NEPAL
Con il termine sanscrito Nepāla si indica propriamente la Valle di Kathmandu.
Le ricerche archeologiche condotte dalla fine del secolo scorso a oggi e gli studi di questi ultimi decenni inducono a una radicale riconsiderazione del periodo formativo della società nepalese antica. Si ritiene pertanto opportuno trattare singolarmente diverse regioni culturali e geografiche.
Tarāī. - È la fascia pianeggiante lungo l'attuale confine con l'India, culturalmente parte della civiltà gangetica (v. gange, valle del). Intorno alla metà del I millennio a.C. comprendeva, nella sua parte centrale il territorio degli Śākya - clan di kṣatriya a cui apparteneva la famiglia del Buddha Śākyamuni, il «saggio degli Śākya» - che corrispondeva in parte agli attuali distretti di Kapilavastu e Lumbinī, e probabilmente anche una parte del territorio dei Koliya - il clan di appartenenza della madre del Buddha, Māyā - a E di Lumbinī. Questa regione era toccata dalla grande arteria commerciale del Nord (uttārapatha), che almeno dal VI sec. a.C. collegava le regioni del bacino orientale del Gange, ricche di minerali di ferro e di rame (soprattutto intorno a Rājgir), con le regioni del bacino superiore dell'Indo (satrapía achemenide del i Gandhāra), attraversando la fascia pedemontana dell'Himalaya.
È in quest'area che si concentrarono le prime ricognizioni e gli scavi alla fine del XIX sec., motivati in massima parte dall'interesse di storicizzare la figura e i luoghi del Buddha. A partire dal rinvenimento della colonna con l'iscrizione di Aśoka a Lumbinī (di poco successivo a quello di altre due iscrizioni su colonne a Nigali Sagar e Gotihawa), che identificava il sito come il luogo della nascita di Siddhārtha, gli studiosi cercarono di localizzare nelle sue vicinanze la città natale dell'Illuminato, Kapilavastu.
A. Führer fu il primo a proporne l'identificazione con il sito di Tilaurakot nei pressi di Taulihawa, a O di Lumbinī sulla base delle indicazioni, tra loro divergenti, dei pellegrini cinesi Faxien e Xuanzang. Il contemporaneo rinvenimento a Piprahwa, in territorio indiano, di uno stūpa contenente le reliquie del Buddha, indusse però a identificarlo con quello innalzato a Kapilavastu dagli Śākya dopo la spartizione delle reliquie dell'Illuminato. P. C. Mukherji accettò la prima di queste identificazioni, confortato dalle affermazioni di V. A. Smith che proponeva di riconoscere in Tilaurakot la Kapilavastu descritta da Xuanzang e in Piprahwa quella descritta da Faxien. Scavi non controllati, condotti negli anni '30 a Lumbinī, causarono la quasi totale distruzione del deposito archeologico e delle fondazioni delle strutture antiche.
Scavi regolari nella regione ebbero inizio a partire dagli anni '60. D. Mitra effettuò limitati sondaggi intorno al pilastro di Aśoka a Lumbinī. Nel tentativo di individuarne la fondazione, l'archeologa indiana attestava la difficoltà di lettura stratigrafica dell'area causata dagli sterri degli anni '30. Allo stesso tempo pubblicava il materiale scavato in precedenza, tra cui una testa di Buddha in arenaria di Sikri di epoca kuṣāṇa, frammenti di figurine fittili di varie epoche, due bronzetti kuṣāṇa (?) e diverse sculture e rilievi in stile pāla (VIII-X sec. d.C.).
Scavi più estensivi associati a un'opera di conservazione vennero in seguito condotti sotto la direzione di B. K. Rijal, secondo il quale nell'area sacra si trovava uno stūpa del periodo maurya in parte obliterato dalla fondazione del moderno santuario dedicato alla madre divinizzata del Buddha, Māyādevī. Si segnalano anche varî stūpa votivi e una grande vasca. I rinvenimenti di frammenti di Ceramica grigia (Grey Ware), di abbondante Ceramica nera polita del Nord (Northern Black Polished Ware, NBPW), di tracce di strutture in argilla pressata, di un pozzo ad anelli modulari (ring well) negli strati più antichi e di Ceramica rossa (Red Ware) e materiali fittili di stile gupta, portarono a datare l'insediamento di Lumbinī tra il VI sec. a.C. circa e il VI, sec. d.C. Recenti scavi (1994-95) hanno riportato alla luce le antiche strutture del tempio di Māyādevī, evidenziando le diverse fasi, dal periodo maurya (?) a quello post-gupta.
