NICCOLO I, papa, santo
NICCOLÒ I, papa, santo. – Nato probabilmente intorno all’820, era figlio del regionarius Teodoro.
Dopo un’istruzione nelle materie letterarie e religiose ricevuta in famiglia, iniziò la sua carriera negli uffici del Laterano, dove divenne suddiacono sotto Sergio II e poi diacono sotto Leone IV; in seguito fu il principale consigliere di Benedetto III, che secondo il Liber Pontificalis lo preferiva ai propri consanguinei.
Alla morte di Benedetto III (10 aprile 858), fu eletto papa con scelta unanime dei romani ma anche sotto lo stretto controllo dell’imperatore Ludovico II e dei suoi dignitari: l’imperatore si trovava infatti allora a Roma e alla sua presenza Niccolò I venne consacrato il 24 aprile. Si trattò dunque di un’elezione sotto tutela che, a differenza di quelle di Sergio II nell’844e di Leone IV nell’847, rispettava il tenore della Constitutio Romana dell’824.
I primi tempi del pontificato (dall’aprile 858 alla primavera 860) – che videro, tra altre vicende, la reintegrazione di Anastasio (rivale di Benedetto III nell’855, e antipapa) e di suo zio Arsenio, vescovo di Orte, entrambi protetti dell’imperatore – sono mal documentati, essendo pervenuta di questo periodo solo una lettera. Si è certi infatti dell’esistenza di un registrum della corrispondenza di Niccolò, ma, diversamente da quelli di Gregorio Magno e di Giovanni VIII, questo non è stato ricopiato in età successiva e lo si conosce solo in modo indiretto grazie alle circa 160 lettere conservate presso i destinatari o tràdite dalle raccolte canoniche. Per contro, gli anni 860-67 sono contrassegnati da un’intensa e ben documentata attività, attraverso la quale Niccolò affermò strenuamente l’autorità della sede romana e pose il papato al centro dello scacchiere internazionale, il che gli valse la qualifica di più grande papa del IX secolo attribuitagli dalla storiografia.
La notizia dedicata a Niccolò I nel Liber Pontificalis è molto meno ampia di quella su Leone IV per quanto riguarda le iniziative del papa nella sua veste di vescovo di Roma. Le elencazioni provenienti dal vestiarium del Laterano in tema di attività edilizia, di donazioni alle chiese o di distribuzione di elargizioni caritatevoli, che formano l’ossatura della maggior parte delle notizie anno dopo anno, furono in effetti ridotte nel momento in cui il testo fu rimaneggiato, probabilmente da Giovanni Diacono (Giovanni Immonide) sotto Adriano II o Giovanni VIII, per lasciare maggior spazio alla trattazione di questioni attinenti alla politica. Viene menzionata soprattutto l’attenzione prestata alla diaconia di Santa Maria in Cosmedin, richiamata in più riprese (nell’858, 860-61, 861-62, 863-64), e alla costruzione nell’865-66 nel complesso lateranense di un edificio designato in seguito come basilica Nicolaitana e celebrato nella biografia su Adriano II, il successore di Niccolò I, come la più bella basilica del palazzo papale. Nell’863-64 fu d’altronde messo in atto un sistema di sostentamento dei poveri che permetteva di controllare a un tempo il numero dei beneficiari e i truffatori: secondo questo sistema, ben noto a Bisanzio, veniva fornita una razione settimanale sulla base di un registro numerato; il giorno della distribuzione era individuabile dal sigillo o dalla medaglietta in metallo che i postulanti portavano al collo.
Le numerose vicende che interessavano la sede romana nel momento in cui Niccolò salì al soglio pontificio furono per lui altrettante occasioni di affermare con la massima fermezza la propria autorità di capo della cristianità sia di fronte alle gerarchia ecclesiastica, alla quale voleva imporre la centralità romana, sia di fronte ai grandi laici, ai quali intendeva far rispettare la morale cristiana, in particolare per quanto riguardava il matrimonio, un ambito nel quale la Chiesa stava allora assumendo posizioni più rigide.
