DEL BUONO, Niccolò
Figlio di Bartolo, fiorentino, abitante nel popolo di S. Iacopo, quartiere di S. Spirito, ricorre nelle cronache cittadine della seconda metà del Trecento per aver partecipato nel 1360 ad una cospirazione fallita, per la quale fu condannato a morte, insieme con un Domenico di Donato Bandini, lo stesso anno. A tutt'oggi questo rimane uno dei pochi elementi che della sua vita è dato conoscere.
Il suo nome compare nell'elenco dei fattori della compagnia Peruzzi al cui servizio egli risulta essere stato dal 12 marzo 1336 fino al 15 sett. 1342, quando si licenziò. Appunto come fattore di tale compagnia è infatti attestato a Venezia nel 1338, e a Napoli nel 1338, nel 1339 e nel 1342. Non si conoscono le sue mansioni specifiche né il suo salario. Per il periodo immediatamente successivo, intorno alla metà del secolo, il D. è annoverato tra i soci della compagnia Uzzano dedita ad attività bancarie, e al commercio di lana, coloranti, pannilani. Nei registri dell'estimo del 1351-52 e in quelli della prestanza del 1354 relativi al quartiere di S. Spirito, nella circoscrizione del Nicchio, egli figura aver corrisposto rispettivamente libre 6, soldi 15 e libre 10, soldi 2, danari 6, mentre nella prestanza del 1359 fu Sandro di Zanobi dello Scelto a pagare per lui fiorini 7. Partecipò sicuramente alla vita politica cittadina: il 20 apr. 1358 fu "ammonito" come ghibellino dai capitani di Parte guelfa e, in forza di una legge del 1357, fu privato dei diritti politici.
A causa degli intenzionali silenzi e delle meditate espressioni, che ricorrono nelle fonti coeve, la congiura cui partecipò il D. appare ancora alla critica storica come un episodio enigmatico e in certa misura oscuro nelle sue finalità e nelle sue implicazioni sia con le forze attive nel turbolento mondo politico della Firenze della seconda metà del Trecento, sia con la realtà italiana di quel periodo. Tra gli osservatori contemporanei ci fu chi si limitò, come fece Marchionne di Coppo Stefani, a vedervi una ennesima recrudescenza delle lotte tra le fazioni cittadine, identificate stavolta in quelle dei Ricci e degli Albizzi. Nell'ambito di tale interpretazione il D. ed il Bandini figurano come personalità di medio o piccolo calibro, e vengono presentati come una sorta di capro espiatorio nel conflitto d'interessi tra cittadini grandi. Matteo Villani, forse con maggiore acume politico, individuò alle origini della congiura il diffuso sentimento di ostilità contro la linea autoritaria impressa al governo fiorentino dalla Parte guelfa. Secondo il cronista, nella cospirazione erano coinvolte importanti famiglie magnatizie: Rossi, Pazzi, Frescobaldi, Adimari, Donati, Gherardini; l'organizzatore principale sarebbe stato Bartolomeo de' Medici, mentre l'adesione del D. e di Domenico Bandini sarebbe stata motivata dal fatto che erano stati, come scrive Marchionne di Coppo Stefani, "levati dagli ufici e onori del Comune come sospetti alla Parte" nel 1358. La versione del Villani si attiene fedelmente a quanto risulta dagli atti del processo, avvenuto nella corte del podestà, il cavaliere Lodovico da Narni. Questi poté infatti ricostruire a grandi linee i piani dei congiurati sulla base delle confessioni estorte allo stesso D. e a Domenico Bandini "personaliter constituti". La versione ufficiale sul complotto venne in genere accolta anche dagli autori successivi, sia pure con lievi modificazioni e con sfumature diverse. Ad esempio, l'Ammirato tende a minimizzare le responsabilità del Medici, accentuando invece il ruolo e l'importanza del D. e di Domenico Bandini.
