BECCARI, Niccolò
Uomo d'armi e di corte, colto, amante delle arti e della poesia, amico di poeti e poeta egli stesso, il B. nacque a Ferrara nella prima metà del Trecento, probabilmente intorno al 1330; suo padre, ser Tura, un macellaio, lo destinò agli studi di diritto che il B. seguì all'università di Bologna, senza grande interesse e profitto, come egli stesso ebbe a confessare, ma che gli valsero tuttavia per formarsi un'idea del diritto e dei suoi presupposti teoretici. Senza dubbio è in gran parte dovuta alle lezioni ascoltate a Bologna la concezione fortemente anticlericale dei rapporti tra Impero e Chiesa.
Il B. cominciò la sua avventurosa vita di cortigiano - per i dieci anni successivi all'anno 1348 le sue vicende ci sono ignote - agli stipendi di Malatesta Unghero, al seguito del quale nel 1348 visitò la Francia, le Fiandre, l'Inghilterra. E in Inghilterra accompagnò il suo signore nella discesa al "Purgatorio di San Patrizio", una grotta intorno alla quale correvano in Europa cupe leggende e nella quale, come attesta una lettera patente rilasciatagli dal re Edoardo III, rimase per un giorno ed una notte interi (24 ottobre). Non sappiamo quanto il B. sia rimasto al servizio di Malatesta Unghero; sembra, però, che se ne sia staccato presto e che abbia soggiornato per qualche tempo a Ferrara, sotto la protezione degli Estensi, sino a quando, nel 1368, non avrebbe conosciuto l'imperatore Carlo IV di Boemia, il quale lo avrebbe condotto a Praga, a far parte di quella vivace raccolta di ingegni che aveva riunito alla sua corte. Ciò che è sicuro, comunque, è che il B. intorno al 1370 era a Padova, presso la corte di Francesco il Vecchio da Carrara incaricato dell'educazione di suo figlio, Francesco Novello; la notizia, dataci dall'Anonimo Braidense (cfr. E. Levi, Francesco di Vannozzo…, cit., p. 81), è confermata da una gustosissima lettera che il B. inviò, il 3 ag. 1371, al signore di Mantova, Ludovico Gonzaga, dotto umanista e accanito ricercatore di codici antichi.
Ludovico Gonzaga, che aveva conosciuto il B. alcuni anni prima, probabilmente in occasione del passaggio per Mantova di Carlo IV di Boemia, aveva stretto col ferrarese un'affettuosa amicizia di cui il B. menò non piccolo vanto, "non minimam gloriam", come egli stesso ebbe a scrivere. Il Gonzaga si era rivolto al B. perché gli ricercasse a Padova e gli facesse pervenire dei codici contenenti le opere di Giulio Cesare; il ferrarese, che nulla era riuscito a trovare ad ontà dei suoi sforzi, scriveva riferendo l'esito negativo delle sue indagini ed aggiungeva, a proposito delle opere di Giulio Cesare, che, "si qua supersint ad etatem nostram in orbe terrarum descripta dictata", sicuramente ne avrebbe potuto trovare copia presso Francesco Petrarca, allora ad Arquà, definito dal B. "sacratissimum scrinium antiquitatis". È, questo il primo accenno, nelle opere del B., all'amicizia ed alla familiare consuetudine che lo legò in quegli anni al grande poeta aretino, da lui assiduamente frequentato per alleviargli nelle dotte conversazioni le giornate tormentate dalla malattia; le opinioni politiche e letterarie del Petrarca influenzarono profondamente il suo pensiero.
