GRASSETTO, Niccolò
Nacque, probabilmente a Piove di Sacco (Padova), dal notaio Bartolomeo agli inizi del XV secolo.
Nulla si sa della sua famiglia, che dovette però essere stata abbastanza agiata e provvista di connessioni parentali di discreta importanza, nonché dei primi suoi studi. Il G. non è senz'altro da confondersi con un suo omonimo, frate francescano fiorito nella seconda metà del Quattrocento e anch'egli attivo nella città di Padova.
Il 29 sett. 1428 ricevette la prima tonsura e il 22 sett. 1436 il suddiaconato. A questa data egli è già canonico della pieve di S. Tommaso "de Curte" e chierico della chiesa di S. Martino di Vigodarzere nella diocesi di Padova. Ordinato sacerdote il 21 sett. 1437, fu probabilmente poco dopo nominato rettore della chiesa padovana di S. Michele. Il 14 ag. 1443 si licenziò e subito dopo, il 6 settembre, si addottorò in diritto canonico: nei documenti della licenza e della laurea il padre del G. è indicato come "civis paduanus", segno che ormai la famiglia si era definitivamente e stabilmente inurbata.
Dal 10 luglio 1445 il G. assunse la carica di vicario generale del vescovo di Padova Pietro Donà sostituendo il presule solo limitatamente alle sue funzioni di cancelliere dello Studio patavino. In tale veste dal 1445, fino almeno al 1450, presenziò a molte licenze e lauree in diritto canonico, nonché ad alcune in arti, in utroque iure e in teologia. Nel gennaio 1448 il G. fu riconfermato nell'ufficio di vicario generale dal nuovo vescovo Fantino Dandolo: nelle frequenti assenze del Dandolo, con più ampio mandato, egli fu chiamato a esercitare i pieni poteri su tutte le istituzioni di giurisdizione vescovile. Il G. tentò allora, seguendo l'ispirazione di varie correnti spirituali operanti allora nell'Italia settentrionale, di promuovere una vasta riforma della disciplina del clero secolare e conventuale della diocesi di Padova. Così, già tra la primavera e l'estate del 1448 provò, senza muoversi da Padova, a mettere ordine nelle parrocchie di una zona dell'alto Vicentino allora pertinente alla diocesi patavina.
Era questo un territorio che si estendeva, incuneandosi tra le vallate dell'Astico e del Brenta, lungo la fascia pedemontana tra Cogollo, Breganze e Marostica e si congiungeva ad altre parrocchie poste sui terreni più pianeggianti dell'altopiano dei Sette Comuni; una zona lontana da Padova e abitata per lo più da pastori, boscaioli e minatori tedeschi chiamati nel corso del XIV secolo dai feudatari a ripopolare le campagne. La cura d'anime di questi paesi era affidata per lo più a ecclesiastici, in gran parte tedeschi, ignoranti e concubinari, che il G. procedette in questi mesi a richiamare alla disciplina o a destituire senza tante cerimonie: fece allontanare le concubine e i frati transfughi dai loro Ordini, esaminò il livello culturale dei parroci, sollecitò la loro diligenza nella recita dell'ufficio divino e nell'amministrazione dei sacramenti, punì severamente l'uso delle armi, i vestiti fuori ordinanza e il gioco d'azzardo.
