BALBANI, Niccolò (Nicolao)
Nacque a Lucca il 27 sett. 1522, da Agostino e Lucrezia Sbarra, sua seconda moglie. Il padre aveva aderito in data imprecisata alle dottrine dei riformatori d'Oltralpe (che anzi, secondo una voce allora corrente a Lucca, egli avrebbe addirittura introdotto per primo nella città) e la sua influenza sulla formazione religiosa dei figli - in particolare di Turco e di Niccolò - poté, nonostante la sua morte precoce, essere notevole. Rimasto orfano di padre a dodici anni, Niccolò fu affidato, unitamente a nove tra fratelli e sorelle, alla tutela dello zio Francesco Balbani, che investì il patrimonio dei pupilli nel commercio e nella manifattura dei drappi serici. Mentre i fratelli venivano avviati alla mercatura, Niccolò si dedicò agli studi: dapprima a Lucca, dove fu per un anno tra gli allievi di Francesco Robortello (più tardi accusatore al processo per eresia di Celio Secondo Curione). Nel 1540 iniziò lo studio del diritto, in un primo tempo a Bologna, poi a Padova (dove il 1° ag. 1547 fu eletto console dei giuristi della nazione toscana), ínfine a Ferrara. Qui ottenne, il 3 ag. 1547, la laurea in utroque iure. Terminati gli studi, nel marzo 1548 si recò in compagnia di un cugino ad Anversa (sede di una delle succursali dell'azienda familiare) dove risiedeva il fratello Turco, anch'egli più tardi esule per motivi religiosi; visitò le Fiandre, e sulla via del ritorno fece tappa a Lione, incontrandovi Francesco di Iacopo Michaeli (che nel 1549 sposò una sorella di Niccolò, Zabetta, e più tardi fu esule a Ginevra).
È probabile che in questo periodo il B. si distaccasse dalle dottrine cattoliche. Tornato a Lucca, sposò nel novembre 1548 Lucrezía di Niccolò Montecatini. In questo periodo cominciò a prendere parte alla vita pubblica della città. Nel dicembre fu eletto rettore delle scuole di Lucca per il primo semestre del 1549; nel 1553 fece parte del Consiglio generale. Nel 1554-55 soggiornò all'estero, e si trovava per l'appunto a Lione quando, nell'estate 1555, gli giunse la notizia della morte della moglie, avvenuta nel luglio. Tornato a Lucca il 20 ottobre per prender cura delle figlie, fu nuovamente eletto rettore delle scuole (8 nov. 1555) per il primo semestre del 1556. Ma ormai era maturata in lui la decisione del distacco da Lucca; forse la morte di una figlia l'affrettò. In ogni caso nel maggio 1556 si recò a Lione con la figlia Filippa (la terza figlia Angiola rimase a Lucca, ove andò sposa a Niccolò de' Nobili), prendendo subito parte attiva, come catechista e predicatore, alla vita della comunità italiana di quella città. Da Lucca gli fu ingiunto di tornare per discolparsi dell'accusa di eresia, pena il bando e la confisca dei beni; ma, nonostante il rifiuto del B. di comparire, la condanna (dopo una prima confisca eseguita nel maggio 1562: cfr. Arch. di Stato di Lucca, Offizio sopra la Religione, n. 1, c. 3v) fu emessa soltanto dieci anni dopo, il 2 luglio 1566.
Dopo pochi mesi il B. abbandonò Lione per Ginevra, dove venne iscritto tra gli abitanti e il 22 ag. 1560 tra i borghesi della città. Nel 1557 sposò in seconde nozze Vittoria, figlia del conte Giulio da Thiene, vicentino, esule anche egli religionis causa. Da questo matrimonio nacquero cinque figlie, tre delle quali morte in tenera età. Raggiunta una certa agiatezza materiale, il B. poté dedicarsi con tranquillità agli studi teologici. Dopo aver prestato per un certo tempo servizio gratuitamente come catechista e predicatore laico, venne consacrato ministro della chiesa italiana di Ginevra (25 maggio 1561), carica che conservò fino alla morte.
