Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per l’astronomia il Settecento è un periodo di discussione e di rielaborazione della nuova immagine del cosmo, sorta dalla rivoluzione astronomica del XVI e XVII secolo e culminata nella pubblicazione dei Principia di Newton.
Nella storia dell’astronomia i primi tre decenni del Settecento sono caratterizzati dalla contrapposizione tra i due maggiori sistemi del mondo concepiti nel secolo precedente: quello di Newton, esposto nei Principia mathematica (1687), e quello di Cartesio, presentato nei Principia philosophiae (1644). Entrambi i sistemi postulano un universo infinitamente esteso, popolato da innumerevoli stelle, una delle quali è il Sole. Attorno a esso orbitano i sei pianeti fino a quel momento conosciuti, da Mercurio a Saturno, alcuni dei quali sono – a loro volta – centri di rotazione di uno o più satelliti. Le differenze principali tra i due sistemi stanno, invece, nella concezione dello spazio e della natura del moto planetario.
Per Newton l’universo è essenzialmente vuoto. La materia ne rappresenta solo un’infinitesima frazione, che si concentra soprattutto nei corpi delle stelle, dei pianeti e dei satelliti. Nel vuoto i pianeti tenderebbero a muoversi di moto inerziale, rettilineo e uniforme, se non intervenisse una forza centripeta o gravitazionale, centrata sul Sole, a curvarne costantemente la traiettoria, trasformandola in un’orbita chiusa. Tale forza agisce sui pianeti in ragione inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze dal Sole. Anche i pianeti, a loro volta, sono centri di attrazione gravitazionale per i satelliti che vi orbitano intorno. I movimenti dei pianeti e dei satelliti si svolgono in accordo alle leggi cinematiche stabilite da Keplero all’inizio del XVII secolo.
Per Cartesio, invece, estensione e materia coincidono: l’universo è un plenum riempito da un fluido celeste, la materia sottile, in continuo movimento vorticoso intorno a ciascuna stella. Secondo questo modello, il movimento dei pianeti intorno al Sole è dovuto al trascinamento prodotto dalla materia del vortice celeste centrato sulla nostra stella. Vortici minori, centrati sui pianeti, spiegano il moto orbitale dei satelliti.
Contro questo modello, che aveva trovato ampia diffusione in Francia, dove la fisica cartesiana contava il maggior numero di seguaci, i newtoniani riprendono e sviluppano le critiche alla fisica dei vortici già avanzate da Newton nel secondo libro dei Principia mathematica: un sistema planetario trascinato da un vortice non può muoversi in accordo con le leggi di Keplero; in secondo luogo, un vortice non può mantenersi in moto autonomamente, ma persiste solo se una forza esterna fa ruotare il corpo centrale.
Da parte loro, i cartesiani rifiutano la meccanica celeste newtoniana, in quanto la gravitazione universale, agendo a distanza tra corpi senza l’intervento di alcun mezzo materiale, reintroduce le proprietà occulte e misteriose della filosofia antica, che erano state faticosamente bandite dal discorso scientifico. Al contrario, secondo i cartesiani, la fisica vorticistica, spiegando i movimenti degli astri mediante l’impulso impresso dal contatto di un mezzo materiale, ha da parte sua il merito di far ricorso solo a materia e movimento, senza la necessità di postulare una proprietà dei corpi, come l’attrazione, impossibile a risolversi in termini esclusivamente meccanici.
Per Newton la legge di gravitazione universale consiste semplicemente in una legge matematica che permette di calcolare tutti i movimenti conosciuti e i cui effetti sono matematicamente prevedibili. Prudentemente Newton si astiene dal formulare in pubblico qualsiasi ipotesi sulla natura dell’agente che esercita e trasmette l’attrazione. Ma la prefazione di Roger Cotes alla seconda edizione dei Principia (Londra, 1713), in cui la gravità viene paragonata all’estensione, alla mobilità e all’impenetrabilità dei corpi, autorizza i newtoniani a interpretare la gravità come una delle proprietà essenziali della materia. Come tale essa sarà generalmente interpretata dagli uomini di scienza europei che, dagli anni Trenta in poi, riconosceranno nella fisica newtoniana l’unico sistema in grado di spiegare con precisione i fenomeni astronomici. Tuttavia i cartesiani non condividono né questa impostazione, né l’approccio puramente fenomenico e matematico di Newton.