La struttura monumentale di maggior interesse storico e artistico è la colonna commemorativa fatta erigere da Aśoka in occasione della sua visita al luogo natale del Buddha Siddhārtha durante il suo ventesimo anno di regno. Il monolito, mutilo nella parte superiore, è in arenaria di Chunar (nei pressi di Patna). La colonna, alta oltre 10 m (compresa la parte interrata), era sormontata da un capitello lotiforme a campana, rinvenuto da Mukherji in due frammenti principali; sfortunatamente l'emblema animale, un cavallo secondo Xuanzang, è andato perduto.
Come precedentemente accennato, altri resti di colonne di Aśoka sono stati rinvenuti a Nigali Sagar e a Gotihawa (ambedue nei pressi di Taulihawa). Nigali Sagar fu il primo sito esplorato da Führer, e da questo interpretato - in base all'iscrizione datata al ventesimo anno di Aśoka, che aveva fatto ampliare il vicino stūpa nel quattordicesimo anno - come il luogo di nascita del Buddha Kanakamuni (uno dei Buddha che precedettero Śākyamuni). P. C. Mukherji osservò tuttavia che la colonna - rinvenuta in due tronconi di cui il maggiore, con iscrizioni medievali, giaceva lungo l'argine di uno specchio d'acqua (sāgar), e il minore, con l'iscrizione di Ašoka, era infisso nel terreno a poca distanza - non era certamente in situ. D. Mitra ha ipotizzato che i due frammenti di Nigali Sagar siano pertinenti alla colonna di Gotihawa.
Ciò che rimane di quest'ultima, la cui fondazione è stata indagata da Führer e in seguito da Waddell, alla fine del secolo scorso, è la parte inferiore, attualmente circondata da una struttura in laterizio. Essa presenta la superficie polita a lustro e poggia su una piattaforma litica. Dal momento che al di sotto del piedistallo fu rinvenuta una piccola struttura di rinforzo in mattoni e che il fusto si trova in posizione eccentrica, è stata ipotizzata una possibile ri-erezione in situ della colonna. Diversi frammenti di arenaria sono stati ritrovati nel villaggio, uno dei quali relativo al capitello lotiforme. Accanto alla colonna si trovano i resti di uno stūpa in cui Waddell non rinvenne alcun reliquiario, ma solo ossa e denti di animali, oltre al pozzetto di alloggiamento del pilastro ligneo (yūpa-yaṣṭī) proprio degli stūpa di fondazione antica. Una missione archeologica italo-nepalese ha intrapreso nuove indagini (1994-95) nell'area dello stūpa.
Quanto al sito di Tilaurakot, esso sorge lungo l'antica sponda orientale del fiume Banganga - il cui attuale corso è spostato più a O. Era circondato da un fossato largo c.a 6 m e da una cinta muraria di pianta quasi pentagonale (distanze massime c.a 500 x 405 m), con bastioni di guardia alti fino a 5 m e porte ai punti cardinali.
Nel 1962 D. Mitra effettuò un sondaggio sul lato Ν delle fortificazioni e individuò tre periodi principali: il primo è diviso in due fasi; alla fase A, la più antica, appartengono tre pozzi a elementi modulari e diversi strati che hanno restituito frammenti di ΝBPW. Alla fase Β sono pertinenti alcune strutture in mattoni, un pozzo ad anelli modulari e strati con ceramica del tipo NBPW. Il secondo periodo è caratterizzato dall'innalzamento delle fortificazioni in terra battuta e forse anche delle strutture in laterizio sovrastanti il terrapieno; il terzo periodo è relativo all'abbandono delle fortificazioni. In merito alla datazione degli strati la studiosa indiana affermò, dopo iniziali esitazioni, che l'insediamento non poteva essere più antico del III sec. a.C. e che l'identificazione di Kapilavastu rimaneva ancora incerta, lasciando comunque trasparire una preferenza nel riconoscervi Piprahwa-Ganwaria, dove agli inizî degli anni '70 erano iniziate nuove attività di scavo.
Tuttora in attesa di pubblicazione definitiva sono gli scavi condotti tra la metà degli anni '60 e la fine degli anni '70. Oltre ad aver distinto due fasi nelle fortificazioni, questi scavi hanno riportato alla luce diverse strutture; sul lato O delle mura, una porta monumentale con più soglie da varcare (così almeno nella fase mediana attribuita c.a al II sec. a.C. - II sec. d.C.), con grandi ante lignee fissate con chiodi di ferro, i cui cardini erano alloggiati in strutture di laterizio. La strada, che presentava ancora i solchi dei carri, era realizzata con doppia crepidine in pietra e, lastricata con mattoni. Nei pressi della porta sono stati rinvenuti attrezzi agricoli, utensili domestici, armi, monete di rame e molte scorie metalliche, probabilmente pertinenti a una fucina. Quasi al centro del sito diverse strutture pavimentate in mattoni cotti, con buche di palo e un bagno pavimentato con canaletti di scarico, sono state interpretate come parte del complesso palaziale di Suddhodana (il padre del Buddha), di cui è stata resa una parziale e ipotetica ricostruzione in pianta; le abitazioni circostanti dovevano presentare una planimetria regolare in blocchi paralleli separati da strade principali e vicoli.
