GUPALATINO, Niccolò
Nacque probabilmente tra il quarto e l'inizio del quinto decennio del secolo XV; se il cognome parrebbe indicare una provenienza straniera, forse greca (M.A. Rouse - R.H. Rouse, pp. 222 s.), è certo che il G. fu un medico veneziano, ben inserito negli ambienti del patriziato e nei circoli umanistici della città.
Il suo nome non risulta negli Acta graduum academicorum, né tra i dottorati o studenti presso la Studio di Padova, né tra i membri del Collegio padovano facenti parte delle commissioni esaminatrici, anche se non si può escludere una perdita di attestazioni.
D'altronde il G. poteva certamente avere studiato a Padova ma non avervi conseguito la laurea e far parte della ancora vasta schiera di medici non laureati; oppure il suo caso potrebbe rientrare nella categoria dei medici "de gratia", che ottenevano, per fama e prestigio ottenuti nella pratica, l'abilitazione all'esercizio della professione da uno dei due Collegi veneziani, dei medici e dei fisici.
La prima consistente memoria della sua attività è fornita dalla lettera di dedica composta dallo stesso G., inserita, nella c. 203, alla fine del testo di Iohannes Mesue, cioè Yuhanna ibn Masawaih, De medicinis universalibus (Indice generale degli incunaboli [IGI], 6382), stampato, presumibilmente a Venezia, nel 1471, da Clemente da Padova. Queste poche righe, che recano la data del 18 maggio 1471, contengono una miniera di informazioni: la lettera è rivolta all'editore dell'opera del Mesue, Pellegrino Cavalcabò, la cui presenza a Padova è ben attestata in qualità di studente di medicina dagli Acta graduum academicorum in quattro proclamazioni di laurea del 1449, tre delle quali riguardanti scolari di origine veronese come lo stesso Cavalcabò.
Il G. e il Cavalcabò dovevano avere studiato a Padova negli stessi anni e potevano avere stretto un'amicizia coltivata nel tempo in cui era maturato il progetto editoriale di questa editio princeps. Nella lettera il G. ringraziava il Cavalcabò, cui si rivolgeva definendolo "vir litteratissime", a nome di tutta la classe medica per aver dato alla luce un codice raro e per aver emendato il testo che la negligenza e l'ignoranza avevano deturpato. Il G. metteva in evidenza l'importanza della comunità medica veneziana nel patronato delle prime opere a stampa, e più studiosi hanno del resto rilevato la stretta connessione esistente tra il progetto di nascita di uno Studio generale a Venezia delineato da una bolla papale del 1470, la rilevanza assunta dal Collegio dei fisici, la maggiore consapevolezza dei medici fisici della propria dignitas e la nuova arte tipografica che si istallava a Venezia nel 1469. L'accresciuta autorevolezza del Collegio dei medici fisici e la prospettiva di una possibile apertura di un corso universitario di medicina, che non si sarebbe in realtà mai attivato, avrebbero attirato medici e stampatori in cerca di patroni e clientela (Lowry, pp. 57 s.; Baurmeister, p. 19). Molti tra i medici veneziani erano del resto esponenti dell'umanesimo, colti e sensibili alle nuove istanze culturali: alcuni di essi possedevano ricche biblioteche, confermando un complessivo quadro di emersione di un gruppo professionale dal successo personale e dallo status sociale elevati. Certamente il G. era uno di questi medici di successo, amante delle lettere, bibliofilo e cultore del greco, che negli anni romani avrebbe avuto modo di coltivare nel rapporto con Teodoro Gaza. Del suo amore per le lettere e della sua personale applicazione troviamo testimonianza in un codice miscellaneo, conservato presso la Bodleian Library di Oxford (Canon. misc., 308 [SC 19784], cc. 217-222v) che contiene un fascicolo di 6 cc. redatto dal G., come sappiamo dall'explicit: "Complectus est hic libellus Homeri de ranis et muris [sic] per me Nicolaum Gupalatinum de Venetiis", esemplato forse tra gli anni Cinquanta e Sessanta sulla traduzione dal greco al latino fatta da Carlo Aretino (M.A. Rouse - R.H. Rouse, pp. 223 s.; Bénédictins du Bouveret).