Nella sua qualità di pastore il B. reagì, tra l'altro, al decreto emanato dalla Repubblica di Lucca il 9 genn. 1562, in cui si vietava ai profughi (colpiti per di più da una taglia individuale di 300 scudi d'oro) di stringere relazioni commerciali in Italia, Spagna, Francia, Fiandra e Brabante. Presentatosi il 27 febbraio dello stesso anno, insieme a Francesco Cattani e ad altri profughi lucchesi, al Consiglio di Ginevra per chiedere ausilio, il B. ottenne l'appoggio formale della città ai lucchesi che soggiornassero sul territorio ginevrino.
Nel 1564 il B. si recò a Lione facendovi attiva opera di proselitismo (forse va riferita a questo periodo - ma la notizia è imprecisa - la presenza a Lione di una congrega italiana riformata con alla testa il B., di cui facevano parte Girolamo Pellizzari da Vicenza e Lelio Castelvetro, nipote di Lodovico). Ciò non mancò di allarmare la Repubblica di Lucca. Il 9 apr. 1564 il magistrato preposto all'Offizio sopra la religione scrisse alla nazione lucchese di Lione lamentando che le prediche del B. "contra il rito della romana Chiesa" danneggiavano la Repubblica e portavano "pregiuditio grandissimo" alla stessa nazione di Lione: e pertanto invitava a provvedere affinché cessasse lo scandalo del B. "il quale di verità ci preme fino all'anima" (Archivio di Stato di Lucca, Offizio sopra la religione, n. 1, cc. non numerate). Il 17 maggio la nazione lucchese di Lione rispose cercando di tranquilizzare i magistrati dell'Offizio sopra la religione: "mediante le remostrationi che si li fecero teniamo per certo che lui non ha predicato publicamente" (Arch. di Stato di Lucca, ibid., n. 5, fasc. a. 1564, cc. non numerate).
Nello stesso periodo svolgeva a Lione una intensa attività di predicazione Antonio Possevino. Il gesuita mantovano e il B. polemizzarono pubblicamente, e proprio contro il Possevino il B. scrisse la sua prima opera, intitolata Trattato primo delle risposte fatte ad un libretto di Messer Antonio Possevino della Messa. Nel quale con le parole di Dio si mostra che il sacrificio della Messa è una inventione degli huomini et una horrenda idolatria, [Ginevra] appresso Oliviero Fordrino, 1564 (un esemplare di questo trattato si trova presso la Biblioteca Casanatense, k. VIII. 26. ccc. Altri esemplari presso il British Museum, la Bibliothèque Mazarine, la Guicciardiniana, ecc.). Il "libretto" con cui il B. polemizza è il Trattato del Santiss. Sacrificio dell'Altare detto Messa..., apparso a Lione nel 1563,e poi più volte ristampato. Se il tipo di argomentazione del B. non si distacca da quello comune alla controversia religiosa di questi anni, va sottolineata in questo trattato la serrata polentica condotta contro quanti persistevano su posizioni di tipo "nicodemitico". Proprio ai "nicodemiti" il B. rivolge il suo scritto, volto a dimostrare che la dottrina della messa contiene soltanto "inventioni d'huomini e corruttioni della santissima Scrittura". Afferma infatti, nell'avvertenza ai lettori, "data in Geneva a di 7 marzo 1564", di non indirizzare la sua fatica a quanti sono già ammaestrati dalla parola di Dio ("percioche mi vergognarei d'inviare un trattato a essi d'una matería che appo loro non ha dubbio alcuno"); né d'altra parte intende rivolgersi a coloro che vivono pervicacemente nell'errore, "percioche non conviene secondo il comandamento di Christo gittare le pretiose margarite davanti a' porci". Egli si propone di parlare a quanti vivono nell'ignoranza della parola divina e "sopra tutto... a coloro più particolarmente, i quali con la loro prudenza si vanno adulando et persuadendo, che Iddio si debba contentare, se essi per non perdere la reputatione, le grandezze, le ricchezze, o per qualche altro rispetto carnale, si vanno accomodando, e dando come in preda al mondo et a un prete, lasciando la verità chiara et aperta di Dio et del suo Evangelio: accio che al meno conoscano che qui non si tratta di trattenersi neutrale per non cadere nella disgratia di questo signore odi quell'altro: ne meno d'esser o Guelfo o Ghibellino: ma se si ha da servire a Dio o al Diavolo: se si ha da credere e da obedire a gli huomini, o a Giesu Christo: e se si ha da lasciare ogni pensiero di Dio e della salute, e vivere nel mondo senza Dio, come le bestie, stimando come alcuni, sogno e vanita l'immortalità dell'anime e la vita eterna".