In realtà la congiura dovette essere uno dei riflessi locali dei grandi avvenimenti che andavano allora maturando nella penisola: è il momento in cui il card. Egidio de Albornoz riduce a soggezione i signori ribelli in Italia centrale alla Sede apostolica e riafferma l'autorità di quest'ultima su quasi tutte le terre di dominio pontificio, ponendosi come centro della politica italiana, sin allora dominata dall'espansionismo visconteo. D'altra parte, tanto il rilievo delle personalità implicate nel complotto e l'importanza delle famiglie che l'avevano appoggiato, quanto l'ampiezza e la profondità delle connivenze che esso aveva dovuto trovare tra le diverse forze politiche, comprese quelle al potere in Firenze, sono provate dal deliberato rifiuto della Signoria - una volta scoperta la congiura - di approfondire l'inchiesta per colpire i veri responsabili e svelarne le intenzioni ultime. "Per lo meglio, si pose piede alla cosa: perché si vide per chi teneva lo reggimento essere meglio fare così, che seguire di più", annota Marchionne di Coppo Stefani a proposito della chiusura delle indagini voluta dall'amministrazione di Firenze dopo il processo e le condanne che seguirono l'arresto del D. e di Domenico Bandini. In precedenza aveva amaramente osservato: "Ma di queste cose addiviene, che sempre va lo male per li meno possenti: che li grossi, pesci e bestie, rompono le reti".
Il piano dei congiurati prevedeva due momenti per l'azione: per prima cosa l'occupazione con uno stratagemma del palazzo della Signoria durante le cerimonie d'insediamento dei priori, e poi la conquista del potere. Un frate, già guardiano della camera dell'armi, doveva penetrare nel palazzo e, ottenute le chiavi, aprire le porte ai cospiratori. Nei tumulti che ne sarebbero sorti, dovevano intervenire in appoggio dei ribelli forze provenienti da fuori città.
I capi del complotto - Bartolomeo di Alamanno de' Medici, il D., il Bandini, Uberto di Ubaldino Infangati, Pino di Giovanni Rossi, Niccolò di Guido Frescobaldi e fra' Cristoforo di Nuccio -, per il tramite del milanese Bernarduolo Rozzo, "cameriere" di Giovanni da Oleggio allora signore di Bologna, offersero in un primo tempo a quest'ultimo la signoria di Firenze in cambio dell'appoggio militare loro necessario per rovesciare il governo legittimo e conquistare il potere. Si rivolsero quindi a Bernabò Visconti, signore di Milano, quando Giovanni da Oleggio ebbe convenuto con l'Albornoz la cessione di Bologna alla Chiesa, venendone compensato col titolo di marchese di Fermo e col governo della Marca (Cesena, 1° marzo 1360), e poi quando la città emiliana passò sotto il dominio pontificio (15 marzo 1360). Avviarono tuttavia trattative anche con il cardinal legato, il quale però, pur senza fare nomi, avvisò il governo fiorentino di quanto si stava preparando in città. A questo punto, anche Bernarduolo Rozzo si sarebbe deciso a svelare il complotto, ed iniziò segreti maneggi con la Signoria nella speranza di un degno compenso. Fu prevenuto. "Andrea di messer Alamanno de' Medici", scrive Marchionne di Coppo Stefani, "sentendo che uno forestiere per 20.000 fiorini lo rivelava, fu savio: andonne in Palagio e, salvo sé, rivelò lo trattato e ingannò li compagni che furono presi, ché ben lo potea loro fare a sapere. E come fu risaputo lo trattato e così dato ordine a pigliare".
Il D. fu arrestato insieme con il Bandini. Processato dinnanzi al tribunale del podestà, fu condannato a morte per decapitazione. La sentenza fu eseguita il 30 dicembre di quello stesso anno 1360, fuori delle mura di Firenze, in prossimità dell'Arno.
Gli altri maggiori capi della congiura - un Frescobaldi, un Lischi, un Medici, due Adimari, un Brunelleschi, un Pazzi - tutti contumaci (erano stati tempestivamente avvisati di porsi in salvo dalle stesse autorità), furono condannati al bando ed i loro beni furono confiscati.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Atti del podestà, 1525, cc. 57, 58; Ibid., Estimo, 6 (1351-52), c. 26;Ibid., Prestanze, n. 2 (1354), c. 47v, n. 5 (1359), c. 14;M. Villani, Cronica, X, 24 e 25, Firenze 1826, pp. 28-37; Diario d'anon. fiorentino, a cura di A. Gherardi, in Cronache dei sec. XIII e XIV, Firenze 1876, p. 298; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, IX, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXX, a cura di N. Rodolico, rubriche 678 e 685, pp. 253, 258 s.; S. Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze 1647, I, 2, pp. 602 s.; G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, I, Firenze 1875, p. 276; A. Sapori, Il personale delle compagnie mercantili nel Medioevo, in Studi di storia economica, II, Firenze 1955, p. 727; V. J. Rutenburg, La compagnia di Uzzano (su documenti dell'Archivio di Leningrado), in Studi in onore di A. Sapori, I, Milano 1957, p. 698; G.Brucker, Florentine politics and society (1343-1378), Princeton 1968, pp. 185 ss.