La resistenza al sistema newtoniano si fa sentire non solo in Francia, ma anche in Germania, dove Leibniz e i suoi seguaci avevano condiviso molte delle critiche che i cartesiani andavano rivolgendo alla fisica dei Principia mathematica. In Italia, invece, dove l’approccio galileiano di tipo matematico-sperimentale è ancora ben vivo, la nozione di gravitazione universale incontra ostacoli minori. Guido Grandi, Ruggero Boscovich, Giovanni Poleni e Francesco Algarotti sono tra i primi sostenitori e divulgatori del sistema di Newton.
Alla fine, però, gli avversari del newtonianesimo devono fare i conti con l’incompatibilità dei vortici celesti con le leggi kepleriane del moto planetario. Su questo problema intervengono per diversi anni vari studiosi, come Bernard de Fontenelle (1657-1757), Philippe Villemont (1651-1707), George Bernhard Bülffinger (1693-1750). Tuttavia, i loro tentativi di conciliare la fisica dei vortici con le leggi di Keplero sono destinati al fallimento e l’abbandono di queste ricerche, verso la metà degli anni Trenta, segna una prima, importante sconfitta degli avversari della fisica celeste newtoniana, nonostante essi continuino a ritenere l’azione a distanza una nozione filosoficamente insoddisfacente. È in questo periodo che in Francia il sistema di Newton comincia a incontrare i primi decisi sostenitori, tra i quali primeggiano Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), Alexis-Claude Clairaut (1713-1765) e Voltaire. Nel 1732 Maupertuis pubblica un Discours sur les différentes figures des astres, che mette a confronto i sistemi di Cartesio e di Newton, privilegiando il secondo. Voltaire, con le Lettres philosophiques (1734) e poi con gli Elémens de la philosophie de Neuton mis à la portée de tout le monde (1737) fa conoscere a un gran numero di lettori francesi il sistema newtoniano. Ancora nel 1742 Maupertuis pubblica una Lettre sur la comète, che riprende in modo divulgativo i temi dell’opera del 1732.
Un altro aspetto sul quale si decide lo scontro tra cartesiani e newtoniani è la questione, allora ampiamente dibattuta, relativa alla forma della Terra. Il problema torna a farsi dirompente nel 1732, a seguito di un intervento, all’Accademia di Francia, di Maupertuis, che fa propria la tesi di Newton secondo cui la Terra, per effetto del moto proprio, dovrebbe essere uno sferoide appiattito ai poli, opponendosi a Giacomo Cassini (1677-1756), che già nel 1718 aveva pubblicato delle misure che confermavano l’idea cartesiana di una Terra allungata ai poli. Questo intervento apre una serie di discussioni che vedono i maggiori nomi della scienza francese schierarsi in due fazioni opposte. Per dirimere la questione vengono organizzate due spedizioni allo scopo di compiere misurazioni sulla curvatura della Terra all’equatore e al circolo polare artico. La prima spedizione parte per il Perú nel 1735, sotto la direzione di Charles-Marie de la Condamine (1701-1774); la seconda, guidata dallo stesso Maupertuis e da Clairaut, lascia Parigi per la Lapponia l’anno seguente. Da queste due spedizioni vengono ottenute misure molto più significative di quelle disponibili in precedenza e queste misure danno ragione a Newton. A questo argomento Clairaut dedicherà poi un intero trattato dal titolo Théorie de la figure de la Terre (1743). I risultati delle due spedizioni contribuiscono in modo decisivo all’accettazione del sistema newtoniano del mondo sia in Francia sia nel resto del continente europeo.