L'amore per gli studi classici lo spinse a divenire un sostenitore entusiasta della nuova tecnica di produzione libraria che egli paragonava, nella lettera al Cavalcabò, a un miracolo, auspicandone l'utilizzo al servizio dell'arte medica, oltre che delle lettere. Nella lettera di dedica il G. parla di Clemente, "impressor Clemens pattavinus sacerdos bonus", uomo di lettere, esperto calligrafo, e ne elogia l'operato che aveva portato a un affinamento dell'arte tipografica in Italia, definendolo primo stampatore italiano: "Italorum primus libros hac arte formavit".
Come esattamente scaturì questa impresa editoriale, chi sostenne i costi, quale il ruolo del G. e che genere di rapporti intercorresse tra il G., il Cavalcabò e Clemente da Padova sono elementi ancora oscuri; si può del resto pensare che il sacerdote padovano avesse conquistato nel mercato librario, nella sua città natale e altrove, una fama di maestro, miniatore e copista tale da accordargli la fiducia anche nel passaggio alla nuova arte. La stampa del De medicinis del Mesue da parte di Clemente da Padova è comunque da situarsi in uno stringente rapporto con l'ambiente medico veneziano, teso alla ricerca di una propria autonomia rispetto allo Studio padovano: non è forse un caso se, a ridosso della stampa veneziana, compariva il 9 giugno 1471 un'edizione padovana del Mesue uscita dai torchi di Lorenzo Canozio (Lorenzo Genesini da Lendinara; IGI, 6383), promossa forse dal Collegio medico dell'Università di Padova.
Tutto ciò rivela inoltre il particolare interesse che l'opera del Mesue suscitava in quegli anni, testimoniato anche dal giudizio del G. che nella lettera di dedica riteneva il testo superiore a tutti gli altri in materia. Ben 17 edizioni di incunaboli ne fanno infatti uno dei libri di medicina più popolari del tempo (IGI, 6382-6387, 6384 A), presente nelle biblioteche personali dei medici (Varanini - Zumiani).
Alla fine della sua lettera, il G. confidava al Cavalcabò la speranza di potere, grazie al suo aiuto, fare stampare da Clemente un compendio di aforismi medici che aveva raccolto l'anno precedente, ma questo progetto non dovette mai realizzarsi. Clemente dopo la stampa del Mesue richiese un impiego come stampatore, legatore e miniatore al Senato di Lucca che registrò tale supplica l'11 ag. 1472 e lo approvò. Clemente tuttavia non si recò a Lucca; probabilmente morì in quel torno di tempo.
Il G. riemerge nella documentazione con una sua lettera datata Viterbo 24 sett. 1474 e inviata a Roma, grazie alla quale sappiamo che in quel momento il G. si trovava come medico al seguito di Antonio Donà, un patrizio veneziano del ramo "con le Rose" che negli anni 1473-74 era ambasciatore presso papa Sisto IV. Il Donà era uomo di lettere e coltivava l'amicizia di scrittori, letterati, bibliofili come Leonardo Sanuto. La lettera del G. al Donà riguarda proprio lo stato di salute del Sanuto, febbricitante e raffreddato. Il G. rassicurava il Donà sul miglioramento delle condizioni del Sanuto dopo le cure somministrategli e contava su una rapida guarigione e sulla possibilità di ritornare a breve tempo a Roma trasportandolo in lettiga. La lettera del G. è inserita in un codice miscellaneo di mano di Marin Sanuto, figlio di Leonardo, conservato presso la Biblioteca naz. Marciana di Venezia, Mss. lat., cl. XIV, 265 (=4344), c. 75; il Sanuto tuttavia completava la lettera del G. con la scarna annotazione della morte del padre, avvenuta l'11 ottobre a Roma.
Nel 1475 il G. redigeva una lettera di dedica a papa Sisto IV per la prefazione di un'edizione dei Problemata pseudoaristotelici tradotti da Teodoro Gaza e stampati a Roma dal tedesco Johann Reinhard (IGI, 847); il G. con molta probabilità era dunque rimasto al seguito del Donà anche durante la seconda ambasceria affidatagli nel 1475 e conclusasi nel marzo 1476.