Dopo aver asserito, in polemica con il Possevino, che la messa non può essere stata raffigurata in alcuna cerimonia dell'Antico Testamento, e che Cristo non ha istituito il sacrificio della messa, il B. passa a commentare il passo paolino da lui posto come epigrafe all'intero scritto (I Cor. X, 20: "Le cose che sacrificano i Gentili, le sacrificano a' Demoni, e non a Dio. Hor io non voglio che voi siate partecipi de' Demoni"), sempre in funzione antinicodemitica: "Perché doverebbono esser ripieni di tremore e di spavento horribile coloro, i quali per rispetti humani, e per non esser conosciuti per fedeli, o per sodisfar a' loro appetiti carnali, non si curano né fanno alcuna stima di andar, e di ritrovarsi con gli altri alla messa, nella quale il Diavolo è honorato et adorato..." (p. 71).
Questo primo trattato apparve accompagnato da due brevi scritti. Il primo, anonimo, anch'esso in polemica col Possevino (Brevi risposte ad un certo Scritto, che Antonio Possevino mandò a i fedeli, c'habitano ne le Valli di Lucerna, Angrogna... fatte per un Ministro delle dette Valli)è, come dice lo stesso B. nell'avvertenza al suo scritto polemico, opera di Scipione Lentulo, "fedel Ministro nelle valli d'Angrognia" (per questo scritto del Lentulo cfr. P. Gilles, Histoire Ecclésiastique des Eglises Reformées...,Genève 1644, p. 105, e P. Bayle, Dictionnaire historique et critique,t. III, Basle 1741, pp. 77 ss.). L'altro scritto è tradizionalmente attribuito al B.: Due sermoni fatti nel tempo che si celebra la Santa Cena del Signore. Il primo supra 'l decimo capo dell'Epistola a gli Hebrei cominciando dal versetto undecimo infin al vigesimo quarto. Il secondo sopra 'l quarto capo dell'Epistola a gli Efesi cominciando dal versetto undecimo infin al decimo settimo, [Ginevra] appresso Oliviero Fordrino, 1564. Un avviso dello stampatore ai lettori (datato Ginevra, 10 marzo 1564) collega esplicitamente la diffusione dei due sermoni alla pubblicazione del Trattato primo contro il Possevino: questo ha mostrato la falsità e l'ignominia della messa, quelli testimoniano invece come nelle Chiese riformate si celebri la santa Cena, veracemente istituita da Cristo.
