DELLA LUNA, Niccolò
Nacque a Firenze il 22 marzo 1410 da Francesco di Pierozzo e da Alessandra di Filippo di Leonardo Strozzi.
Ebbe sei fratelli: due a lui maggiori d'età, Pierozzo e Giovanni; gli altri, minori: Maddalena, Filippo, Giuliano e Pippa. La sua famiglia, abitante nel quartiere di S. Maria Novella, gonfalone Leone bianco, era di condizioni economiche agiate, possedendo, come risulta dalla dichiarazione catastale del 1427, case e botteghe in città e diversi poderi nei dintorni di Firenze, a San Piero a Settimo, a San Martino, a Montughi, a San Donato, a San Felice. Suo padre aveva ricoperto varie cariche pubbliche fra il 1407 e il 1434. Oltre a quelle inferiori di ufficiale delle Condotte, dei Contratti, dei Difetti, delle Porte, aveva infatti rivestito anche alcune fra quelle più significative; era stato gonfaloniere di Giustizia nel 1418, degli Otto di pratica nel 1423, dei Dieci di balia nel 1430. Eletto fra i Sei dell'ospedale degli Innocenti, nel 1434 aveva svolto questo incarico insieme con ser Filippo Pieruzzi. li mandato gli era stato poi prorogato fino alla conclusione dei lavori di costruzione (1445), nel corso dei quali aveva collaborato con Filippo Brunelleschi. Molti altri membri della famiglia ricoprirono cariche importanti dal Trecento al Cinquecento.Oltre che per legami di parentela, il D. fu unito anche per ragioni di studio e di amicizia con un gruppo di coetanei di rilievo nella Firenze dei primi decenni del secolo XV, quali Bartolomeo e Nofri Strozzi, figli di Palla Strozzi, Matteo Palmieri, Luigi Guicciardini, Leonardo Dati (il futuro vescovo di Massa Marittima), Andrea Quarratesi, Tommaso Ceffi e altri ancora. Con essi condivise gli studi letterari e retorici, alimentati dentro e fuori lo Studio da Sozomeno da Pistoia, da Leonardo Bruni, da Niccolò Niccoli, da Ambrogio Traversari. E proprio i suoi "contubernales" il D. ricorda in una lettera di quegli anni (forse assegnabile al 1425 (o poco dopo), non priva di valutazioni e giudizi sulla vita, non solo scolastica, degli amici della sua "cohors".
L'arrivo nello Studio fiorentino, nel 1429, di Francesco Filelfo, avvenuto anche per merito di Palla Strozzi, contribuì ad accrescere ancora di più gli interessi culturali del D. e del suo gruppo, d'altro canto fin troppo attratto dai piaceri della vita, come è dimostrato da lettere e poesie dello stesso D.; il quale, secondo un'ipotesi del Mancini (non corredata però da testimonianze documentarie), a causa di certe sue intemperanze giovanili avrebbe dovuto cercare rifugio e impunità in un convento di domenicani. Il D. si legò strettamente al Filelfo, che dapprima, nel 1431, gli indirizzò un carme in esametri, e poi lo pose fra gli interlocutori del suo polemico dialogo Commentationes Florentinae de exilio.
Da questo scritto appare anche evidente che il giovane D. era in contatto, fra gli altri, con Giannozzo Manetti, con Leonardo Bruni (dal 1427 cancelliere della Repubblica), con Poggio Bracciolini: cioè con alcuni dei più illustri esponenti dell'umanesimo fiorentino del momento, con i quali, e in modo speciale col Manetti, rimase sempre in contatto.
Il legame col Filelfo non si interruppe neppure quando questi lasciò Firenze nel 1434, e il suo posto nello Studio fu preso da Carlo Marsuppini: nei confronti del quale, sebbene nemico acerrimo del Filelfo, il D. ebbe rapporti di cordiale discepolanza.
Il D. si rivolse in questi anni, con particolare attenzione e profitto, allo studio della lingua e degli autori greci, anche se non tralasciò, naturalmente, i classici latini, come ricorda egli stesso in una significativa lettera all'amico Andrea Alamanni, che gli aveva procurato molti testi di filosofia greca. Vespasiano da Bisticci afferma che notevoli sarebbero stati i frutti di questo suo impegno di studio se il D. non fosse morto ancora giovane. Frutto delle letture classiche del D. è rimasto l'Enchyridion de aureolis sententiis et morali vita. L'operetta - trasmessa dai codici fiorentini Riccardiano 1166 e Magliabechiano XXI, 1170 - è dedicata a quel Nicola di Vieri de' Medici che, amico del Bruni e del Bracciolini, fu assai apprezzato anche da Leon Battista Alberti.