Scoppiata la guerra tra Padova e Venezia, il B. fu costretto, nel 1372, a sospendere le sue normali occupazioni, le visite al Petrarca, la sua attività di pedagogo di Francesco Novello: come tutti gli altri cortigiani - poeti e musicisti compresi - si arruolò nell'esercito carrarese e fu nominato da Francesco il Vecchio "mariscalco del campo". Battuti i Padovani alla Bastia del Buon Conforto (1º luglio 1373), cadde prigioniero e venne condotto a Venezia; dopo pochi giomi, tuttavia, venne rilasciato in libertà, avendo giurato "di non venire contra il Stato della Signoria fin a mesi tre prossimi", come testimoniano i Gatari nella Cronaca Carrarese (in Rer. Ital. Script., 2 ed., XVII, 1, p. 116). Liberato l'8 luglio, il B., insieme con altri duecento ex prigionieri padovani, pose il campo a Nogara, non osando rientrare in Padova, e attese inoperoso con i suoi compagni che scadesse il termine impostogli dal giuramento.
Le sorti dei Carraresi sembravano compromesse definitivamente: tradito dal fratello Marsilio, minacciato dalle trame dei suoi stessi familiari, disfatto e sbandato il suo esercito, Francesco il Vecchio, dubitando della fedeltà dei suoi condottieri, scrisse al fido B. perché indagasse "per sagace modo" sulle mosse e sulle intenzioni di Marco Inglese e degli altri generali, i quali, a quanto pareva, avevano intavolato trattative col governo di Venezia: s'informasse dunque se "quello che elli fasea il fasea per far i facti de quilli da Venesia, et non ça per far contra ad elli", giacché "ello (il signore di Padova, cioè) no se savea ben intender con elli". Come il B. abbia assolto a questo delicato incarico, non sappiamo.
Terminata la guerra, la smania di novità spinse ancora una volta il B. fuori d'Italia: si recò a Praga, presso la corte imperiale, in qualità di "armiger familiaris domesticus commensalis" di Carlo IV, accettandone finalmente gli inviti reiterati. La data di questo trasferimento è incerta; e, poiché nel 1375 è attestata la sua presenza a Ferrara, non è improbabile che egli abbia attraversato le Alpi, tra il 1374 e il 1378, come messaggero dell'imperatore. A Praga ebbe un violentissimo scambio di vedute con un altro ferrarese pure ospite di Carlo IV, Niccolò da Polafrisana, per sfuggire alla maldicenza del quale fu costretto a cambiare residenza: dal 1377 lo troviamo infatti nel Magdeburgo, a Tangermünde sulle rive dell'Elba, dove l'imperatore aveva radunato una piccola corte. Fu nel castello di Tangermünde che il B. compose quelle curiose lettere, conosciute coll'enigmatico titolo di Regulae singulares: quattro, di cui due lunghissime, epistole latine dirette una a Nicola von Riesemburg, cancelliere dell'Impero, una a Gasparo Broaspini, il noto umanista veronese, amico del Petrarca, le altre due a Carlo IV di Boemia.
La lettera a Nicola von Riesemburg, che è del 1377, accompagnava un tractatulus composto dal B. e dedicato all'imperatore allo scopo di fornire a quest'ultimo gli argomenti necessari per affrontare una polemica con la curia romana o per difendersi nel caso di un'eventuale controversia; nella lettera egli invitava il cancelliere ad esprimere un suo giudizio sul tractatulus stesso e ad elencargli le sue eventuali obiezioni sullo stile - del quale il B. non si sentiva molto sicuro - prima di presentare l'operetta a Carlo IV. La lettera al Broaspini, col quale sappiamo che il B. mantenne una regolare corrispondenza, contiene notizie relative al cattivo stato di salute del ferrarese, e in particolare a una sua preoccupante malattia agli occhi. Sia in questa lettera sia in quella al von Riesemburg il B. accenna, per via di allusioni, ad invidiosi e a nemici che gli rendono difficile la vita a corte. L'accenno potrebbe riferirsi ad uomini come Niccolò da Polafrisana, che lo accusò di tramare per la fondazione di un regno lombardo; calunnia assurda che dimostra, tuttavia, come le idee politiche del B. potessero suscitare facilmente malintesi e quanto fossero estranee al pensiero del tempo.