Dovette in primo luogo risolvere un nuovo episodio del plurisecolare conflitto che vedeva la cattedra di Pietro e gli arcivescovi di Ravenna su fronti opposti. Il contrasto era legato allo statuto particolare dell’Esarcato, antica sede del potere bizantino in Italia, e al fatto che per un certo numero di anni (666-80) la sede arcivescovile aveva goduto dell’autocefalia. Questo privilegio era cessato nel 680, ma persisteva a Ravenna una forte corrente antiromana, che alimentava regolarmente tentativi di indipendenza. Al momento della sua elezione, Niccolò si trovò a fronteggiare l’arcivescovo Giovanni VII (850-78), che da tempo conduceva una sistematica azione di discredito dei diritti di Roma nella sua provincia, nella quale era bandito qualsiasi riferimento alla sede romana e dove i possedimenti romani erano stati usurpati. Nell’859 o 860 Niccolò colse l’occasione di un’accusa di eresia rivolta a Giovanni VII dal vescovo di Pola per convocarlo in sinodo. Non essendosi degnato di presentarsi, Giovanni fu scomunicato (sinodo detto dei Sette canoni, 24 febbraio 861). L’arcivescovo si recò allora a Pavia per chiedere il sostegno di Ludovico II, che lo fece accompagnare a Roma da una scorta; Niccolò rifiutò però di piegarsi a questa dimostrazione di forza e nuovamente invitò Giovanni VII a rispondere delle proprie azioni davanti a un concilio, fissato il 1° novembre. Il conflitto raggiunse l’apice nel corso della primavera e dell’estate 861: Giovanni VII, rientrato a Ravenna, riprese la politica antiromana, incoraggiato, pare, dallo stesso Ludovico II. Niccolò tentò di risolvere la crisi recandosi personalmente a Ravenna alla metà di ottobre, ma Giovanni VII fuggì alla corte di Pavia. Ancora una volta accompagnato da missi imperiali, l’arcivescovo finì però per presentarsi a Roma e cedere: dopo la lettura pubblica di una dichiarazione di fedeltà al papa, si purgò dell’accusa di eresia prestando giuramento e venne riconciliato; si impegnò poi a ritornare ogni anno per sottoporre al controllo papale le proprie azioni, mentre venivano limitate le sue prerogative in materia di consacrazione dei vescovi emiliani (16-18 novembre 861).
Per Niccolò il caso di Ravenna assumeva un valore esemplare per gli altri metropoliti, di fronte ai quali diede prova di altrettanta fermezza, secondo un principio gerarchico più volte applicato, per il quale se l’arcivescovo è il capo della propria provincia ecclesiastica, esiste tuttavia sempre una possibilità di appello a Roma da parte dei suoi suffraganei (così come ogni membro del clero può fare appello a Roma contro una decisione del proprio vescovo), in particolare in materia di elezione o di deposizione; Roma, d’altra parte, si riserva di esaminare la canonicità delle decisioni conciliari locali e, se è il caso, di annullarle.
A più riprese (862, 865-66), Niccolò ribadì al principe bretone Salomone l’autorità metropolitana di Tours sui vescovi di sua competenza, opponendosi in tal modo alla volontà di promuovere la chiesa di Dol a sede arcivescovile. Nell’863 cassò la sentenza di deposizione del diacono capuano Pepo, che il vescovo Landolfo aveva emesso senza rispettare la procedura. Nell’865 pretese la reintegrazione del vescovo di Piacenza Seufredo, che era stato sostituito da un nipote, Paolo, senza consultare l’autorità metropolitana.