Alla pubblicazione di questi scritti seguì una traduzione (tradizionalmente attribuita al B.) del Catechismo di Calvino: Il Catechismo di messer Giovan. Calvino con una brieve dichiaratione et allegatione delle autorità della Santa Scrittura, e con un brieve sommario di quella dottrina che si crede sotto il Papato, [Ginevra] Della stampa di Giovan Battista Pinerolio, 1566 (ne esiste un esemplare presso la Biblioteca Casanatense: segnatura antica, miscell. in 8° tom. 533; segnatura moderna, miscell. 2394). Altri esemplari presso il British Museum, la Bibliothèque de l'Arsenal, ecc.). Il nome del B., assente nel frontespizio, è posto in calce all'epistola introduttiva "A' fedeli della Italia, Salute nel Signore", datata Ginevra, 1° ag. 1566. Di questa traduzione esiste una stampa coeva perfettamente identica, mancante però, verosimilmente per sopravvenuti motivi di prudenza, del nome del B. (un esemplare di questa seconda stampa si trova presso la Biblioteca Vaticana, R. G. Teol. VI. 467). In entrambe le stampe la traduzione è preceduta dall'epistola citata e da una breve silloge di passi paolini e neo-testamentari, parte dei quali trascelti in funzione palesemente antinicodemitica. La traduzione è intercalata, per maggiore chiarezza (come sottolinea il B.), da glosse e citazioni scritturali, seguite da brevi confutazioni di dottrine divergenti da quella riformata, poste sotto il titolo "Falsa dottrina". L'intervento del curatore è dunque cospicuo, ma non è certo che la traduzione vera e propria debba essergli attribuita. Essa infatti corrisponde (se si eccettuano poche varianti formali del tutto insignificanti) a una traduzione anonima del Catechismo di Calvino apparsa precedentemente presso il medesimo stampatore (Il Catechismo, cioè formulario per instruire et ammaestrare i fanciulli ne la vera e pura dottrina Christiana, fatto a modo di Dialogo, dove il Ministro domanda, e il Fanciullo risponde, [Ginevra] De l'estampa di Giovan Battista Pinerolio, 1560; un esemplare è presso la Biblioteca Vaticana, R. G. Teol. VI. 816. int. 3), senza le inserzioni del B. e l'epistola.
Quest'ultima muove dalla constatazione, sufficientemente realistica e disincantata, del fallimento della Riforma in Italia, per esortare i fedeli alla speranza: i disegni di Dio sono imperscrutabili, come dimostra la recente conversione di Anversa e del Brabante alla vera fede. Anche in Italia, un giorno, "scosso il giogo della servitù dell'Antechristo, il sole di giustitia Christo Giesu renderà chiara la sua luce". Ma questo invito generico alla speranza si precisa subito. L'elemento decisivo della vittoria delle Chiese riformate ad Anversa e nel Brabante è stato, in definitiva, l'esistenza di chiese organizzate. Ciò appunto è mancato all'Italia, e ciò spiega la sconfitta del movimento riformatore italiano: "perché non basta che in molti sia tale o quale cognitione della verità di Dio, sì come così fatta è in alquanti, che si trattengono per l'Italia, li quali con la sperienza possono comprendere, che questa cognitione a guisa della semenza che casca in luogo pieno di pietre e di spine s'è soffocata et in brieve sparita, overo che appena habbia cominciato a produrre qualche foglia verde, che al primo caldo delle tentationi s'è incontanente seccata". D'altra parte il B. non nasconde le difficoltà che circondano la predicazione della parola di Dio, e in generale ogni tentativo di organizzazione di comunità riformate in Italia: "io non niego già che gli impedimenti non siano grandi, che le persecutioni non si scuoprano horribili, massimamente quando si tratta di fare congregationi, le quali il nostro mondo giudica e chiama principii di rebellioni". Certo, sarebbe da augurarsi che fossero tolte le cagioni di questa segretezza, "raunandosi i fedeli in luogo aperto e palese a tutti per ascoltare la predicatione della Parola" : ma ciò non è concesso dalla "rabbia" dei nemici di Dio, che opprimono l'Italia, mentre nel resto d'Europa vige quasi senza eccezioni la "libertà delle coscienze". È quindi necessario, come già fecero gli apostoli, e i fedeli della chiesa primitiva, "ritirarsi nelle case private, et di nascosto di notte amministrare la Parola et i Sacramenti", finché giunga il momento atteso in cui sarà possibile professare la propria fede liberamente e al cospetto di tutti.
