GIANFIGLIAZZI, Niccolò
Figlio di Castello (Tello) di Cafaggio, nacque nell'ultimo quarto del sec. XIII a Firenze o ad Avignone, dove il padre aveva impiantato una filiale della sua compagnia bancaria in società con il fratello Giovanni. La madre era Lapa di Soldo Rossi.
Apparteneva a un'antichissima famiglia fiorentina di origine magnatizia, insignita della dignità cavalleresca, come denota il titolo di "dominus" o di "nobilis miles" attribuito dalle fonti contemporanee a molti suoi membri, tra cui anche il G. (il padre ne era invece privo). Questo fatto comportò la loro esclusione dalle massime cariche del Comune di Firenze, allorché, salita al potere una classe politica borghese e artigiana, furono promulgati nel 1293 gli ordinamenti di giustizia che, tra le altre limitazioni imposte ai magnati, sancirono appunto la loro inabilità al priorato e agli altri uffici maggiori della città. Il padre del G., insieme con i suoi fratelli e cugini, aveva impiantato attività bancarie nella Francia meridionale, in Provenza e nel Delfinato; fra i principali clienti comparivano i La Tour du Pin, signori del Delfinato e lo stesso Carlo II d'Angiò, re di Napoli e signore di Provenza. Per la loro cospicua attività di prestito ad alto tasso d'interesse i Gianfigliazzi erano considerati dalla pubblica opinione degli usurai, attività pesantemente condannata dalla dottrina della Chiesa, ma tollerata, in quanto indispensabile nella società del tempo. Per riscattarsi da questa cattiva fama essi, com'era costume per chi si dedicava a tale attività, facevano munifiche elargizioni a enti religiosi o singoli ecclesiastici e fondavano cappelle e monasteri; anche il G. non farà eccezione a questa regola.
Il G. ebbe forse una parte minoritaria nelle società fondate dal padre, ma sembra che egli sia rimasto per la maggior parte del tempo a Firenze, ove curava gli interessi paterni relativi soprattutto ai suoi possedimenti in città e nel contado. Il G. aveva un fratellastro di nome Neri che invece risiedeva stabilmente a Carpentras e che probabilmente, a differenza del G., aveva un ruolo operativo nell'azienda di famiglia. Poco dopo il 1300 il G. si era sposato con Ghita di Alamanno Adimari, da cui ebbe un unico figlio maschio di nome Giovanni, che morì in giovane età, e almeno quattro figlie: Costanza, Filippa, Sofia e Lena.
La loro tradizionale adesione al partito guelfo fece sì che, in seguito alla discesa in Italia di Enrico VII - estremo tentativo di ristabilire la supremazia imperiale in Italia -, i Gianfigliazzi furono, nel 1313, dichiarati ribelli al pari di altre importanti famiglie guelfe di Firenze: in questo elenco il G. figura, insieme con i cugini Giovanni e Simone di Rosso e con Geri Gianfigliazzi; tale condanna rimase priva di conseguenze pratiche, anche per la precoce morte dell'imperatore (1313). Nel febbraio 1315 il G. fu scelto, in qualità di cavaliere, per far parte del contingente di 2000 uomini inviati dai Fiorentini a presidiare il castello di Montecatini, minacciato da Uguccione Della Faggiola signore di Lucca; egli però si avvalse della facoltà, concessa ai magnati, di mandare un sostituto.
Verso la fine del maggio 1318 giunse al G. notizia della morte del padre, avvenuta a Carpentras e si preparò a partire per la Provenza per sistemarne gli affari lasciati in sospeso e raccoglierne l'eredità. Prima di partire fece testamento, lasciando erede universale il figlio Giovanni; un codicillo del testamento prevedeva che, nel caso che questi fosse morto prima di raggiungere la maggiore età, gli sarebbe subentrato nell'eredità "Gesù Cristo", ossia i suoi beni sarebbero stati impiegati dagli esecutori testamentari per costruire un convento al posto delle sue case sulla piazza fiorentina di S. Trinita.
Giunto in Provenza e raccolta l'eredità paterna, il G. fece aprire un libro contabile in cui furono trascritte dal suo fattore Piero Velluti tutte le partite non ancora chiuse della compagnia - formata dal padre e dal cugino Giovanni di Rosso - che aveva cessato le attività il 1° marzo 1318. Il 22 apr. 1319 fece un conto generale con il signore del Delfinato, Guigo III, da poco succeduto al padre, Giovanni, che era stato un cliente abituale dell'azienda paterna; dal conto risultò che Guigo era indebitato con i Gianfigliazzi per oltre 20.000 fiorini, somma comprensiva dell'interesse, fissato in questo caso al 20%. Il G. ricevette come garanzia del saldo lo sfruttamento delle saline del Delfinato; in occasione di un saldo successivo, effettuato il 21 febbr. 1325, l'ammontare dei debiti del delfino era sceso a 16.000 fiorini e come garanzia al G. furono dati per cinque anni i proventi del "chastello di San Lorenzo e tutta la castelaneria d'Ugenza e l'apartenenza, e 'l castello e la castellaneria e 'l pedagio e la gabella di San Latieri in Vienese" (Sapori, 1945, p. 96). Nell'assumere la guida dell'azienda paterna il G. dette un ruolo all'interno di essa anche al fratellastro Neri, benché questi non fosse stato nominato nel testamento paterno, e avviò una serie di controversie legali con il cugino, Giovanni di Rosso, che del padre era stato socio per alcuni anni.