All’affermarsi dei Principia mathematica in tutta Europa, fa seguito un attento lavoro di verifica, di precisazione e di applicazione della meccanica celeste newtoniana alle complessità del sistema solare che strumenti sempre più perfetti e metodi d’indagine sempre più raffinati vanno rivelando. Newton aveva stabilito la legge che tiene insieme tutti i corpi del nostro sistema planetario, ma i suoi successori si trovano di fronte al compito di calcolare le posizioni di pianeti e satelliti a un certo istante, in base alla legge di gravitazione universale. Il problema si presenta di difficile soluzione: per la natura stessa della legge di gravitazione, un pianeta non solo è attratto dal Sole, ma anche da tutti gli altri pianeti che cambiano, da istante a istante, la loro posizione.
Di conseguenza, alla continua variazione della loro distanza dal pianeta, segue un continuo cambiamento della loro influenza gravitazionale sul pianeta stesso. Ciò comporta che il movimento del pianeta risulti essere assai complesso e che esso si svolga in accordo alle leggi di Keplero solo in modo approssimato. Questo discorso vale, ovviamente, anche per i satelliti. Ma tener conto delle diverse e variabili influenze gravitazionali che agiscono su un pianeta o su un satellite è un problema di grandissima difficoltà.
Le equazioni dei moti celesti si risolvono nel modo più semplice solo nel caso di due corpi, ma basta introdurne un terzo perché la soluzione diventi analiticamente inestricabile. Gli astronomi e i matematici del Settecento comprendono che il problema può essere affrontato solo per via indiretta, con metodi di soluzione approssimata: un pianeta è sottoposto all’azione preponderante del Sole; un satellite è sottoposto all’azione preponderante del suo pianeta, circostanze che permettono in ogni caso di trattare innanzitutto il problema dei due corpi, introducendo solo in un secondo momento le azioni degli altri corpi in gioco, a cominciare dai più grandi, sotto la forma di perturbazioni rispetto all’azione della forza principale. Tra gli studiosi che hanno affrontato analiticamente l’impostazione di questo problema – detto “dei tre corpi”, essendo nato dallo studio del sistema Sole-Terra-Luna – vanno annoverati i matematici Leonhard Euler (1707-1783) e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783), ma soprattutto Clairaut, che nel 1759 pubblica a Parigi i Principes mathématiques de la philosophie naturelle, nel cui secondo volume è inserita una Solution analytique des principaux problèmes qui concernent le système du monde.
In alcuni casi, il calcolo delle perturbazioni gravitazionali riesce a collegare saldamente teoria e osservazioni: è esemplare, da questo punto di vista, la previsione del ritorno della cometa di Halley nel 1758. Nella Astronomiae cometicae synopsis, pubblicata nel 1705 sulle “Philosophical Transactions”, Edmond Halley aveva sostenuto che la cometa del 1682, che oggi porta il suo nome, è la medesima già apparsa nel 1531 e poi ritornata nel 1607. Per il 1758 ne predice un nuovo ritorno. Nelle Tabulae Astronomicae, pubblicate postume nel 1749, Halley precisava che la cometa sarebbe riapparsa tra la fine del 1758 e i primi del 1759, dal momento che nel 1681 la cometa si era molto avvicinata a Giove, la cui azione gravitazionale ne aveva modificato la velocità con cui percorreva l’orbita. Il passaggio successivo sarebbe dunque avvenuto con un lieve ritardo rispetto ai due precedenti passaggi.