Fu con l’arcivescovo di Reims Incmaro e, attraverso questi, con il clero della Francia occidentale, che i contrasti furono più accesi, a causa delle conseguenze della deposizione da parte dell’autorità politica del predecessore di Incmaro, Ebbone, schieratosi con Lotario I nei conflitti che lo avevano opposto prima a suo padre Ludovico il Pio e poi ai suoi fratelli Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Ebbone era stato deposto nell’835, reintegrato nell’840 alla morte di Ludovico il Pio e nuovamente deposto nell’843 dopo la sconfitta di Lotario. Nell’853, in un concilio tenuto a Soissons, Incmaro, nonostante l’opposizione del vescovo di Soissons, Rotado, aveva ottenuto l’annullamento di una serie di ordinazioni amministrate da Ebbone nell’840-41. L’ostilità tra i due prelati sfociò nella scomunica di Rotado da parte di Incmaro nell’861, seguita nell’862 dall’obbligo di risiedere in un monastero. Rotado fece però appello a Roma e Niccolò pretese che venisse liberato e che il caso fosse discusso dalla sede romana. Rotado poté recarsi a Roma solo due anni dopo, quando, reintegrato nella sua carica, poté esporre la propria difesa in un sinodo riunito nel gennaio 865: in quell’occasione la sede romana fece ricorso alle decretali pseudo-isidoriane, dalle quali Niccolò riprese la disciplina dell’appello e il principio dell’obbligo del consenso papale per ogni deposizione vescovile, il che gli permise di riassumere le proprie funzioni, esercitate da allora in poi senza più opposizione da parte di Incmaro.
Dopo l’865, il dibattito si spostò dalla persona di Rotado alla questione di stabilire se Vulfado, uno dei chierici ordinati da Ebbone nell’840-41 e in seguito deposto dal concilio di Soissons dell’853, potesse essere autorizzato a continuare la sua carriera in seno alla Chiesa. Niccolò chiese la convocazione di un nuovo sinodo per riesaminare il caso, fissandone la data al mese di agosto 866, ricordando che i chierici deposti potevano, se lo desideravano, appellarsi alla sede romana. La riunione si svolse come previsto, a Soissons, ma lasciò a Niccolò la responsabilità della decisione definitiva. Senza più aspettare, Carlo il Calvo pose Vulfado a capo dell’arcivescovato di Bourges, il cui titolare era appena morto. Niccolò lasciò fare, pur manifestando un certo malcontento contro questa eccessiva rapidità e criticando vivamente Incmaro per la sua condotta al tempo del concilio dell’853.
Niccolò volle che anche il clero regolare, se sottoposto alle pressioni dell’ordinario diocesano o di laici potenti, potesse far ricorso direttamente alla sede romana. Nell’863 confermò l’indipendenza del monastero di Saint-Calais a fronte delle pretese del vescovo di Le Mans. Quello stesso anno accordò la sua protezione ai monasteri di Vézelay e di Pothières, fondati dal conte Girart di Vienne e dalla moglie Berta nell’858-59 e da loro donati a S. Pietro con corresponsione di un simbolico censo annuale. Il conte di Vienne sperava in tal modo – nel momento in cui si schierava con Lotario II contro Carlo il Calvo nella vicenda della successione della Provenza – di garantire la sicurezza dei monasteri da lui fondati.
Nelle sue relazioni con l’aristocrazia laica, il pontificato di Niccolò fu caratterizzato – più che dalla difesa di interessi materiali – dalla promozione di una dottrina più rigida riguardo al matrimonio, stimolata dal tentativo di divorzio di Lotario II. Salito al potere nel settembre dell’855, questi aveva sposato Teutberga, della potente famiglia dei Bosonidi. Ben presto, tuttavia, questa alleanza perse interesse sul piano politico e dall’857 il re cercò di far annullare il matrimonio per riunirsi alla sua concubina, Valdrada, dalla quale aveva già avuto un figlio. Nell’858 Teutberga dovette purgarsi da un’accusa di incesto con suo fratello, Uberto. Due sinodi furono poi riuniti a Aix-la-Chapelle nel gennaio e nel febbraio dell’860: Teutberga ammise la propria colpa, confessata per iscritto, ma alla fine dell’anno, invece di ritirarsi come previsto in un monastero per fare penitenza, si rifugiò presso il fratello. Il 29 aprile 862 un terzo sinodo riunito a Aix autorizzò il re a sposare Valdrada.