Nel presente stato di cose, l'unica prospettiva aperta ai fedeli d'Italia è quindi quella di tenere in vita una serie di "congregationi" segrete. Su questo punto il B. si diffonde con una certa minuzia: "raunandosi insieme secondo la conditione e commodità de' luoghi con minor o maggior numero, statuiscano qualche ordine seguitando l'essempio de gli Apostoli, cioè, che alcuno a cui Iddio ha dispensato più doni esponga puramente la Parola di Dio, amministri i Sacramenti secondo l'ordinatione di Giesu Christo, et in nome di tutta la compagnia faccia le publiche orationi a Dio. Altri appresso siano ordinati per vegliare insieme co' Pastori sopra le attioni e sopra i costumi ammonendo e riprendendo ciascheduno secondo che per la Ecclesiastica disciplina si richiede. Et oltre a questi siano costituiti alcuni, li quali habbiano la cura de' poveri per sovvenire loro nelle loro necessità, fedelmente amministrando le limosine et il tesoro del Signore". Ma sembra che il B. non si faccia troppe illusioni sulla possibilità di successo di una simile azione: il fallimento del movimento riformatore in Italia deve averlo ammaestrato. Egli propone quindi, accanto a quella accennata, una diversa prospettiva, evidentemente utopistica, ma che in ogni caso rivela una precisa coscienza del limite politico della Riforma italiana: è un accenno quanto mai discreto, eppure significativo. I fedeli italiani sono costretti alla segretezza, che per i principi è, giustamente, sinonimo di ribellione; ma, egli insinua, una predicazione che si potesse svolgere alla luce del sole non solo non costituirebbe un fatto eversivo, ma addirittura risulterebbe un elemento di coesione sociale e politica. Un appoggio del movimento riformatore da parte dei principi italiani sarebbe quindi, sembra concludere il B., vantaggioso per le due parti. Certo, questo appoggio è impossibile finché quei principi restano sotto la soggezione del Papato. Dice infatti il B.: "Né per questo noi intendiamo di incitare i popoli a rebellarsi contra i loro Signori, né meno di introdurre nel mondo una confusione, percioche se il fine di queste congregationi principalmente è di udire la parola di Dio, non saranno eglino per quella stessa ammaestrati a rendere ogni honore et ogni obedienza al Magistrato? E ciò non sarà egli un mezzo eccellente per ritenere i soggetti nella lealtà e nella fede, che essi deono havere verso i loro Signori? Ma i Principi, dirà alcuno, non si contentano di queste raunanze secrete, delle quali hanno cagione di prendere molta sospettione. Concedano adunque che ciò si faccia in palese, onde tutto 'l mondo conosca che i fedeli niuna altra cosa pretendeno, se non di essere pasciuti della parola della vita per conformare se stessi alla vera giustitia et alla santificatione. Hor questo è anchora impossibile che si ottenga regnando l'Antechristo di Roma la cui potenza e tirannia tiene in soggettione i Principi della terra", incitandoli a far guerra contro Cristo e i suoi fedeli.