Il G. incontrò però, nella conduzione degli affari, molte gravi difficoltà: la prima gli venne da Giacomo II, re d'Aragona, il quale, benché avesse ottenuto ingenti prestiti in denaro dal padre del G., alla morte di quest'ultimo chiese al proprio procuratore presso la Curia pontificia di Avignone di iniziare contro di lui un processo per usura. In quell'occasione i libri contabili della compagnia del G. furono sottoposti all'esame di Geri da San Gimignano, avvocato fiscale della Camera apostolica di Avignone. Si può ipotizzare che l'accusa di usura fosse poi liquidata in fase istruttoria, grazie anche alla compiacenza dell'avvocato curiale, che conosceva benissimo il G., di cui era stato anche occasionalmente cliente. In un estremo tentativo di captatio benevolentiae, il G. aveva commissionato in favore di Geri l'esecuzione di una coppa d'argento dorato, che non gli fu però consegnata e venne in seguito rivenduta. Nonostante il procedimento giudiziario, che poteva compromettere le sorti della compagnia bancaria del G., il fallimento non avvenne e non ci fu nessuna interruzione dell'attività finanziaria, che proseguì anche se in tono minore; gli stessi libri contabili rimasero in mano al G., tanto è vero che alla sua morte furono tutti portati a Firenze.
Altre grosse difficoltà vennero al G. dal comportamento disonesto di alcuni fattori dell'azienda, in particolare di Iacopo di Bruno, detto Zampaloca; questi nel 1321 comprò per 1400 fiorini un titolo di credito di 2000 fiorini di certo Giachetto Mancini nei confronti del signore del Delfinato, pagandolo con denaro dell'azienda e senza fare redigere l'atto di cessione a favore della compagnia Gianfigliazzi; pertanto tale debito non fu conteggiato dal G., rimasto all'oscuro della vicenda, nel saldo effettuato nel 1325 con il signore del Delfinato. Quando, poco dopo, ne venne a conoscenza, essendo nel frattempo morto lo Zampaloca, non poté far altro che trovare un accordo amichevole con gli eredi, per non rimetterci per intero tale somma. Ma c'erano state anche in precedenza occasioni in cui il fattore aveva rifiutato di dare conto ai principali della sua amministrazione, tanto che nel 1319 gli era stata intentata causa dal cugino del G., Giovanni di Rosso.
Il G. fece ritorno a Firenze nel 1320, lasciando l'azienda affidata ai fattori Matteo e Piero Velluti (anche il fratellastro, Neri, tornò a Firenze il 9 luglio 1321). L'azienda proseguì la sua attività ancora per qualche anno, ma in tono minore rispetto al passato; la morte del G. venne poi a interromperla del tutto.
Il G. morì a Firenze nell'agosto 1325.
Lasciava la madre e la moglie come tutrici dell'unico figlio Giovanni, il quale morì a sua volta nel 1328, senza avere raggiunto la maggiore età; ciò fece scattare la clausola contenuta nel testamento del G., secondo cui la maggior parte dei suoi beni doveva essere devoluta in favore di istituzioni ecclesiastiche. Gli esecutori testamentari, tra cui il suocero Alamanno Adimari, decisero, prima di tutto, di liquidare la compagnia bancaria e poi, non ritenendo opportuno costruire un nuovo insediamento religioso troppo vicino alla badia di S. Trinita, decisero di erigerlo su un appezzamento di terreno non lontano da S. Maria del Fiore, in un luogo detto Cafaggio, dove sorse il convento di S. Niccolò Maggiore, detto di Cafaggio, cui andarono parecchi beni dell'eredità del G., tra cui anche gli ultimi due libri contabili dell'azienda bancaria.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Corporazioni religiose soppresse, Spoglio delle pergamene del convento di S. Niccolò Maggiore, 249, cc. 21, 23, 27, 45, 48, 49, 94; Libro giallo di N. G., passim; Libro contabile dell'erede di N. G., passim; Sentenza dell'imperatore Arrigo VII…, in Delizie degli eruditi toscani, XI (1782), pp. 125, 203 s.; A. Grunzweig, Le fonds de la Mercanzia aux Archives d'État de Florence, in Bulletin de l'Institut historique belge de Rome, XIII (1933), pp. 105-113; A. Sapori, I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi, Milano 1945, ad ind.; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1758, pp. 31-35; A. Sapori, Le compagnie bancarie dei Gianfigliazzi, in Id., Studi di storia economica, II, Firenze 1955, ad indicem.