GAMBACORTA, Niccolò (Niccolò da Pisa, Nicolaus de Gambacurtis de Pisiis)
, Niccolò (Niccolò da Pisa, Nicolaus de Gambacurtis de Pisiis). - Nacque tra la fine del XIV e i primi del XV secolo a Pisa o nelle sue immediate vicinanze. Delle sue origini non si hanno notizie più circostanziate e le fonti non offrono indizio alcuno sui suoi legami di parentela con la famiglia pisana dei Gambacorta; solo il Litta ricorda, per l’anno 1402, un Bartolomeo di Niccolò Gambacorta, al soldo dei Fiorentini insieme con Andrea di Gherardo Gambacorta.
Il G. apprese la «nobile arte della guerra» militando nelle file delle milizie di Braccio da Montone (Andrea Fortebracci), vero e proprio caposcuola per molti condottieri della prima metà del Quattrocento. Il 2 giugno 1424, insieme con il Gattamelata (Erasmo da Narni) e Niccolò Piccinino, prese parte in qualità di caposquadra al sanguinoso scontro nei pressi dell’ Aquila, i cui abitanti per essersi devoluti a Giovanna II, regina di Napoli, subivano da più di un anno il duro assedio delle truppe del Fortebracci, alleato di Alfonso d’Aragona pretendente al trono partenopeo. La battaglia fu vinta dalle armate di Francesco Sforza, al servizio della regina Giovanna, e pose definitivamente fine alle mire espansionistiche del Fortebracci, che morì nello scontro. Con lo smembramento delle armate del condottiero umbro non si hanno più notizie del G. fino al 143°, quando ricompare al fianco di Cesare Martinengo, di Taddeo d’Este e del Gattamelata nell’esercito pontificio inviato al comando di Giacomo Caldora in Romagna per riassoggettare Bologna alla Chiesa, nell’ambito del progetto di riordinamento territoriale messo in atto con il pontificato di Martino V.
Con il passare degli anni le testimonianze relative al G., che è ricordato in una missiva di Filippo Maria Visconti del 10 ottobre 1433 indirizzata a Niccolò Piccinino (Osio, p. 105), si fanno più numerose e circostanziate: il 28 ag. 1434 partecipò, nelle file dell’esercito veneto-fiorentino guidato dal Gattamelata e da Niccolò da Tolentino, allo scontro di Castelbolognese dove i collegati furono sconfini dallo schieramento visconteo capitanato da Niccolò Piccinino, nelle cui mani cadde prigioniero lo stesso Gambacorta.
In seguito il G. divenne un fedele uomo d’arme di Francesco Sforza: in tale veste, nel febbraio 1437, a fianco di Pier Brunoro e di Ciarpellone (Zerpellone), fu mandato in Garfagnana per alleggerire la pressione delle armate viscontee del Piccinino. Al comando di una folta schiera di armati, i tre, dopo alcuni scontri di scarsa rilevanza, riuscirono a liberare il castello di Barga, di strategica importanza per i Fiorentini e assediato in quei giorni dal Piccinino, costringendo quest’ultimo a riparare in Lombardia.
Nel corso dell’estate le operazioni militari si spostarono nella Marca d’Ancona dove il pontefice era intenzionato a riaffermare un maggiore controllo sulla provincia, concessa in vicariato pèrpetuo allo Sforza nella primavera del 1434. Per le continue scorrerie compiute dal figlio di Niccolò Piccinino, Francesco, in particolare nei territori di Camerino e Fabriano, lo Sforza inviò in aiuto di suo fratello Alessandro, di stanza a Fabriano, l’altro suo fratello, Giovanni, e il Gambacorta. I due giunsero nella città marchigiana nell’agosto del 1437, con «500 cavalli e 2000 provvisionati». (come ricorda una lettera del 18 agosto scritta da Alessandro Sforza: cfr. Benadduci, pp. 92 s.) e unirono le proprie forze a quelle di Taliano (Vitaliano) Furlano. Pochi giorni dopo, l’11 settembre, il G. interveniva ad Ascoli per spezzarvi l’assedio condotto da Francesco Piccinino e Gioia di Acquaviva, costringendo i due condottieri a ritirarsi in Abruzzo.
Dall’autunno di quell’anno, pur prendendo parte alle incursioni contro gli abitanti di Camerino che avevano nominato reggente della città il giovane Piccinino, il G. rimase fino ai primi di maggio del 1438 a Fabriano, dai cui abitanti ricevette onori e presenti. Le operazioni militari si spostarono successivamente in Umbria dove gli abitanti di Cerreto, dopo aver richiesto l’aiuto dello Sforza contro Norcia, alleata del Piccinino, trovarono nel G. e in Pier Brunoro un insperato quanto determinante soccorso; i due capitani, infatti, dopo una fulmine a vittoria invasero il territorio di Norcia costringendo la cittadina umbra a cedere i tre importanti castelli di Rocchetta d’Oddi, Trifonzo e Belforte sul Nera.
È di questo periodo una lettera del G. dalla quale emergono gli ottimi rapporti con lo Sforza, che lo aveva ricompensato, per i servigi che egli gli aveva reso, con alcuni appezzamenti di terreno nei pressi di Genga nelle Marche (Valeri, p. 73).