Ma a questo punto il B. sembra voler eliminare un sospetto, e cioè che la libertà di coscienza che i riformati chiedono ai principi possa risolversi in un elemento di disordine, dando la possibilità di manifestarsi a dottrine radicali. "Egli è vero" dice il B. "che in alcun luogo se non è permessa la publica predicatione, è almeno conceduto a ciascheduno di vivere in libertà senza temere di alcuna persecutione. Ma ciò veramente non è altro, che un introdurre una horribile confusione nel mondo riempiendolo di Epicurei, di Libertini, in brieve di huomini senza Dio, senza coscienza, e senza religione". Ora, le comunità riformate non presentano rischi di questo tipo: attraverso la predicazione della parola divina e l'amministrazione dei sacramenti, "e per conseguente di una santa disciplina regolata dalla stessa parola di Dio" gli uomini si purgano dei loro vizi e sono mantenuti "nel vero timore di Dio et in una santa unione". Ma il modo di impedire che in seno alle chiese riformate si insinuino elementi radicali, che con le loro dottrine "strane" contribuiscano a gettare il discredito sulle chiese stesse, è per il B. (che in tutto questo discorso sembra condizionato soprattutto dalla sua esperienza ginevrina, e dai contatti, ai quali accenneremo, avuti con eretici italiani) quello di mantenere un'assoluta compattezza dottrinale mediante una precisa confessione di fede che tutti debbono accettare. Scrive infatti il B.: "Hora perché l'isperienza ha dimostrato che non restano gli iniqui di apporre a' fedeli oltre le altre calunnie questa specialmente, che tra loro vi siano diverse openioni e dottrine strane, le quali non si curino di insegnare in palese, è necessario che sia ricevuta da tutti e mandata fuori una somma di quella dottrina, la quale tutti confessino e secondo la quale siano instrutti...". E la migliore tra le molte confessioni date alle stampe è appunto il Catechismo di Calvino, ch'egli propone ai fedeli d'Italia.
Al testo del Catechismo sono intercalate, si è detto, puntuali annotazioni polemiche sotto il titolo "Falsa dottrina", in cui sono esposte e confutate, dottrine contrarie a quella riformata. La polemica è rivolta soprattutto, ma non esclusivamente, contro le dottrine cattoliche; ma è notevole (tenendo sempre presente la destinazione dell'opuscolo ai fedeli italiani) lo spazio dedicato alla discussione di singole tesi anabattistiche, l'accenno agli epicurei (domenica IV), la confutazione di quegli "heretici moderni" (L. Sozzini?) che "hanno messo a campo una generatione di lor cervello, dicendo che il Figliuolo è stato essentiato dal Padre, volendo inferire che Iddio ha generato un altro Dio secondo e minore, e poi passibile: Il che è un distruggere tutta la divinità, la quale non può essere se non una sola simplicissima et impassibile. Hanno etiandio in Giesu Christo confusa la divinità con la humanità, il che contradice alla santa Scrittura..." (domenica III); non manca (domenica XVII) un generico accenno polemico alla dottrina, sostenuta, tra gli altri, dal Renato, del sonno delle anime fino al giorno del Giudizio. Ritorna infine la polemica contro i "nicodemiti", qui particolarmente precisa e circostanziata: il B. scorge nettamente nell'indifferentismo in materia di sacramenti il legame tra queste posizioni e tendenze mistiche di tipo, diremmo, valdesiano: "Se coloro, li quali havendo la cognitione della verità di Dio, si trattengono nel Papato, conoscessero questa necessità [dei sacramenti ai fini della salvezza], non sariano sì duri a lasciare le commodità della carne per godere le gratie et i benefici spirituali che Iddio dispensa nella sua Chiesa mediante il ministerio della Parola e de Sacramenti. Ma essi si persuadeno overo di essere perfetti: il che è un horribile inganno per condurgli alla perditione: overo di potere rimediare alle necessità dell'anima senza i rimedi ordinati da Dio, il che è segno di una arroganza insopportabile: overo disprezzano sì fatti mezzi, non curandosi di ammarcire nelle loro indegnità e corruttioni, il che dimostra una desperata rebellione..." (domenica XLVII; cfr. anche domenica LIIII).