Nel 1758 Clairaut presenta all’Académie des Sciences di Parigila sua Mémoire sur la comète de 1682, in cui, riprendendo gli argomenti di Halley e confermandoli su una più ampia base di calcoli, precisa che la cometa sarebbe riapparsa nel 1758 a causa delle perturbazioni gravitazionali di Giove e Saturno e ne predice il passaggio al perielio per la metà di aprile dell’anno successivo, con un margine di errore non superiore a un mese. In effetti la cometa riappare la notte di Natale del 1758, in accordo con le previsioni di Halley, e passa al perielio il 14 marzo, dunque entro il margine di errore previsto da Clairaut. Questo evento viene salutato da molti studiosi dell’epoca come un trionfo della teoria della gravitazione universale. All’applicazione del problema dei tre corpi all’orbita di una cometa Clairaut dedica, nel 1760, uno studio generale intitolato Théorie du mouvement des comètes.
Ma non sempre gli astronomi del Settecento riescono a collegare saldamente teoria e osservazione. Le anomalie del moto della Luna e certe irregolarità del moto dei pianeti rappresentano alcuni di quei casi in cui la complessità del problema dinamico è tale da indurre molti studiosi a pensare che la legge di gravitazione universale debba essere addirittura modificata rispetto all’originaria formulazione newtoniana. A questa conclusione giungono Euler e D’Alembert nello studio delle anomalie del moto lunare. In merito allo stesso problema, anche Clairaut, per alcuni anni, condivide l’idea di una correzione della legge di gravitazione universale, anche se successivamente rivede la sua posizione. Quanto alle irregolarità del moto planetario, alcuni propendono anche per ipotesi ad hoc, come la presenza, nel sistema solare, di un fluido molto tenue che, con densità differente, altera sensibilmente il moto dei pianeti e dei satelliti secondo quanto mostrato dalle osservazioni.
Nel pensiero di Newton, il fatto che le orbite osservate si scostino progressivamente nel corso del tempo dalle orbite previste teoricamente, apre la possibilità di dover ammettere che il sistema solare non è un sistema stabile, ma destinato a mutare nel corso dei secoli in maniera catastrofica. Per Newton questo è un argomento nuovo per dimostrare l’esistenza di Dio, che interviene periodicamente per riportare i pianeti nelle orbite esatte e garantire la stabilità del sistema.
Tuttavia, un secolo e mezzo di osservazioni hanno dimostrato che le ineguaglianze nel movimento dei corpi celesti sono di due tipi: “secolari”, cioè progressive, e “periodiche”, cioè con valori oscillanti attorno a un valore medio. Mentre queste ultime non sembrano minare la stabilità del sistema, il problema si pone invece per quelle progressive, che in futuro possono amplificarsi e distruggere l’intero sistema planetario. Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) riesce invece a dimostrare in maniera convincente che le perturbazioni secolari non modificano il sistema solare in maniera irreversibile. Nel groviglio di corpi e forze perturbatrici esiste una sostanziale stabilità. Gli scostamenti dei singoli corpi del sistema planetario dalle orbite teoriche sono destinati ad annullarsi dopo periodi molto lunghi, variabili da un corpo all’altro. Certe irregolarità del moto di Saturno, ad esempio, sono spiegabili dinamicamente con accelerazioni e decelerazioni che avvengono ogni 900 anni a causa dell’influenza di Giove. Oppure, se esistono variazioni di eccentricità nell’orbita dei pianeti, se un’eccentricità aumenta, allora un’altra deve diminuire, in modo che la “somma” complessiva resti uguale. Questi e altri risultati dimostrano che il sistema solare, nella sua evoluzione dinamica, non è caotico. Il lavoro e i calcoli di decenni sono riuniti da Laplace nei cinque ponderosi volumi del Traité de mécanique céleste, pubblicati tra il 1799 e il 1825.
Il Seicento era stato il secolo in cui si era andata definitivamente affermando l’ipotesi copernicana del moto della Terra. Ma all’inizio del Settecento manca ancora una prova sperimentale di questo movimento. Molti astronomi, negli ultimi decenni del Seicento, avevano cercato di osservare il fenomeno della parallasse annua, cioè uno spostamento apparente delle stelle dovuto al mutamento di posizione dell’osservatore, solidale al moto di rivoluzione della Terra, ma i primi risultati non avevano dato alcun riscontro positivo. Si era giunti alla conclusione che le dimensioni del cosmo avrebbero potuto essere così grandi da rendere anche il diametro dell’orbita terrestre un cambiamento di luogo troppo piccolo per produrre sulla Terra uno spostamento percettibile nella posizione apparente delle stelle, anche di quelle meno lontane.