Mosso dalla stessa ansia di riforma nel settembre del 1448 visitò al seguito del Dandolo la Bassa padovana (Monselice e Montagnana), poi da solo si recò a vedere coi propri occhi le condizioni dell'alto Vicentino e dell'altopiano dei Sette Comuni. Nell'ottobre del 1449 ripeté la visita alle parrocchie della Bassa padovana e dei colli Euganei, ma la sua opera riformatrice suscitò proteste: nel luglio del 1449 le suore del monastero del Beato Pellegrino di Padova ricorsero alla S. Sede accusando il G. di aver tentato di estorcere confessioni per appurare una serie di irregolarità avvenute durante gli anni precedenti nel chiostro. Il vicario dovette dunque correre a Roma - dove si trattenne tra il dicembre 1449 e l'inizio di febbraio 1450 - per discolparsi; ma al ritorno a Padova, sorretto dalla fiducia in lui riposta dal Dandolo, il G. proseguì nel lavoro di risanamento disciplinare della diocesi. Il 4 marzo 1450, avendo saputo di alcuni "adulteri e sacrilegi" compiuti dalle monache del monastero di S. Bernardo fuori le Mura di Padova, fece irruzione, accompagnato da funzionari della curia vescovile, nel chiostro, interrogò a una a una le suore e decise immediatamente di arrestare e trasferire in prigione la badessa Orsola. Frattanto egli andava preparando il sinodo diocesano che si doveva celebrare a Padova il 22-23 apr. 1450, a conclusione del quale il Dandolo, in partenza per Venezia, gli riconfermò i suoi poteri di vicario. Procedendo nella sua opera riformatrice e confidando in una buona conclusione dell'inchiesta che su di lui si stava istruendo a Roma, il G. visitò di nuovo nel settembre 1450 le parrocchie dell'alto Vicentino, scoprendo e punendo nuovi abusi. Ma il 27 genn. 1451, per difendersi dalle accuse giunte ai tribunali romani, fu costretto a nominare suo procuratore a Roma lo scrittore apostolico Alberto Fioccardi. Sotto l'incombere di un possibile procedimento disciplinare il G., all'inizio di giugno 1451, rassegnò ogni suo incarico in diocesi al giurista Giovan Francesco Pavini, mentre a fine estate veniva privato di uno dei suoi benefici canonicali in S. Tecla. Infine il 4 ott. 1451 il Dandolo, benché forse a malincuore, fu costretto a rimuoverlo definitivamente dalla carica di vicario nominando in sua vece Antonio Ducci. Il processo contro il G. si concluse però favorevolmente e, dopo due anni di distacco dall'impegno pastorale, il 15 marzo 1453 il patriarca di Venezia Lorenzo Giustinian comunicò alla curia padovana che il G. era assolto dalla scomunica e da ogni pena e censura ecclesiastica.
Dopo questa data non si hanno più notizie sul suo conto per circa venti anni. Probabilmente egli si dedicò, come prete secolare, alla cura delle anime e agli studi. Verso la fine della sua vita poi il G. entrò nell'Osservanza francescana, stabilendosi nel convento di S. Pietro Viminario di Padova. Qui il 14 ott. 1489, già ultrasettantenne, accolse in qualità di guardiano il vescovo Pietro Barozzi, nel corso della sua visita pastorale; in quell'occasione il verbalizzatore della visita rilevò come il G. si dedicasse con scrupolo e tenacia all'insegnamento e alla composizione di un'opera di teologia morale, ora perduta. Dopo questo anno nulla più si sa di lui ma è probabile che, data la tarda età, egli sia morto poco dopo.
Fonti e Bibl.: L. Sbriziolo, "Magistri in sacra pagina" della seconda metà del Quattrocento, in Quaderni per la storia dell'Università di Padova, VI (1973), pp. 171 s., 176 s., 180; D. Cortese, Rettifiche su alcuni maestri teologi al Santo tra Quattrocento e Cinquecento: ilmaestro Sebastiano ed il maestro N. G. dell'Ordine dei minori, in Il Santo, XV (1975), pp. 275-295 (primo saggio che distingua i due omonimi francescani); Id., Francesco Della Rovere e le "orationes" sull'Immacolata del vescovo di PadovaFantino Dandolo (1448), ibid., XVII (1977), p. 214; P. Gios, Il vicario generale N. G. e il clero padovano dell'alto Vicentino. Situazione morale e tentativi di riforma (1448-1451), in Archivio veneto, CXXII (1984), pp. 5-33; Id., Aspetti di vita religiosa e sociale a Padova durante l'episcopato di Fantino Dandolo (1448-1459), in Riforma della Chiesa, cultura e spiritualità nel Quattrocento veneto. Atti del Convegno per il VI centenario della nascita di Ludovico Barbo. Padova, Venezia, Treviso… 1982, Cesena 1984, pp. 161-204; Id., L'inquisitore della Bassa padovana e dei colli Euganei (1448-1449), Candiana 1990.