Delle due lettere indirizzate a Carlo IV, la prima contiene una risposta al quesito posto dall'imperatore a tutti i dotti dell'Europa se fosse da ritenersi autentica la moneta di Cesare Augusto che il Petrarca aveva donato al sovrano durante il loro incontro a Mantova. La seconda è invece un lungo e importantissimo trattato sulla Chiesa di Roma, in difesa dell'autorità laica contro quella ecclesiastica, a sostegno delle teorie ghibelline, e si chiude con questa firma: "Per Nicolaum de Becariis Italicum precursorem imperialis Olimpi aulicum et armigerum, licet indignum, in marchionatu Brandeburgensi, in oppido sive castro Tangermundi ad Albeam". In essa il B. fa un tentativo fervido e prolisso per convincere l'imperatore della necessità di una inflessibile politica di forza nei confronti della sede apostolica e dell'urgenza di un rinnovamento spirituale e politico dell'impero, rinnovamento che avrebbe finalmente riparato a tutti gli errori compiuti dai suoi predecessori, e soprattutto da Costantino, che il B. mostra di considerare - come già Dante - la causa prima del potere temporale dei papi. Le teorie sviluppate in questa lettera, impregnate di motivi profetici e astrologici, di riferimenti alla predicazione di Cirillo e di Gioacchino da Fiore - di richiami all'Oraculum angelicum e al commento pseudogioachimita -, a testi sibillini, se sono convalidate anche dall'autorità del Petrarca, mostrano però assai più chiare e sorprendenti reminiscenze degli ideali di Cola di Rienzo e gli influssi della sua opera politica. L'autore stesso accenna, nel corso della trattazione, all'anno in cui compose l'epistola, il 1377, lo stesso di quella inviata al von Riesemburg; le altre due sono di poco posteriori.
Le lettere del B. furono trascritte nel novembre 1382 da un Carlo da Bologna, "capelanum tunc temporis in monasterio sancte Iustine de Padue", e si chiudono con un gustosissimo explicit, in cui l'amanuense afferma, tra l'altro, che il B. aveva composto "alia subtiliora et prolixiora... opuscla, que non sunt scripta in presenti quaterno" Non sappiamo quali siano tali "subtiliora et prolixiora opuscla"; alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che il copista si sia lasciato trarre in inganno dal passo della lettera al von Riesemburg, in cui accenna al tractatulus indirizzato a Carlo IV, sostenendo che il tractatulus stesso sia da identificarsi, con la lettera diretta all'imperatore il cui testo compare tra le Regulae singulares. È d'altra parte certo che il B. dovette scrivere assai più delle cinque lettere e delle due poesie che di lui ci sono note; anche se egli stesso abbia affermato che la sua vera vocazione fu quella del soldato: "stipendiarius sum equidem ab adulescente, ex re militari continuo victum quiritans, nec aliter morari propositum est".
Quale ufficio il B. abbia ricoperto alla corte di Tangermünde è detto in una lettera di Carlo IV di Boemia, in cui il sovrano chiama il poeta ferrarese suo intimo familiare e commensale ed ha per lui parole di alta stima e di profondo affetto; sembra probabile, anche, che al B. fosse stata affidata l'educazione del figlio dello stesso imperatore, Sigismondo.
Il Levi, che ha avanzato tale ipotesi, adduce a prova una lettera in esametri latini inviata dal Broaspini al B., lettera in cui l'umanista veronese, ai saluti per Niccolò e per Carlo IV, unisce quelli per un giovinetto, camillus, che sembra non poter esser altri che Sigismondo; all'altro figlio di Carlo IV, Venceslao - che era stato incoronato rex Romanorum ad Aquisgrana fin dal 1376 non sembra infatti potersi adattare il termine di giovinetto.