Tuttavia, all’inizio del Settecento non viene meno la speranza di puntare i telescopi verso stelle effettivamente molto vicine alla Terra. Nel 1718 Edmond Halley, confrontando le posizioni di astri come Arturo e Sirio con quelle riportate negli antichi cataloghi stellari, scopre che queste stelle presentano un sensibile moto proprio. Questa scoperta fa sperare nella possibilità che esistano stelle così vicine alla Terra da poterne misurare anche l’effetto della parallasse annua.
Lo strumento più preciso per la misura degli angoli è, in quel tempo, il settore zenitale, che serve a misurare la distanza angolare di un astro dallo zenit dell’osservatore quando l’astro, nella sua traiettoria apparente da est verso ovest, passa nel campo visuale del telescopio. Nel 1725 l’astronomo irlandese Samuel Molineux (1689-1728), nell’intento di rilevare il fenomeno della parallasse stellare, fa costruire un settore zenitale di massima precisione da uno dei più famosi e abili fabbricanti di strumenti scientifici del periodo: George Graham (1675-1751). Lo strumento viene montato nell’osservatorio di Molineux a Kew e puntato in direzione della stella gamma della costellazione del Dragone. Insieme a Molineux lavora James Bradley (1693-1762), allora docente di astronomia a Oxford. Notte dopo notte, essi osservano che la stella passa al meridiano con angolo polare via via differente nel corso di un anno: in 12 mesi la stella aveva descritto sulla sfera celeste una piccola ellisse, la cui massima ampiezza diametrale era di appena 41 secondi d’arco.
All’inizio il fenomeno viene attribuito a errori di osservazione, ma in seguito diviene chiaro che esso è assai più rilevante di quel che i possibili errori strumentali possono giustificare. Aiutato da un altro settore zenitale, sempre costruito da Graham e collocato a Wansted nel 1727, Bradley osserva un analogo fenomeno in più di 200 stelle. Queste variazioni nella posizione delle stelle appaiono a Bradley tanto più singolari in quanto avvengono in direzione contraria a quelle che avrebbe prodotto la loro parallasse annua. Dopo aver indagato su una serie di possibili cause del fenomeno, Bradley intuisce che le variazioni angolari da lui osservate sono prodotte dalla combinazione della velocità di rivoluzione della Terra con la velocità finita della luce, già determinata nel 1675 da Roemer.
Si tratta di un fenomeno analogo a quello per il quale la pioggia sembra cadere obliqua se l’osservatore è in movimento: si combinano la velocità verticale dell’acqua e quella orizzontale dell’osservatore. Così, a causa del moto della Terra intorno al Sole, la luce che proviene dalle stelle appare leggermente spostata, e poiché la Terra gira, anche la direzione apparente di provenienza della luce disegna, nel corso di un anno, un percorso chiuso. Questo fatto conferma sia la velocità finita della luce sia il moto della Terra. È dunque la prima dimostrazione fisica del moto di rivoluzione terrestre.
Bradley rende nota la sua scoperta nel dicembre del 1728 in una comunicazione pubblicata nelle Philosophical Transactions della Royal Society di Londra.
Nel 1747 Bradley annuncia la scoperta di un altro spostamento apparente delle stelle. Si tratta della nutazione prodotta da un movimento ondulatorio dell’asse di rotazione della Terra, che tende a far oscillare il polo celeste attorno a una posizione media in un periodo di circa 18,6 anni. Il fenomeno è dovuto all’attrazione esercitata dalla Luna sul rigonfiamento equatoriale della Terra.
