neutro
Si chiama comunemente genere neutro uno dei valori che la categoria del ➔ genere assume in varie lingue del mondo, segnatamente nelle lingue indoeuropee, antiche e moderne, accanto ai due valori, più stabili e produttivi, del ➔ maschile e del ➔ femminile.
La denominazione tradizionale di neutro si giustifica in un sistema a tre valori nel quale il neutro si distingue non tanto in positivo, per qualche caratteristica specifica di significato o di costruzione, quanto in negativo, per essere appunto neuter, cioè, in latino, «né l’uno né l’altro», né maschile né femminile.
La tradizione grammaticale dell’italiano non riconosce alla nostra lingua un genere neutro. In effetti, il sistema a tre valori del latino classico ha dato luogo perlopiù, evolvendosi nelle lingue romanze, a sistemi bipartiti, con la confluenza nelle classi del maschile e del femminile dei nomi che in latino erano neutri (➔ latino e italiano). La confluenza però non è stata totale ma ha lasciato dei resti, diversi per quantità e per funzionalità, in numerose lingue e dialetti romanzi. Se ci limitiamo all’italiano, possiamo suddividere i discendenti del neutro latino in due classi: i fossili e i resti funzionali.
Rientrano nella categoria dei fossili quei discendenti dei plurali neutri in -a che sono ormai dei femminili singolari a tutti gli effetti, come foglia o pecora (rispettivam. < lat. folia, plur. di folium «foglia», e < lat. pecora, plur. di pecus «pecora»), e che quindi possono essere individuati solo per via di analisi etimologica. Nel passaggio dal latino all’italiano, l’assegnazione del genere a lessemi che avevano un significato di singolare collettivo (folia «insieme di foglie», pecora «l’insieme delle pecore», ecc.; ➔ collettivi, nomi) ha seguito in questi casi un criterio fonologico, sicché questi lessemi sono confluiti nella classe di flessione che comprende i femminili con singolare in -a, ricevendo di conseguenza il plurale in -e.
Questa ristrutturazione grammaticale si è accompagnata spesso a ristrutturazioni del significato lessicale: il maschile foglio, proveniente da folium «foglia», si è specializzato nel significato di «foglio di carta»; l’originario plurale latino viridia «cose verdi, verdure» è passato a indicare una verdura in particolare, la verza (anche in altre lingue romanze; cfr. romeno varză).
I resti funzionali del neutro, invece, sono rappresentati in varie lingue e dialetti romanzi da classi di accordo dotate di una certa autonomia all’interno dei rispettivi sistemi, a prescindere poi dal fatto che le singole tradizioni grammaticali riconoscano a esse (come avviene per il romeno) oppure no (come perlopiù per l’italiano) lo statuto di genere e il valore di neutro.
Un primo gruppo comprende i derivati dal morfema latino di neutro plurale -a. Per limitarsi a esempi italiani, in questo gruppo rientrano i plurali le braccia, le dita, le mura, le uova, ecc. (per questi lessemi cfr. § 3).
Un secondo gruppo di neutri romanzi, vitale in vari dialetti dell’Italia centro-meridionale e della Spagna settentrionale, discende da evoluzioni specifiche del dimostrativo latino ille, che hanno portato, secondo trafile tuttora discusse, alla possibilità di distinguere lessemi maschili, numerabili e forniti di plurale, da lessemi neutri, non numerabili e privi di plurale, perlopiù nomi di massa (➔ massa, nomi di) o collettivi: cfr. a Rieti lo turcu «il granturco» ma lu turcu «il turco», a Macerata lu scuru «l’imposta della finestra» ma lo scuro «l’oscurità», a Napoli o vrit[ə] «il (pezzo di) vetro» ma o bbrit[ə] «il vetro» come materiale (➔ grammatica storica). Come si vede dall’esempio maceratese, la distinzione tra -u e -o passa talvolta (in effetti raramente) dai determinanti ai nomi; l’esempio napoletano mostra invece che la distinzione può pesare, anziché sulle desinenze, su processi fonologici come la presenza o l’assenza di ➔ raddoppiamento sintattico.
Come ultimo esempio di resti funzionali del neutro abbiamo i derivati dal mantenimento di una declinazione bicasuale (e dunque di un’opponibilità di desinenza tra gli eredi del lat. -us, nominativo, e quelli del lat. -um, accusativo; ➔ caso) che permettono oggi di distinguere tra aggettivi singolari neutri in funzione attributiva (➔ attributo) e aggettivi maschili in funzione predicativa (➔ predicato, tipi di), come nel soprasilvano in bien cudisch «un buon libro» ma quei cudisch ei buns «quel libro è buono».