Nella lettera riferiva di aver visto l'editio princeps stampata a Mantova nel 1473 da Johann Vurster e Johann Baumeister (IGI, 846) ma sottolineava la superiorità della più recente versione, grazie alla cura con la quale Gaza, ormai anziano, aveva emendato il testo che aveva tradotto già molto tempo prima. Il G. stesso riferiva di essere stato diretto testimone dell'attento lavoro durato ininterrottamente un anno. L'edizione poteva essere stata poi messa a punto dallo stesso G. dopo che Gaza, che aveva sperato invano in un intervento di patronage di Sisto IV nei suoi confronti, si era allontanato da Roma e ritirato a Policastro vicino a Salerno (M.A. Rouse - R.H. Rouse, pp. 233-235).
Nella prefazione il G. si dilungava a discutere dell'importanza e della qualità del testo di Aristotele all'interno della tradizione scientifica, e alla fine, commentando la modalità di riproduzione, ricordava di aver già avuto modo di elogiare la nuova arte impressoria nella lettera di dedica del Mesue.
Questo lavoro editoriale permette di focalizzare ancora di più il milieu romano del G., ancora influenzato, nonostante la morte avvenuta nel novembre del 1472, dalla figura del cardinale Bessarione e dalla sua accademia, e che, nell'interesse per la riscoperta della classicità, grazie alla presenza in città di dotti esuli greci, prestava estrema attenzione alla qualità delle traduzioni dal greco al latino e alla correttezza dei testi. Proprio la traduzione dei Problemata di Gaza, messi in stampa dal G., fu al centro di alcune polemiche, avendo suscitato la critica di Giorgio Trapezunzio, un altro esule greco (Monfasani; Martinoli Santini), protagonista dell'aspra disputa platonico-aristotelica con Bessarione (Zorzi). Tuttavia questa edizione con la versione di Gaza fu subito esemplata in numerosi codici che riportano anche la lettera del G.; in uno di questi, conservato, presso la Biblioteca naz. di Firenze (Magl. XII.49), la mano del copista è stata collegata a uno scriba operante presso l'Università di Bologna e che negli anni 1470-90 lavorava per Vespasiano da Bisticci (M.A. Rouse - R.H. Rouse, p. 235), fatto che documenta quanto questa impresa editoriale venisse recepita dai circuiti della più raffinata committenza libraria.
Non sappiamo se il G., conclusasi l'ambasceria del Donà, lo seguisse in patria, ma sembra più probabile che egli rimanesse a Roma, perché un altro documento consente di percepire la sua influenza nei circuiti dell'umanesimo romano e negli ambienti curiali anche negli anni successivi. Si tratta di una lettera del giovane padovano Andrea Brenta, allievo di Demetrio Calcondila, di cui aveva seguito le lezioni a Padova, e corrispondente di Gaza, docente egli stesso di eloquenza greca e latina in quegli anni presso lo Studio romano. Tale lettera era inserita nell'edizione del De insomniis di Ippocrate tradotto dallo stesso Brenta, offerto a Sisto IV, uscito, senza luogo né data, a Roma intorno al 1481 e firmato dalla sigla D.D.L.D.S.D.V. - Oliverius Servius (IGI, 4784). Nella lettera indirizzata al G., cc. 10v-15r, il Brenta giustificava il ritardo della traduzione che lo stesso G., insieme con Luigi Podocataro, medico di origine cipriota, aveva caldeggiato. Il Brenta ricordava quanto i due lo avessero esortato a studiare e prometteva di applicarsi e di seguire i loro consigli perché essi lo amavano come parenti e a loro egli si rivolgeva perché dotti ed esperti in medicina.
La lettera del Brenta (del 1480?) è l'ultima notizia riguardante il G. ancora in vita. Non si conoscono né la data né la località della sua morte.
Una parziale ricostruzione della sua biblioteca ci è offerta dalle sue copiose e rigorose annotazioni apposte su un esemplare dell'edizione del Conciliator di Pietro d'Abano, stampato a Mantova nel 1472 da Johann Vurster e Thomas di Hermannstadt (IGI, 7596), conservato presso la Biomedical Library di Los Angeles (History Division, **WZ230/ A117c / 1472 Rare), completate da una bibliografia delle opere di Pietro d'Abano, che il G. appuntava con ordine, preceduta dalla sua rivendicazione di paternità: "Libri a Petro Appono […] commemorati hic in suo Conciliatore atque collecti diligenter N. Gupalatini, ex perlecto volumine" (M.A. Rouse - R.H. Rouse, pp. 237-251).
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