Ancora Bradley, attorno al 1760, formula la legge della rifrazione astronomica, relativa alla modificazione che un raggio di luce subisce nell’attraversare l’atmosfera terrestre.
I risultati ottenuti da Bradley, grazie ai quali l’astronomia stellare raggiunge livelli di altissima precisione, diventano possibili per il contributo del micrometro, uno strumento ideato nel Seicento, ma migliorato e perfezionato nel secolo successivo. Consiste in un sistema di fili disposti parallelamente a distanze note, sistemato nel fuoco del telescopio: esso consente di misurare con buona esattezza la grandezza dell’immagine che vi si proietta.
Ma l’astronomia di osservazione realizza importanti progressi anche grazie al potenziamento e al miglioramento della qualità dei telescopi. Nel Seicento Newton, Gregory e Cassegrain avevano progettato telescopi a riflessione, ma questi strumenti non erano riusciti a rivaleggiare con il cannocchiale a rifrazione a causa della mancanza di un materiale adatto con il quale costruire gli specchi. Nei primi decenni del Settecento, si usano e si costruiscono ancora lunghissimi rifrattori, le cui notevoli lunghezze focali servono a ridurre l’aberrazione cromatica prodotta dalla lente singola. Questi strumenti, ancorché molto potenti, richiedono complesse strutture di sostegno, che ne rendono l’uso non sempre agevole. Nel Settecento si tenta di migliorare il rifrattore introducendo un obiettivo composto da due lenti, una convergente e una divergente di appropriato potere dispersivo, al fine di correggere l’aberrazione cromatica. Su un progetto del 1733 dell’avvocato londinese Chester Moor Hall, l’ottico George Bast costruisce il primo obiettivo acromatico. In seguito, l’artigiano John Dollond (1706-1761) migliora le caratteristiche dell’obiettivo acromatico, costruendo telescopi che offrono prestazioni nettamente superiori a quelle dei lunghi cannocchiali cromatici. Tuttavia, questi nuovi strumenti, nel Settecento, non riescono a soppiantare il cannocchiale tradizionale perché i costruttori non riescono a raggiungere aperture superiori ai dieci centimetri.
Alla difficoltà di ottenere fusioni regolari da pezzi di grandi dimensioni si aggiunge il fatto che il calcolo delle curvature, degli spessori e della distanza tra le due lenti è del tutto empirico, e gli indici di rifrazione e di dispersione dei vetri non lasciano molta scelta al progettista.
Nella seconda metà del Settecento il telescopio a riflessione conosce un grande impulso, soprattutto per merito di uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi: il tedesco William Herschel (1738-1822). I suoi specchi sono di qualità più elevata di quelli levigati dagli ottici suoi contemporanei. Nel 1782 completa con successo un riflettore da 30 cm di diametro e nel 1788 realizza un analogo strumento da 46 cm di diametro. Incoraggiato da questi risultati Herschel si cimenta nella costruzione del più grande telescopio del mondo: un riflettore da 122 cm di apertura e 12,2 m di lunghezza focale. Questo strumento, terminato nel 1789, consente a Herschel di scoprire subito due nuovi satelliti di Saturno: Mimas ed Enceladus.
Ma la più grande scoperta di Herschel è quella che egli realizza il 13 marzo del 1781. Mentre è intento a osservare e catalogare stelle doppie, egli scorge un oggetto di non comune magnitudine, che dapprima gli sembra una nebulosa o una cometa. All’annuncio di questa scoperta, la comunità astronomica si mette subito al lavoro e alcuni astronomi si accorgono che l’orbita percorsa dall’oggetto è pressoché circolare. Ben presto si comprende che si tratta di un nuovo pianeta, mai osservato prima di allora. È il primo a essere scoperto in epoca storica.
Fin dall’antichità l’uomo aveva creduto che Saturno segnasse il confine estremo del sistema solare. Herschel, in omaggio al re Giorgio III di Inghilterra, denomina il nuovo pianeta Georgium Sidus, ma in seguito verrà chiamato con il nome che porta attualmente: Urano. Allo stesso Herschel si deve, nel 1787, la scoperta di due satelliti del nuovo pianeta: Titania e Oberon.