In questo scritto, il cui titolo rivela già lo scopo didattico ed educativo che si prefigge l'autore, il D. delinea le norme di comportamento cui dovrebbe attenersi chi intende perseguire nel proprio operare un fine morale. Sulla base di "sententiolae aureae" desunte da scrittori classici, il D. si diffonde a parlare della filosofia e del ruolo sociale dei filosofi; ed amplia il suo ragionamento alla necessità che l'uomo si serva della sapienza, ad esempio, per discernere il bene e il male, per definire i rapporti con i suoi simili, per sviluppare Pamicizia. L'uomo deve quindi seguire le virtù e fuggire i vizi, anche sul piano politico, dove non tutte le forme di governo hanno moralmente identico valore.
Le tesi esposte dal D. in questa operetta non sono certo di grande originalità, proprio per la loro derivazione, del resto dichiarata dall'autore stesso. Non è infatti difficile riconoscere in esse il riflesso di motivi e di dottrine che da Platone e Aristotele giungono fino a s. Agostino. Non è da escludere, tuttavia, che l'operetta, dallo stesso autore definita "muriusculum" nell'indirizzo dedicatario in attesa di studi più impegnativi, sia stata intesa dal D. proprio come una semplice esercitazione a metà strada fra la retorica e la filosofia, non dissimile da analoghe composizioni già apparse in passato. Lo farebbero supporre, tra l'altro, anche alcune espressioni usate nella dedica a Nicola de' Medici, dove il D., dopo aver affermato di aver osato "latina facere" alcuni "dicta" incontrati nelle opere di filosofi greci - "dicta" che per la loro "gravitas et copia" superano di gran lunga tutti i "nostri" all'infuori di Cicerone - dichiara che rimangono "sententiolae aureae permultae elegantissimo stilo perscriptae" di Sesto Pitagorico e di Aurelio Agostino, e dice che egli si sforzerà di imitare questi scrittori secondo l'usanza di Cicerone "qui semper graecis latina coniunxit".
Pur tanto impegnato nello studio della cultura classica latina e greca, il D. non tralasciò la letteratura volgare, nella quale pure si cimentò, particolarmente, in occasione di quell'avvenimento di straordinaria importanza quale fu il Certame coronario, promosso nel 1441 dall'Alberti. Il D. scrisse, in prosa, un Capitolo della amiciçia, che non solo era di plauso per l'iniziativa albertiana, ma che nelle intenzioni dell'autore doveva costituire una specie di prologo alla gara poetica. Il Capitolo deve ritenersi perciò anteriore al vero e proprio Certame, e deve essere giudicato di grande rilevanza sia per la storia della lingua volgare del Quattrocento, sia come strumento di diffusione delle idee del gruppo più vicino all'Alberti, in quanto appare una valida prosecuzione della polemica Protesta dello stesso Alberti.
Il contenuto del Capitolo fu approvato e sostenuto anche da Leonardo Dati, al quale il D. lo aveva inviato già nel 1441, accompagnandolo con una lettera in latino di ammirazione per la Scena composta dal destinatario.
Del Capitolo della amiciçia vale rilevare non tanto l'originalità ideologica, quanto, in primo luogo, alcune tesi non trascurabili, quale, ad esempio, quella secondo cui anteriormente alla dominazione romana non solo la Toscana, ma tutte le altre province italiane avrebbero avuto una lingua propria: "le quali lingue tutte furono anichillate et perirono aveniente la lingua latina". Ancora maggiormente degno di rilievo è il fatto che il D. con questo suo scritto, breve ma incisivo, contribuì a difendere e sottolineare "l'utilità e degnità" della lingua toscana proprio nell'ambito del Certame; "degnità", che egli rivendicava più ancora che ai tre grandi trecentisti (Dante, Petrarca, Boccaccio), agli "odierni poeti" impegnati, appunto, nella gara poetica del momento. Grazie anche al D., quindi, la "quaestio" linguistica, iniziatasi nel 1435 nell'anticamera di Eugenio IV, perdeva la primitiva impostazione meramente speculativa per concretizzarsi nella disputa pubblica del Certame.
Del D. è rimasto anche un gruppo di lettere. Di esse, alcune sono conservate nei due già citati manoscritti fiorentini Riccardiano 1166e Magliabechiano XXI,170; altre cinque si trovano nell'Arch. di Stato di Firenze, Carte strozziane, s.3, 112 e 120.Tutte in latino, ad esclusione di una diretta a Pazzino di Palla Strozzi, sono indirizzate agli amici del D. che già abbiamo ricordato. In esse - e soprattutto in quelle rivolte al cugino Matteo Strozzi, a Leonardo Dati, ad Andrea Alamanni - il D. si intrattiene su questioni connesse con i suoi studi o con l'amicizia che lo legava ai suoi corrispondenti. Da esse deriva un'ulteriore testimonianza della comunione di idee e di propositi del circolo letterario dei giovani umanisti fiorentini attivo intorno al 1430 e negli anni immediatamente successivi, prima che le proscrizioni attuate nel 1434 col ritorno a Firenze di Cosimo de' Medici lo costringessero al silenzio e "provocassero la dispersione di alcuni dei suoi componenti; soprattutto gli Strozzi furono obbligati all'esilio, mentre altri, come il Guicciardini, il Palmieri, il Ceffi, il Quarratesi, l'Alamanni e lo stesso D. si adeguarono al nuovo regime.
