di Ratisbona, dove si tentò di negoziare una via di conciliazione, e fra essi figuravano Ridolfi, Bembo, Carpi e Federico Fregoso, «quos omnes idem Christi spiritus coniunxit».
Allo stesso modo, la scelta di Ridolfi come protettore dei carmelitani (1531) e in seguito degli agostiniani (1534) portò al suo coinvolgimento nella riforma del clero regolare. Girolamo Seripando, generale degli agostiniani, cercò il sostegno di Ridolfi nelle sue accuse di eresia contro membri dell’Ordine agostiniano e a Vicenza Ridolfi protesse alcuni predicatori fra cui Giulio da Milano e Ambrogio Quistelli. Nondimeno, quando fece il suo ingresso a Vicenza nel settembre del 1543, fu accolto dalle parole «Sub Rodulphi auspicio reformandus». La spettacolare architettura effimera in quell’occasione fu disegnata da Andrea Palladio. Ridolfi non partecipò al Concilio di Trento. Anche se non furono prese sul serio, Dionisio de Zanettini sollevò pesanti accuse contro di lui, Giovanni Morone e Pole per le loro opinioni «aliqualiter conformi a lutherani nel decreto de la iustification e nele altre materie» (Buschbell, 1910, pp. 256 s.).
Tradizionalmente francofilo, Ridolfi era ben conscio dell’influenza crescente della Spagna e, a partire dal 1540, anche lui cercò di avvicinarsi all’imperatore. La risposta dell’ambasciatore cesareo, il marchese de Aguilar, rivela che i vantaggi potevano essere reciproci. Nel giugno del 1543, papa Farnese scelse Ridolfi per accompagnarlo a Busseto forse per indurre Carlo ad approvare i suoi piani dinastici. Qualche mese più tardi l’ambasciatore imperiale a Venezia, Diego Hurtado de Mendoza, si congratulò con Carlo per il suo rifiuto e lo spinse a non cedere, ma piuttosto ad approfittare del suo vantaggio servendosi «della spada e non di parole» (Bonora, 2014, p. 115). La lunga assenza di Ridolfi da Roma mentre era a Vicenza (1543-46) potè forse consentirgli un opportuno distacco dai Farnese nel tentativo di avvicinarsi alla fazione imperiale incoraggiando le relazioni con Mendoza.
Paolo III ebbe stima di Ridolfi e poco prima della sua morte lo identificò come uno dei due suoi successori favoriti. Nel conclave del 1549-50, fu considerato tra i papabili dal partito francese. Nel 1547 la nuova regina di Francia, Caterina de’ Medici, aveva promesso di sostenerlo. Tuttavia, egli non era l’unico candidato del partito francese; come il fratello del cardinale Salviati, Bernardo, osservò sdegnosamente: «era difficile di tirare le cose di Ridolfi inanzi ’sendovi pochi che lo conoscessino o ne avessino notitia» (Giovanni Salviati a Cosimo de’ Medici, Ferrara, 11 ottobre 1547, Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 611, c. 12r). Ridolfi si scontrò con il veto degli imperiali, e anche l’arrivo dei cardinali francesi ai primi di gennaio non fu sufficiente per portare avanti la sua candidatura.
Si ritirò dal conclave il 20 gennaio 1550 lamentandosi di dolori al petto. Doveva tornare in conclave qualche giorno dopo, ma la sera del 31 gennaio peggiorò e morì.
In un resoconto della malattia e conseguente autopsia, Realdo Colombo, un dottore che aveva già curato Ridolfi, asserì che «quella sua morte fu di veleno» (Parronchi, 1975, II, p. 233). Anche l’ambasciatore veneziano Matteo Dandolo riferì la convinzione che si trattasse di avvelenamento. Ridolfi fu seppellito in una cappella che gli apparteneva in S. Agostino a Roma, ma la tomba venne demolita entro il 1643. Nel 1563 il fratello Lorenzo sembra aver progettato una tomba in S. Pancrazio a Firenze, nella cappella del Ss. Sacramento, ma non ne rimane traccia.
Generoso ed erudito, Ridolfi fu mecenate di numerosi letterati e umanisti. Giannotti rimase al suo servizio dall’autunno del 1539 al 1550 e gli dedicò Della repubblica fiorentina. Altri umanisti studiarono nella biblioteca di Ridolfi, fra cui Matteo Devaris, Niccolò Maiorano, Guido Guidi e i greci Constantino Rhalles, Cristoforo Kontoleon e Nicola Sophianos. Associati alla sua famiglia erano anche Francesco Priscianese, che stampò un trattato sul governo di una corte cardinalizia, e lo scalco Domenico Romoli, detto Panunto, autore di un trattato con le ricette dei piatti serviti alla tavola di Ridolfi. Il circolo del cardinale includeva anche una larga rete di influenti figure, come Trissino, Claudio Tolomei, Annibal Caro, Piero Vettori. Scrivendo dopo la morte di Ridolfi, Ascanio Condivi parlò di lui come di un «porto di tutti i virtuosi» (Vita di Michelangelo, 1553, c. 44v). Ridolfi morì intestato e il suo bene più prezioso, la biblioteca, dovette esser messo in vendita per coprire i suoi debiti. Fu acquistata dai fratelli Strozzi, prima Lorenzo e Roberto, poi Piero, per passare poi a Caterina de’ Medici intorno al 1562 (Muratore, 2009, pp. XVIII-XIX).
In qualità di esecutore testamentario di Clemente VII, Ridolfi seguì la realizzazione delle tombe papali medicee in S. Maria sopra Minerva. Il busto di Bruto di Michelangelo fu commissionato, come afferma Vasari, «a’ preghi di messer Donato Giannotti suo amicissimo [...] per il cardinale Ridolfi» (Le vite, VII, 1881, p. 262. Il culto classico di Bruto era strettamente legato alla causa repubblicana e all’assassinio del duca Alessandro. Il dibattito fra gli studiosi è ancora in corso a proposito della datazione del busto. Il sonetto di Francesco Del Garbo suggerisce in maniera persuasiva la prima metà del 1537 (Lo Re, 2012, pp. 506-508), ma una datazione tra gli anni 1544-47 vede una sincronicità di circostanze intorno ai Dialogi di Giannotti e il bando cosimiano del settembre del 1547 che rinnovava la proibizione di avere contatti con i fuoriusciti (Simoncelli, 2016, pp. 149-151).
L’architetto di Ridolfi fu per due o più decenni Tommaso Ghinucci. Quest’ultimo operò a Roma (S. Agata dei Goti) e Vicenza (palazzo episcopale) e gli furono anche commissionate la loggia e la fontana a Bagnaia, che Flaminio elogiò (Carminum, 1727, I, 35; II, 73) e Giovio evocò nel 1549: «vidi la fontana [e la] loggia di Merlino […] non potete veder cosa più bella e più gioconda per varii ornamenti» (Lettere, a cura di G.G. Ferrero, 1956-1958, II, p. 140).
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