Nel 1783 Herschel scopre che il Sole, e con esso tutto il sistema solare, presenta un moto proprio che lo fa muovere in direzione della costellazione di Ercole.
Ma la sua ricerca più importante è quella con cui giunge a una prima approssimazione circa la struttura del sistema stellare della Via Lattea. Egli concepisce il disco galattico come un disco disposto con la dimensione maggiore nel piano della Via Lattea e con uno spessore di circa un quinto di questa dimensione.
Herschel dedica anche particolare attenzione all’osservazione delle nebulose e degli ammassi stellari, un settore di ricerche coltivato anche da Charles Messier (1730-1817), noto per aver compilato nel 1771 un famoso Catalogue di questi oggetti.
I Principia mathematica di Newton avevano dato una base fisica al sistema planetario copernicano. Ma non ne avevano spiegato l’origine. La cosmologia newtoniana è fondamentalmente statica. Essa fa riferimento a un mondo interamente creato da un Essere Supremo, che ogni tanto interviene nell’aggiustamento della sua creazione. I Principia philosophiae di Cartesio offrono, invece, un modello cosmogonico completamente disancorato da presupposti di carattere metafisico e teologico, in cui l’estensione, il movimento e i diversi elementi che costituiscono la materia sono sufficienti alla formazione di un mondo che, una volta ricevuto il primo impulso divino, continua a muoversi e a svilupparsi autonomamente. Nonostante le molte difficoltà della fisica dei vortici celesti, le cosmogonie di derivazione cartesiana incontrano un lusinghiero successo, almeno per la prima metà del Settecento, proprio perché propongono un modello dell’origine del mondo libero da ogni ipotesi teologica e un’interpretazione dei processi evolutivi della materia in termini puramente meccanici. Grande diffusione hanno, nel XVIII secolo, gli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Fontenelle, che descrivono un universo in continua trasformazione, e il Telliamed (1738) di Benedict de Maillet (1656-1738), che, in netto contrasto con il racconto della Genesi, sostiene l’eternità della materia, una storia geologica della Terra, protrattasi in un lungo arco di tempo, e una storia della vita che, originatasi nelle acque degli oceani, si è poi evoluta in forme più complesse fino ad arrivare all’uomo.
Una prima sintesi tra fisica newtoniana e materialismo cartesiano, scevra di implicazioni teologiche, si ha nel primo volume della Histoire naturelle (1749) di Georges-Louis Leclerc de Buffon, in cui l’origine e la formazione del sistema solare vengono fatte risalire all’impatto di una cometa sul Sole. Cadendo obliquamente sulla nostra stella, la cometa ne ha asportato una parte della materia, proiettandola nello spazio. Alcune parti più dense di questo getto di materia si sono poi andate aggregando per l’azione della forza di gravità, cominciando, così, a formare i pianeti, trattenuti in orbita intorno al Sole dalla forza attrattiva di quest’ultimo. I pianeti, per migliaia di anni, sono stati globi di materia infuocata, ma successivamente si sono raffreddati e consolidati. Il modello cosmogonico di Buffon ha il pregio di spiegare come mai i corpi del sistema solare giacciono quasi sullo stesso piano e appare coerente con la sequenza di eventi che si pensava potessero aver successivamente modellato la superficie terrestre e creato la sua orografia.
Nel 1755 il filosofo Immanuel Kant pubblica la Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, che contiene un’ipotesi sull’origine del mondo basata esclusivamente sulle leggi newtoniane dell’attrazione e della repulsione.