Niccolò fu tenuto al corrente della vicenda da una serie di informazioni che gli giunsero poco a poco: innanzitutto gli appelli di Teutberga alla sede romana per difendersi dalle accuse e denunciare le pressioni subite per estorcerle le confessioni; poi le conclusioni dei sinodi dell’860 e dell’862; quindi una richiesta di consulto da parte di Lotario II; infine il De divortio Lotharii di Incmaro (860), auspicante un concilio generale del mondo franco per risolvere la questione, che metteva in gioco l’indissolubilità del matrimonio. Seguendo in parte il consiglio di Incmaro, il papa rinviò il caso a un concilio che si sarebbe riunito a Metz – ma sotto la presidenza dei suoi legati – e i cui atti sarebbero stati trasmessi a Roma, che rimaneva giudice in ultima istanza. Le lettere che convocavano il concilio, datate 23 novembre 862, pervennero tuttavia ai destinatari solo dopo che l’unione tra Lotario II e Valdrada era stata benedetta dall’arcivescovo di Colonia e che Valdrada era stata incoronata regina nel Natale dell’862. Quanto ai vescovi riuniti a Metz nel giugno dell’863, si limitarono a confermare la decisione precedente, argomentando che il matrimonio con Teutberga aveva avuto luogo solo per le pressioni del clan dei Bosonidi, mentre l’unione con Valdrada offriva già tutte le garanzie di legittimità in materia di pubblicità e di dote.
Quando Niccolò ricevette gli atti del concilio di Metz li fece immediatamente annullare da un sinodo, mentre gli arcivescovi di Colonia (Gunther) e di Treviri (Teutgaud) furono deposti e scomunicati. Sulla via del ritorno i due prelati ricevettero tuttavia l’appoggio di Ludovico II, che rientrò con loro a Roma, accompagnato dalle sue truppe, nel gennaio 864. Nonostante la tensione in città e la pressione militare, Niccolò rifiutò di tornare sulla propria decisione. Gunther e Teutgaud fecero allora circolare un libello accusatorio contro il papa, che a loro avviso aveva agito in spregio alle norme canoniche, riaffermando la validità del matrimonio tra Lotario II e Valdrada.
Nell’865, di fronte alla difficoltà di imporre le proprie opinioni senza provocare altre fratture in seno all’episcopato, Niccolò inviò come legato Arsenio di Orte, che già si occupava di vari altri casi importanti. Il legato arrivò in un contesto mutato, con Lotario II desideroso di manifestare la propria buona volontà. Nell’agosto 865 il re si impegnò a riprendere con sé Teutberga e a trattarla come moglie. Da parte sua, Valdrada si sarebbe recata a Roma accompagnata dal legato; ma essendo venuta meno all’impegno venne a sua volta scomunicata. Lotario II iniziò allora una negoziazione amichevole con Teutberga per una separazione pacifica; costei accettò, e informò Niccolò del proprio desiderio di ritirarsi spontaneamente, ma il papa rifiutò quella che considerava l’ennesima manovra: non era possibile riconsiderare l’indissolubilità dell’unione, e se Teutberga intendeva rinunciare a ogni commercio carnale, era necessario che Lotario, da parte sua, facesse altrettanto. La questione fu risolta solo dal viaggio di Lotario II a Roma; il re lo progettava da tempo, ma non ebbe luogo che dopo la morte di Niccolò.