I criteri necessari per definire la categoria del genere e in particolare il valore del neutro sono discussi, e accettarne alcuni invece di altri può portare a individuare o no un neutro anche in lingue la cui tradizione grammaticale, al contrario, non lo riconosce. Per l’italiano, la possibilità di individuare lessemi di genere neutro è legata all’analisi dei lessemi che hanno un singolare maschile in -o e un plurale femminile in -a, esclusivo (come uovo ~ uova) o affiancato da un altro plurale in -i (braccio ~ braccia ~ bracci, muro ~ mura ~ muri). Per sostenere che tali lessemi costituiscano una sottoclasse caratterizzata da genere neutro sono stati usati vari argomenti.
Secondo Bonfante (1961) la situazione dell’italiano sarebbe strutturalmente analoga a quella del romeno, che ha un neutro formato da nomi, riferiti a entità inanimate, grammaticalmente maschili al singolare e femminili al plurale (ragion per cui i neutri romeni sono anche detti ambigeneri):
singolare plurale
maschile un om doi oameni
un uomo due uomini
femminile o fata două fete
una ragazza due ragazze
neutro un braţ două braţe
un braccio due braccia
Il ‘neutro’ italiano sarebbe perfino più caratterizzato di quello romeno in quanto esso dispone di una marca flessiva apposita per il plurale, appunto la desinenza -a, che manca invece al romeno, il quale usa le desinenze del femminile -e (braţe «braccia») e -uri (hoteluri «alberghi»). Sulla base di queste osservazioni, Bonfante e vari altri studiosi hanno riconosciuto anche per l’italiano l’esistenza di un neutro, che come il romeno raccoglie una serie di nomi con referenti inanimati.
Esistono anche argomenti a sfavore di questa analisi. Il primo interessa sia il neutro romeno sia il ‘neutro’ italiano e riguarda il peso che si dà, per identificare i valori del genere, alla presenza di specifiche marche di accordo non solo o non tanto sui nomi quanto sugli elementi accordati: articoli, aggettivi e pronomi. È l’accordo su questi elementi che permette di identificare la mano come femminile o sommo poeta come maschile. Per l’appunto, il ‘neutro’ italiano ha desinenza -a nei nomi plurali ma non nei rispettivi elementi accordati: le uova buone sono queste, non *la uova buona sono questa. Per inciso, sistemi di ➔ accordo simili sono noti per alcuni dialetti italiani, per es. per l’antico napoletano, che diceva la deta «le dita», la bra(c)cia «le braccia», quella mura ... coperta de marmore «quelle mura ... coperte di marmo», e che perciò, considerando anche i neutri di materia del tipo già citato o bbrit[ə] «il vetro», sarebbe fornito addirittura di quattro valori di genere (Loporcaro 2009: 137). Se si considera un requisito disporre di marche d’accordo specifiche per il genere, allora la tesi che italiano e romeno abbiano un neutro diventa più debole.
Meno cogente, anche se non trascurabile, è il fatto che il presunto neutro italiano sia formato oggi da una quantità molto limitata di lessemi, non più di una ventina, e che sia una categoria del tutto improduttiva. In italiano antico i plurali in -a si usavano con molte più voci di quanto non succeda oggi, anche lessemi originariamente maschili come le carra «carrettate, quantità che un carro può trasportare», o con referenti animati come le demonia «diavoli». Ma queste forme sono cadute in disuso, e nessun nuovo plurale in -a è stato formato in italiano negli ultimi secoli; per continuare nel confronto, i lessemi neutri del romeno sono centinaia, e la categoria si accresce di continuo integrando neologismi.
Infine, è stato osservato che i plurali in -a si comportano per certi versi più come lessemi autonomi che come forme flesse di un lessema. Come i lessemi, e a differenza delle forme flesse, essi possono fungere da base di derivazione: il significato di cornuto o cornificare mostra che essi sono derivati da corna e non da corno. Inoltre, il loro significato spesso non corrisponde alla semplice pluralizzazione del significato del singolare. Ciò è particolarmente evidente nei casi di doppio plurale, uno collettivo, di massa, non individuato in -a e uno in -i che al singolare invece corrisponde: le cervella sono diverse da una pluralità di cervelli, le braccia o le corna sono concettualizzate come entità complessiva e non come pluralità di bracci (i bracci della gru, del fiume) o corni (i due corni del dilemma), le mura sono l’insieme che costituisce un fabbricato e non una pluralità di muri.
Tuttavia, proprio queste ultime considerazioni possono portare a riproporre, sotto nuove condizioni, l’ipotesi che il genere italiano abbia in effetti un terzo valore, non un neutro bensì un genere plurale dotato di una marca propria, -a, di carattere morfologico ma non flessivo, e consistente di nomi esclusivamente plurali accomunati dal fatto di indicare referenti rappresentabili come privi di identità individuale (cfr. Acquaviva 2002).
Per le forme neutre di pronomi (ciò, quello, ecc.), ➔ pronomi.
Acquaviva, Paolo (2002), Il plurale in -a come derivazione lessicale, «Lingue e linguaggio» 2, pp. 295-326.
Bonfante, Giuliano (1961), Esiste il neutro in italiano?, «Quaderni dell’Istituto di glottologia dell’Università di Bologna» 6, pp. 103-109.
Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma - Bari, Laterza.