Dedicandosi completamente agli studi il D. non si impegnò nella vita pubblica, anche se fu "squittinato", e quindi ritenuto abile a ricoprire cariche politiche, già nel 1411(cioè a un anno di età, secondo una procedura in vigore a Firenze), e poi ancora nel 1433 insieme con il padre e con i fratelli. Neppure si sposò - anche se da testimonianze dirette dello stesso D. sappiamo che amò una certa Filippa - "per potere meglio vacare alle lettere", come dice Vespasiano da Bisticci, che a lui dedicò un breve ma affettuoso profilo biografico nelle sue Vite. E proprio da Vespasiano da Bisticci - che afferma di aver visto "dua vocabulisti greci con la esposizione latina", cioè l'Enchyridion -, siamo informati che il D. morì molto giovane, come il fratello Filippo (questi morì il 2luglio 1449, nello stesso anno appunto in cui scomparve anche il loro padre Francesco). Tuttavia della morte del D. ci sono ignoti l'anno e le circostanze. È certo, comunque, che nel settembre del 1450 egli era ancora vivo, perché il 30 di quel mese scrisse all'amico Tommaso Ceffi una lettera in cui gli comunicava di aver deciso di ritirarsi nel monastero dei Servi per continuarvi fervidamente i suoi studi. Pare sia morto nel corso dell'anno successivo.
Fonti e Bibl.: Notizie di carattere biogr. sul D., sul padre e altri membri della famiglia, si trovano in Arch. di Stato di Firenze, Tratte 39, c. 109r; Tratte 78, cc. 31r, 229v; Tratte 79, cc. 21, 68r; Tratte 80, cc. 35r, 61r, 109r; Catasto 77, cc. 161v-166v; Manoscritti 266, c. 42r; Manoscritti 351, cc. 231r, 235r; Manoscritti 356, c. 636r; Manoscritti 360, cc. 507r-508v, 550r; Manoscritti 624-625, passim; Priorista Mariani IV,c. 931r; Firenze, Bibl. naz., Manoscritti Passerini 189. I manoscritti letterari contenenti opere e lettere del D. sono i già ricordati: Firenze, Bibl. Riccardiana, 1166 e Bibl. naz., Magl. XXI,170, cui vanno aggiunte, per altre lettere: Arch. di Stato di Firenze, Carte strozziane,s. 3, 112, cc. 17r, 25r, 29r, 80r, e 120, c. 266r: alcune di queste lettere sono state pubblicate negli studi, sotto indicati, del Della Torre, del Bee e del Gorni (che pubblica anche il Capitolo della amiciçia).Come si è detto, Vespasiano da Bisticci dedicò al D. un profilo che si può leggere in tutte le edizioni delle sue Vite (cfr., ad esempio, quella più recente, a cura di A. Greco, II, Firenze 1976, p. 371); L. Dati, Epistolae XXXIII, a cura di L. Melius, Florentiae 1743, pp. XIX, XXII-XXVIII (dove sono editi passi di alcune lettere del D.); C. Errera, Le "Commentationes florentinae de exilio" di Francesco Filelfo, in Arch. stor. ital., s. 5, V (1890), pp. 193-227; F. Flamini, Leonardo di Piero Dati poeta latino del secolo XV, in Giorn. stor. della letter. ital., XVI(1890), pp. 1-107 passim; Id., La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, ad Ind.; G. Zippel, Il Filelfo a Firenze (1429-1434), Roma 1899, poi in Storia e cultura del Rinascimento italiano, Padova 1979, pp. 215-253; S. Morpurgo, Imanoscritti della Bibl. Riccardiana di Firenze,I, Roma 1900, pp. 202-216; A. Della Torre, Storia dell'Accad. Platonica...,Firenze 1902, pp. 293, 295-300, 306-320, 355; G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, Firenze 1911, pp. 216, 231; E. Garin, La giovinezza di Donato Acciaiuoli (1429-1456),in Rinascimento, I (1950), pp. 46 ss.; L. Martines, The Social World of the Florentine Humanists (1390-1460), Princeton 1963, pp. 341 s.; G. Gorni, Storia del Certame coronario, in Rinascimento, n. s., XII (1972), pp. 166-174; Ch. Bec, Cultura e società a Firenze nell'età della Rinascenza,Roma 1981, pp. 133-144; M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984, passim;M. E. Cosenza, Biographical and bibliogr. Dictionary of the Italian Humanists, III,Boston 1962, pp. 2027 s.; P.O. Kristeller, Iter Italicum, ad Indices.