Se questo è il quadro dei rapporti con il mondo carolingio, furono peraltro le relazioni con l’oriente greco il fronte sul quale Niccolò ebbe più a lungo occasione di intervenire e il più gravido di conseguenze quanto al futuro della cristianità. Esse giustificarono la rapida reintegrazione di Anastasio, la cui conoscenza del greco era preziosa per gli scambi con Bisanzio e che si impose rapidamente come attore di primo piano nella diplomazia romana. Nella primavera 860 il papa fu informato della nomina a patriarca di Costantinopoli di Fozio, che nell’858 l’imperatore aveva promosso, nell’arco di una sola giornata, dallo stato di semplice laico a quello di capo della Chiesa greca, fatto che aveva comportato l’espulsione del patriarca in carica, Ignazio. Nell’autunno 860 Niccolò fece sapere che subordinava il riconoscimento di Fozio a un’inchiesta che sarebbe stata condotta da due legati romani, i vescovi Radoaldo di Porto e Zaccaria di Anagni. Tuttavia, al concilio riunito l’anno seguente nella chiesa dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, la deposizione di Ignazio fu confermata – la sua stessa nomina non era conforme ai canoni – senza che venisse riesaminato il caso di Fozio. Niccolò chiese allora che la questione fosse trattata a Roma in sua presenza; nel frattempo, bisognava reintegrare Ignazio, davanti al quale Fozio, che era insieme neofita e pervasor, doveva farsi da parte. Nell’863 un sinodo romano si spinse più avanti, riducendo Fozio allo stato laicale e punendo Radoaldo di Porto e Zaccaria di Anagni per non aver rispettato il contenuto della loro missione. Il caso assunse toni sempre più accesi, cristallizzando in un conflitto tra persone tutte le frizioni e le incomprensioni tra l’Oriente greco e l’Occidente latino; in particolare suscitò un aspro scambio di vedute tra l’imperatore Michele III e Niccolò.
Solo verso la fine dell’estate 865 giunse a Roma la risposta di Michele III, che sferrava un attacco a Roma, città arretrata e barbara fin nella lingua e affermava il diritto del sinodo patriarcale di decidere sul caso di Ignazio. La controrisposta fu una lunga memoria, redatta da Anastasio, il quale ne trasse l’occasione per esprimere in modo virulento l’animosità largamente condivisa: gli imperatori si erano rivelati quasi tutti eretici dopo il sesto concilio ecumenico (in Trullo, 681) Michele III non aveva titolo per dichiararsi imperatore dei romani giacché ignorava il latino; la cattedra di Pietro era la sola a poter esercitare il primato, mentre la Chiesa di Costantinopoli non poteva nemmeno vantare una fondazione apostolica (Ep. 88, 28 settembre 865).
Nel corso dell’estate dell’867 un’altra tappa della vicenda fu segnata dal ‘conciliabolo foziano’ che, riunito sotto la presidenza di Michele III, decretò la deposizione e l’anatema di Niccolò, considerato eretico per la sua formulazione della processione dello Spirito Santo (il Filioque), e inviò un’ambasceria all’imperatore franco Ludovico II per chiedere la deposizione del papa; poco tempo prima, Fozio aveva anche scritto a Ludovico II e a sua moglie Engelberga promettendo di far loro riconoscere la dignità imperiale da parte del basileus a condizione che si sbarazzassero del pontefice. Niccolò preparò una replica circostanziata, mobilitando l’insieme del clero occidentale sulle risposte da dare ai greci a proposito non solo del Filioque ma anche del digiuno del sabato, del matrimonio dei preti e del primato romano, ma morì senza conoscere l’esito della vertenza. Da parte sua, Fozio perdette il suo protettore con la scomparsa di Michele III (24 settembre 867), con conseguente ritorno al potere di Ignazio e della sua fazione. Il caso fu poi chiuso da Adriano II nell’869.
Al di là del contrasto tra persone e del problema disciplinare, la vertenza tra Roma e Bisanzio aveva soprattutto motivazioni di ordine ecclesiologico e giurisdizionali, che Fozio aveva abilmente saputo dirottare sul piano dogmatico. In realtà, Niccolò non temeva che venisse rimesso in discussione il primato della cattedra di Pietro in seno alla pentarchia, ma intendeva recuperare i propri diritti sull’Illirico, la cui giurisdizione gli era stata sottratta ed era stata trasferita a Costantinopoli contemporaneamente a quella sulla Calabria e sulla la Sicilia, all’inizio degli anni 730 o 740. Nell’860 la fondazione del vescovato di Nin in Croazia, dipendente direttamente dalla sede romana e non dal patriarcato di Aquileia, gli consentì di rimettere piede nella regione.