La vita dio corte a Tangermünde, nonostante l'affetto, e la stima imperiale, non dovette essere troppo facile e piacevole per il B., il quale si trovava ad avere accanto persone in massima parte insensibili a quei valori culturali e artistici cui egli, invece, annetteva così grande importanza; si aggiungevano a questo disagio morale la malinconia e la nostalgia per l'Italia e il suo sole, ma, soprattutto, una terribile malattia d'occhi che, provocata dalle veglie notturne tra i codici e i libri dei poeti volgari e classici ("maxima importunaque vigilia studiorum die noctuque", scriverà il B. alludendo alle sue predilette letture), aveva suscitato le maligne dicerie dei cortigiani, i quali andavano mormorando che l'offuscamento della vista del poeta ferrarese era dovuto alla sua vita sregolata, ai suoi eccessi nel bere e nell'amore. Così il B. si risolse di tornare in Italia, e nel 1379 era di nuovo a Padova, alla corte di Francesco il Vecchio da Carrara. A Padova trovò anche Niccolò da Polafrisana, il quale allora era amministratore di chiese e di conventi: era il momento per prendersi la rivincita sulla persona che gli aveva avvelenato il soggiorno a Praga e a Tangermünde.
Il B. "espose lamentança" a Francesco il Vecchio, perché desse inizio a un processo contro il calunniatore, affermando pubblicamente di esser pronto a sostenere la sua accusa e dichiarando "come falsamente et malitiosamente et come traditore habia dito e reportado questa fama del dito Nicolò di Becari". Il signore di Padova affidò la "querella" ai due celebri dottori Paganino da Sala e Arsendino da Forlì, i quali senza pompa e senza rumore avrebbero dovuto decidere "breviter et de plano, omni solemnitate omissa, solaque et pura veritate facti inspecta". Il B. presentò ai due giudici una bella lettera attestante i suoi meriti, i suoi servigi resi presso le corti dell'Unghero, di Carlo IV, di Francesco il Vecchio, ed illustrante le sue doti letterarie e guerresche; quanto a Niccolò da Polafrisana, interrogato dai giudici, rinunziò a produrre le testimonianze che provassero le sue argomentazioni, che pure aveva ripetuto anche davanti ai magistrati. Così la vertenza si chiuse con la chiara vittoria del Beccari.
Dopo questo "processo per diffamazione" si perdono le notizie intorno al B. che, probabilmente, abbandonò la vita di corte e si ritirò nella natìa Ferrara, dove morì sicuramente prima del 1382.
Di tutta l'attività del poeta ferrarese ciò che interessa di più, come ben notava il Levi, è la sua amicizia col Petrarca, che in una lettera chiamò "Petrarcham meum", e nel sonetto "Come Lauretta al suon dell'alte rime" definì "padre mio" e "buon padre". Anzi, dagli ultimi versi di questo sonetto appare chiaro che il Petrarca aveva letto ed approvato le rime del B.; nella seconda delle Regulae singulares, la lettera-trattato contro la sede apostolica, il B. cita, tra le altre argomentazioni a sostegno delle sue tesi, la canzone del Petrarca "Spirto gentil", ed introduce il passo da lui preso in considerazione con le parole "ita demum ut verbis utar laureati Petrarce mei, quem semper sequi velim". Anche a proposito della questione posta ai dotti d'Europa da Carlo IV, se la moneta regalatagli dal Petrarca fosse realmente di Cesare Augusto, il B. concludeva, nella terza delle Regulae singulares: "si [ephigies] vera sit, certo michi nullo constat auctore, sed sola opinio quondam gloriosi Petrarce mei confert et fidem facit": con cieca fiducia nell'intuito del "sacratissimum scrinium antiquitatis". Nel seguito di questa interessante epistola il B. ricorda i suoi colloqui, le sue discussioni erudite con l'aretino, ed i discorsi di quest'ultimo pieni di paterna dolcezza e di dottrina. Col Levi possiamo concludere che "noi abbiamo dunque qui un altro notevole documento di quella fervida vita letteraria che si agitava intorno al Petrarca nella brillante corte padovana".