Il riacutizzarsi della lotta tra Venezia, alleata con Firenze, e il Ducato di Milano condusse nell’estate del 1439 a un nuovo scontro militare: al comando dei rispettivi eserciti si trovarono, in questa occasione, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino. La situazione militare non si prospettava particolarmente favorevole per le armate della lega antiviscontea: già dal 1438 la città di Brescia era duramente assediata dai Milanesi e l’intero territorio veneto divenne teatro di numerosi scontri nei quali furono coinvolti i condottieri dei due schieramenti. Dal canto suo il G., sempre al servizio dello Sforza, si distinse nelle operazioni militari che si svolsero nel mese di novembre tra Verona e il lago di Garda, contribuendo, con azzardate azioni di perlustrazione, alla vittoria di Soave che portò alla liberazione di Verona (19-20 nov. 1439), conquistata pochi giorni prima dal Piccinino. La battaglia poneva temporaneamente fine all’espansionismo visconteo nei territori veneti e i mesi che seguirono portarono a una fase di stasi, utile a entrambi i contendenti per riorganizzare le proprie forze. Già dalla fine del febbraio 1440, però, il Piccinino, su ordine del duca di Milano, riprese l’iniziativa contro i collegati e giunse in Italia centrale minacciando i territori fiorentini. Francesco Sforza dispose allora, in accordo con i propri alleati, di mandare rinforzi in aiuto di Firenze e a un primo contingente, capitanato da Micheletto Attendolo, ne seguì un altro al comando del G. e dei capitani Troilo de Morro e «Attaccabriga» «cum circa 800 cavalli e 900 altri provisionati». (Valeri, p. 279).
In un primo momento il G. presidiò i valichi appenninici (Val Montone) ma dopo l’invasione del Casentino da parte del Piccinino, si uni al grosso delle truppe. Nel corso di queste operazioni il G. intervenne con successo presso il cardinale Giacomo Vitelleschi, comandante delle milizie pontificie, affinché non distruggesse, come aveva progettato, la roccaforte di Poppi, feudo del conte Francesco Guidi, alleato del Visconti.
Lo scontro decisivo avvenne il 29 giugno 1440 ad Anghiari, quando le forze della lega riuscirono, nonostante l’inferiorità numerica, ad avere la meglio su quelle ducali; della battaglia, che definì a favore di Firenze il conflitto con Milano, abbiamo due relazioni compIete redatte dai commissari in campo, i fiorentini Neri Capponi e Bemardo de’ Medici; nella seconda, datata 1° luglio 1440, è annunciata con molta soddisfazione la cattura da parte del G. di Astorre Manfredi, signore di Faenza e acerrimo nemico dei Fiorentini i quali, pur di averlo nelle proprie mani offrirono al capitano sforzesco «fiorini dumila d’oro larghi e netti» (Masetti Bencini, p. 122).
Riorganizzatosi in fretta il Piccinino, tra la fine del 1440 e gli inizi del 1441, riprese con rinnovato vigore l’offensiva in Lombardia e riuscì a sconfiggere le armate capitanate dallo Sforza in due scontri avvenuti rispettivamente a Chiari (13 febbr. 1441) e a Soncino (27 marzo 1441). Lo Sforza, riparato a Verona dove fu raggiunto anche dal G. e da Troilo, quali attendenti di Micheletto Attendolo, capitano generale in sostituzione del Gattamelata ammalatosi gravemente, si preparò alla controffensiva solo nella primavera inoltrata quando, concentrato il grosso del suo esercito, mosse contro il Piccinino. Dopo gli scontri di Cignano e Martinengo (giugno-luglio ’41), favorevoli al Piccinino, si giunse infine alla conclusione delle ostilità con la sottoscrizione della pace detta di Cavriana, dal nome della località dove vennero discussi gli accordi preliminari, siglata a Cremona il 10 dicembre successivo.
Non si sa dove il G. abbia trascorso gli ultimi mesi dell’anno; solo alla fine del gennaio 1442, nell’ambito di una ridistribuzione delle sue milizie, lo Sforza si propose di trasferirlo a Todi, come è riferito da Niccolò della Tuccia, o, come è sostenuto da altre fonti, nelle Marche.
Entrato nel territorio bolognese alla testa di 300 cavalieri, alcuni sostengono senza l’autorizzazione del Senato cittadino, il G. si accampò su alcune terre dei Bocchi, nobile famiglia di Bologna. Imprigionato e tradotto in città, cadde nell’agguato tesogli da Astorre Manfredi che, vendicandosi dell’episodio di Anghiari, lo pugnalò ripetutamente uccidendolo, taluni dicono con la complicità di Secco Cervato, uomo al soldo del Piccinino.
Della sua morte, avvenuta il 6 febbr. 1442, abbiamo una significativa testimonianza in una lettera dell’11 febbraio indirizzata da Bartolomeo de’ Cani allo Sforza: «Stasera ho inteso [...] che il Pisa non riuscendo a passare [...] era ito nel palazzo de Bologna per parlar con Cervato Secco e, tornando, s’imbatté nel Signor Estor de Faenza il quale dicendoli: «Nicolò, una volta ch’io ero tuo pregione ti volsi dare 4000 mila ducati e me lassasi andare, non volesti, anzi me vendisti alla Comunitate de Fiorenza per treamilia: io ti voglio pagare» et fecelo tagliare in peze, poy fuggì» (edita in nota in Decembrius, p. 786).
La morte del G., stando alla relazione di Bartolomeo de’ Cani, fu una vera e propria esecuzione; appresa la notizia, lo Sforza mise una taglia di 1000 ducati sul Manfredi e si lamentò della sua fine con lo stesso Piccinino. Il G. fu seppellito nella cattedrale di S. Petronio.
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