Secondo Kant, dal caos primordiale la materia si è andata lentamente separando e condensando in grandi formazioni. All’interno di queste formazioni esistono punti di maggiore densità verso le quali la materia comincia a concentrarsi, dando origine a corpi centrali, le future stelle, che intensificano la propria gravità, riuscendo così ad attrarre particelle di materia sempre più distanti. Al contrario, alcune particelle, durante il movimento di caduta verso il nucleo centrale, sono deviate dall’azione repulsiva esercitata dalle particelle disperse nello spazio circostante, dando luogo a movimenti tangenziali. Per effetto di questa forza centrifuga, queste particelle non cadono sul nucleo, ma descrivono orbite circolari intorno a esso. Le parti più dense di questa materia orbitante originano, a loro volta, nuovi centri di attrazione, che in seguito si accresceranno per dare origine ai pianeti. Il modello proposto da Kant non è valido solo per il sistema solare, ma per l’intero universo stellare.
Secondo Kant le stelle non sono uniformemente distribuite nello spazio, ma sono concentrate in enormi raggruppamenti identici alla nostra Via Lattea: le nebulose. Nel Settecento questi oggetti sono concepiti come agglomerati di stelle, che i telescopi non sono in grado di risolvere, mentre oggi sappiamo che le nebulose sono formate soprattutto da gas e polveri e sono parti integranti delle galassie. Kant, invece, ritiene che le nebulose siano tante Vie Lattee, ognuna formata da miriadi di stelle. A loro volta questi universi-isola sono parti di sistemi più ampi, veri e propri raggruppamenti di diversi universi-isola, che sono le strutture gerarchicamente più ampie del cosmo.
L’idea di un cosmo gerarchicamente strutturato è comune anche a Thomas Wright, che la espone in un’opera del 1750 intitolata An Original Theory or New Hypothesis of the Universe. L’obiettivo dell’autore è quello di conciliare astronomia e teologia, mentre il pensiero cosmologico di Kant è emancipato da presupposti religiosi. Wright ritiene che la Via Lattea sia costituita da uno strato sferico così grande che la sua curvatura non è rilevabile. Uno strato sferico è lo spazio compreso fra due superfici sferiche aventi lo stesso centro ma raggi differenti. Come i satelliti orbitano intorno ai pianeti, e i pianeti intorno al Sole, così il Sole e le stelle più vicine ad esso ruotano intorno a un centro divino e tutto il gruppo ruota mantenendosi entro lo strato sferico. Data la piccola curvatura dello strato, l’osservazione dal suo interno delle stelle in esso contenute fornisce risultati diversi lungo direzioni diverse.
Perpendicolarmente allo strato vengono osservate solo le poche stelle vicine, dato che, al di fuori dello strato, non vi sono stelle; invece lungo lo strato, data la sua piccola curvatura, è possibile osservare le stelle anche a distanze molto grandi. È così che viene a formarsi l’immagine della Via Lattea.
Intuizioni molto felici sulla nostra posizione nella Via Lattea vengono da Johann Heinrich Lambert. Nelle sue Cosmologische Briefe (1761) egli ipotizza che le stelle ruotino intorno a un centro del sistema stellare, mantenendosi vicine a un piano rappresentato dalla Via Lattea. Secondo Lambert, il gruppo stellare cui appartiene il Sole giace un po’ fuori del piano della Via Lattea e più vicino alla periferia che al suo centro.
Nel 1796, Laplace pubblica una ipotesi sull’origine del sistema solare che ricalca quella kantiana, pur non conoscendola. Nella Exposition du système du monde, egli considera tutti gli aspetti dinamici del sistema planetario e nota, in particolare, che la piccola eccentricità delle orbite esclude che i pianeti si siano formati dal globo solare. L’eccentricità è un segno del fatto che i pianeti si sono condensati dove attualmente si trovano. Per questo Laplace respinge l’ipotesi di Buffon e ritiene che all’origine del sistema solare vi fosse una nebulosa, dalla quale si sarebbero condensati un nucleo caldo (il Sole) e numerosi corpi freddi periferici (i pianeti), questi ultimi in equilibrio tra gravità e forza centrifuga.