Fonti e Bibl.: Scopritore del B. fu E. Levi, che cercò di delineare, nell'opera Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde nella seconda metà del XIV secolo, Firenze 1908, pp. 80-87, la sua figura di poeta; quindi, in un approfondito e particolareggiato studio, Antonio e Niccolò da Ferrara, poeti e uomini di corte del Trecento, comparso negli Atti e Mem. d. Deputaz. ferrarese di storia patria, XIX, 2 (1909), pp. 41-405, fece una prima ricostruzione della vita e delle opere del B., citando le scarse fonti in nostro possesso e pubblicando ampi brani delle Regulae singulares traendoli dal codice veneziano Marc. lat. XIV, 127, cc. 103-124. La lettera del B. diretta a Ludovico Gonzaga, illustrata da F. Novati, I codici francesi dei Gonzaga, in Romania, XIX (1890), pp. 169 ss., fu poi dallo stesso autore stampata, in Attraverso il Medio Evo, Bari 1905, pp. 270 ss. Cfr. anche Epistolario di Coluccio Salutati, II, a cura di Fr. Novati, in Fonti per la Storia d'Italia pubbl. dal R. Istit. storico it., n. 16, Roma 1893, p. 300, e P. De Nolhac, Pétrarque et l'humanisme, I, 2 ed., Paris 1907, p. 82; per la moneta, data in omaggio dal Petrarca a Carlo IV nell'abboccamento di Mantova, e che fu causa della disputa sulla autenticità e, indirettamente, della prima delle due lettere inviate dal B. all'imperatore, vedi quanto dice in proposito il poeta aretino in Ad fam., XIX, 3, in F. Petrarca, Le familiari, a cura di V. Rossi, III, Firenze 1937, p. 315.
Un'edizione critica delle Regulae singulares, progettata da M. Voigt (il quale conosceva il codice zurighese Car. C100, I, ff. 75r-80r, contenente le due lettere del B. a Carlo IV in una redazione di poco posteriore, ma in molti punti più attendibile di quella del cod. Marc. lat. XIV, 127) come parte dell'opera di K. Burdach, Vom Mittelalter zur Reformation (cfr. M. Voigt, Beiträge zur Geschichte der Visionenliteratur im Mittelalter, in Palaestra, CXLVI [1924], p. 172, ed anche Berliner Sitzungsberichte, 1910, p. 92), non poté esser realizzata per la morte prematura dello studioso tedesco.
Ad H. Helbling, che, nello studio Saeculum humanum, Napoli 1958, pp. 153 ss., aveva dato l'edizione critica della lettera del B. a Carlo IV dell'anno 1377, è dovuta l'edizione critica dell'intero Corpus delle lettere del B. (H. Helbling, Le lettere di Nicolaus de Beccariis [Niccolò da Ferrara], in Bullett. dell'Ist. storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, n. 76 [1964], pp. 24-289); in questo studio l'autore propende per l'identificazione di tale lettera col tractatulus ricordato da Carlo da Bologna. Un attento ed approfondito esame della seconda lettera inviata all'imperatore edita dallo Helbling nel 1958 è stato dato da R. Folz, Der Brief des italien. Humanisten N. dei B. an Karl IV., in Histor. Jarbuch, LXXXII (1963), pp. 148-162.
Importante per la comprensione del mondo spirituale del B. la lettera ritmica del Broaspini, edita da C. Garibotto, Un amico del Petrarca, Gasparo Squaro dei Broaspini, in Atti e Mem. d. Accad. di Verona, V, 7 (1931), pp. 184 s., e P. Piur, Petrarcas Briefwechsel mit deutschen Zeitgenossen, in Vom Mittelalter zur Reformation, VII, Berlin 1933, pp. LVII-189. Vedi anche: G. Pirchan, Italien und Karl IV. in der Zeit seiner zweiten Romfahrt, Prag 1930, I, pp. 71, 141, 447; II, pp. 36, 60 s., 105.