Al B. è comunemente attribuita, oltre al cit. Trattato primo contro il Possevino, la seconda parte del trattato stesso (Del sacrificio dell'altare trattati due tra se contrari, divisi, l'uno, che è d'Antonio Possevino, in proposte: l'altro, che è d'uno scholare fidele, in risposte, s. l. 1565; sitratta di una contraffazione: segue all'intemo il vero titolo, Del trattato secondo contra il Possevino. Un esemplare di questo trattato si trova presso la Biblioteca Casanatense, k. VIII. 27ccc.; un altro esemplare è al British Museum, ecc.); solo nella Bibliothèque de la Compagnie de Jésus..., nouv. éd. par C. Sommervogel S. J., Bibliographie, t. VI, Bruxelles-Paris 1895, col. 1064, l'attribuzione al B. è dubitativa. In realtà l'intervento del B. in questo caso appare limitato all'allocuzione ai lettori, debitamente firmata e datata Ginevra, 1° ott. 1565; già nella premessa al Trattato primo, nell'annunciare prossima l'apparizione del "secondo trattato, nel quale si dichiarano le autorità degli antichi Scrittori, i quali egli [il Possevino] falsamente allega e corrompe per ingannare gli ignoranti", il B. si rivolgeva al gesuita mantovano in questi termini: "sappia fin da hora che l'autore per modestia non vuole che il suo nome si vegga stampato": si tratta comunque non di "qualche dottore attempato e consumato nella Theologia" ma di "uno scholare ben giovene". La stessa sottolineatura polemica della giovinezza dell'ignoto autore ritorna nella premessa del B. al secondo trattato ("nelle mani etiandio de gioveni la verità ha grande efficacia et forza per mantenersi intera, et vittoriosa"). Poco dopo l'apparizione di questo secondo trattato apparve una replica, intitolata Risposta à Pietro Vireto, a Nicolo Balbani, et a due altri heretici, i quali hanno scritto contra il Trattato della Messa di M. Ant. Possevino, in Avignone, per Pietro Rosso, 1566 (un esemplare di questo raro opuscolo si trova presso la Biblioteca Casanatense, b. XII. 12). L'opuscolo, anonimo, è concordemente attribuito al Possevino (cfr. [J. D'Origny], La vie du père Antoine Possevin de la Compagnie de Jésus...,Paris 1712, pp. 99 e 115; Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, cit., vol. cit., col. 1565, dove è citata anche una trad. tedesca dell'opuscolo, apparsa a Monaco nel 1570); in realtà, se dobbiamo prestar fede alle parole di chi scrive, l'autore sarebbe non il gesuita mantovano, bensì una persona a lui molto vicina. Nell'opuscolo si polemizza soprattutto con il B. e lo "scholare fidele", che si insinua essere il B. stesso (p. 11: "Certo [il B.] non può dire che quel libro sia suo, conciossiacosa che s'egli detto l'havesse poteva dubitare di trovare chi lo scoprisse ìgnorante di quelle lingue, delle quali mendicato havendo alcuni motti, gli ha inseriti là dentro ecc."). Il B. viene accusato specialmente di ignoranza in fatto di teologia: "non è gran fatto, ch'egli non sappia ciò che ragioni della D. Scrittura, poiché chi non hebbe cervello di giungere a qualche grado delle leggi Civili, come l'havrà il miserello di pervenire all'altezza delle Divine?" (p. 18). Inoltre si allude a una presunta fine ingloriosa della predicazione del B. a Lione. In ogni caso anche questa operetta polemica testimonia il successo degli scritti del B., che il Possevino volle confutare pubblicamente (p. 19).