La posta in gioco era anche la possibilità di espandersi più a nord, nelle terre di missione dove da parecchi anni latini e greci rivaleggiavano per affermare la propria influenza. In Bulgaria, la competizione pareva volgersi a vantaggio di Roma. Quando si era fatto battezzare, nell’864-65, il khan dei Bulgari, Boris, aveva avuto come padrino l’imperatore Michele III, ma successivamente, quando coltivava la speranza di poter mettere in piedi una Chiesa nazionale autonoma, Bisanzio era stata sorda alle sue richieste. Boris inviò allora, nell’estate 866, due ambascerie in Occidente, l’una a Ludovico il Germanico per chiedere che gli venissero mandati preti e materiale liturgico, l’altra a Niccolò, ponendo tra le altre la questione di un ‘patriarca’ (un arcivescovo) di Bulgaria. Niccolò colse l’occasione di imporsi su questo argomento con la sua Risposta alla consultazione dei Bulgari datata 13 novembre 866 (Ep. 99) e affidata ai vescovi Paolo di Populonia e Formoso di Porto, accompagnati da missionari.
Il testo, che fissava le regole della vita religiosa evitando di opporsi in modo troppo sistematico alle abitudini greche, per esempio a proposito del matrimonio dei preti, è soprattutto celebre per la descrizione che offre dei riti del matrimonio e per le posizioni che esprime sia sul mutuo consenso (delle famiglie più che dei singoli: si veda l’espressione «consensus facit nuptias», divenuta proverbiale), sia sui divieti di parentela. Niccolò ricordava anche con vigore il primato romano. Quanto all’eventualità dell’elezione di un patriarca, la subordinava alla consistenza numerica e al livello morale della cristianità bulgara, ovvero all’impegno di Boris nella diffusione della nuova religione.
Boris non desistette comunque dal suo progetto, rinviando ai luoghi di provenienza i rappresentanti del clero greco presenti sulle sue terre e chiedendo nell’autunno 867 che venisse conferita al vescovo Formoso la dignità di arcivescovo in Bulgaria, dove godeva di un vasto consenso. Niccolò eluse però la questione trincerandosi dietro l’impossibilità canonica del trasferimento da un seggio vescovile a un altro.
La carta bulgara era anche preziosa, si riteneva a Roma, per contrastare l’influenza dei missionari bizantini in Moravia. Il categorico rifiuto opposto da Roma alla richiesta di creazione di un episcopato indipendente aveva spinto il principe Ratislav (846-69) a rivolgersi a Costantinopoli per organizzare la propria Chiesa. Nell’864 Fozio aveva inviato Costantino-Cirillo e il fratello Metodio, la cui azione si era rivelata ben presto fruttuosa, suscitando nel contempo vivaci reazioni da parte del clero franco.
Nel settembre 867 Niccolò riprese allora l’iniziativa invitando entrambi a recarsi a Roma per incontrarlo; ricevuta la missiva del papa mentre si trovavano a Venezia, sul punto di recarsi a Costantinopoli per ordinare un gruppo di chierici moravi, Costantino e Metodio si diressero immediatamente verso Roma, dove giunsero tuttavia solo dopo la morte del papa, avvenuta il 13 novembre.
Niccolò venne inumato nell’atrio di S. Pietro, a fianco della porta meridionale. Il 2 febbraio 868 Adriano II chiese di ricordare il suo nome nei libri e dittici delle chiese e di inserirlo nelle litanie della messa. La promozione agiografica gli fu assicurata da Giovanni Diacono nella parte finale della Vita di Gregorio Magno (scritta verso l’875) che gli era stata commissionata da Giovanni VIII, collocando in tal modo l’azione di Niccolò in continuità con quella del pontefice più prestigioso dell’Alto Medioevo. Prospero Lambertini, il futuro Benedetto XIV, lo iscrisse tra i canonizzati nel suo De servorum Dei et beatorum canonizatione (t. I, Bologna 1734).
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