Parallelamente a questi scritti di controversia e propaganda il B. veniva proseguendo la sua attività di ministro e di predicatore (nel 1579 ebbe tra i suoi uditori Giordano Bruno) a Ginevra; la sua crescente autorità è testimoniata dalle lettere indirizzategli dalle comunità italiane. Così, il 10 maggio 1563 Claudio Bergia, ministro della comunità riformata di Villar Pellice, scriveva al B. chiedendogli di intervenire presso Giovanni Perez per indurlo a tornare nelle Valli, dov'era più urgente il bisogno di ministri; il 5 ott. 1579 Francesco Truchi, ministro della comunità di San Giovanni, si rivolgeva al B. e al Bèze esponendo le esigenze della comunità, ridotta a mal partito dalle persecuzioni dei Savoia, e chiedendo il loro intervento. All'autorità del B. ricorrevano anche quegli esuli che per la loro irrequietezza teologica e dottrinale erano più lontani dalla rigida ortodossia calvinista di lui, come Mino Celsi e Bartolomeo Silvio, probabili autori di una lettera indirizzata a un "messer Nicolò" (verosimilmente identificabile con il B.) in difesa di G. Turriani, ministro della comunità di Piur, sospeso nel 1571 per un anno dal suo ufficio per aver espresso opinioni favorevoli alla tolleranza religiosa. Così, nell'autunno del 1578 Francesco Pucci esponeva le sue tesi sull'innocenza naturale dell'uomo e sulla ragione come fonte di errore e di pregiudizio in una lunga lettera rivolta appunto al B. D'altra parte la convivenza tra il B. e gli esuli italiani non era stata sempre pacifica, come testimonia il suo violento contrasto con l'antitrinitario lucchese Simone Simoni. Questi, per aver insultato clamorosamente il B. che l'aveva invitato alle nozze della propria figlia, venne imprigionato, processato (16-19 giugno 1567), deposto dalla carica che ricopriva di insegnante di filosofia e medicina presso l'Accademia di Ginevra, e condannato a porgere pubbliche scuse (ignoriamo quanto abbiano pesato nel contrasto le opinioni del Simoni, e se, come suppone il Borgeaud, nell'insofferenza del B. agissero anche elementi di gelosia).
Il B. - che dopo la morte della seconda moglie, Vittoria da Thiene, avvenuta il 21 giugno 1582, era passato nel 1576 a nuove nozze con Angela Cenami, vedova del lucchese Luiso Guidiccioni - morì, forse di podagra, il 2 o 3 agosto 1587, nella casa che gli era stata assegnata come domicilio al suo arrivo a Ginevra.
Pochi mesi prima aveva ultimato una biografia di Galeazzo Caracciolo marchese di Vico (la prefazione è datata Ginevra, 1° apr. 1587), cui era stato legato da profonda amicizia (nel 1586, poco prima di morire, il Caracciolo aveva nominato il B. suo esecutore testamentario; l'anno seguente, la vedova del marchese, Anna Framéry, inseriva nel proprio testamento un lascito alle figlie nubilì del B.). L'opera apparve a Ginevra nel 1587 col titolo Historia della vita di Galeazzo Caracciolo chiamato il Signor Marchese nella quale si contiene un raro e singolare essempio di costanza e di perseveranza nella pietà e nella vera religione (un esemplare di questa rarissima stampa si trova presso il British Museum), L'eccezionalità del caso umano e la vivezza e drammaticità del racconto del B. (che smorza, tuttavia, tutto ciò che non è immediatamente inseribile in una prospettiva edificante: così, come notò il Croce, è taciuto il contrasto che per un certo tempo divise il Caracciolo e la chiesa ginevrina) assicurarono a questa biografia una notevolissima fortuna e un posto di rilievo nell'agiografia protestante. Ne sono elencate numerose traduzioni: una francese, non compiuta e non pubblicata, di S. Goulart; una latina dello Hotman (1596); una inglese di W. Crashaw, più volte ristampata (1608, 1612, 1635, 1662, 1668, 1677), anche negli Stati Uniti d'America (1750, 1794); una francese di V. Minutoli (1681); un'altra, sempre in francese, ma condotta sulla traduzione latina dello Hotman, di A. Teissier (1681 e 1682); una tedesca di N. Setzner (1596 e 1748). La prima edizione italiana, divenuta introvabile, fu ripubblicata da E. Comba (1875) con l'aggiunta di una breve introduzione. Sulla ristampa del Comba venne condotta da M. Betts una nuova traduzione inglese (1907), non integrale.
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