La cronologia riproposta da B. K. Rijal, che individuava cinque periodi lungo un vasto arco di tempo (c.a X sec. a.C.-III sec. d.C.), è squilibrata, soprattutto nella valutazione delle fasi iniziali. È impossibile - come ha notato Härtel - assegnare alla Ceramica grigia dipinta (Painted Grey Ware, PGW) proveniente dagli strati più antichi una datazione così alta (XI-VIII sec. a.C.) tanto più quando si tratta come in questo caso di una variante tarda, attribuibile al V sec. a.C. Si aggiunga che le strutture in mattoni cotti sono di certo pertinenti a una fase posteriore (al massimo coeva) al periodo maurya, e che è pertanto difficile vedere nel complesso abitativo sul Mound VIII i resti del palazzo di Śuddhodana. Altrettanto difficile è considerare i resti di due stūpa in laterizio extra moenia come gli stūpa dedicati ai genitori del Buddha.
Dalle evidenze stratigrafiche e dai materiali sembra quindi che il sito - dopo una prima fase non meglio definibile se non dal rinvenimento di Ceramica grigia dipinta e da una prima struttura difensiva in terra battuta - abbia conosciuto verso la fine del I millennio a.C. una fase di prosperità, come si può dedurre anche dalle oltre 3.000 monete rinvenute in diversi ripostigli, e di intensa urbanizzazione caratterizzata, oltre che dalla riedificazione delle mura con mattoni cotti, da una vasta attività edilizia. Tra le numerose testimonianze numismatiche, dalle monete punzonate in argento fino alle emissioni in rame dei sovrani kuṣāṇa, sembra caratteristico del posto un tipo monetale, un tondello in rame con un marchio punzonato presente solo su un lato, raffigurante una ruota con quattro raggi. Dopo il periodo kuṣāṇa si assiste a un graduale declino, come per la maggior parte delle città gangetiche.
Pur mancando le prove per un'identificazione certa di Tilaurakot con Kapilavastu, la presenza degli Śākya è attestata almeno in periodo śuṅga, stando al rinvenimento di un gettone di terracotta con iscrizione in caratteri brāhmī (sa-ka-na-sya, «che appartiene agli Śākya») databile al II sec. a.C. L'identificazione con Kapilavastu di Piprahwa-Ganwaria - va osservato - risulta altrettanto difficile, poiché dalle evidenze disponibili il sito si rivela un complesso monastico dipendente, come attestato su alcune cretule e sigilli iscritti rinvenuti, dalla città di Kapilavastu.
Vanno infine segnalate le esplorazioni effettuate nell'area a E di Lumbinī nel 1964 da S. B. Deo che individuò, tra gli altri, il sito di Banjarahi, c.a 8 km a S di Lumbinī, sulla riva del fiume Dano. In base alla ceramica sono stati riconosciuti tre periodi di frequentazione: il periodo Ia (VII - VI sec. a.C.), caratterizzato da un'abbondante quantità di Ceramica grigia e alcuni frammenti di NBPW; il periodo Ib (II sec. a.C.-II sec. d.C.) con NBPW, Ceramica rossa e figurine fittili in stile śuṅga; il periodo II, da cui proviene solo Ceramica rossa, è stato attribuito a epoca altomedievale. Forse anche in questo caso il termine iniziale è un po' troppo alto e la periodizzazione troppo generica (p.es. tra i materiali attestati nel periodo Ib si trovano figurine in terracotta del periodo śuṅga e del periodo kuṣāṇa).
Tra i numerosi altri siti del tarāī ricordiamo il tempio medievale di Kodan, scavato da D. Mitra, o la città di Simraongarh, oggetto d'indagine da parte di una missione italo-nepalese.
Valle di Kathmandu. - La Valle di Kathmandu, situata al centro dell'arco himalayano, ha svolto sin dai periodi più antichi una funzione di terminale commerciale di alcune importanti vie di comunicazione interregionali montane e tra la Valle del Gange e il Tibet. Per l'epoca più antica disponiamo oggi, oltre al materiale epigrafico (quasi tutto dal V sec. d.C. in poi) e alle cronache medievali, di documentazioni archeologiche e storico-artistiche.
È possibile che alcuni importanti monumenti esistessero precedentemente l'avvento dei Licchavi (III-IV sec. d.C.), come p.es. lo stūpa di Svayambhūnāth o i c.d. stūpa di Aśoka di Patan. Questi, come lo stūpa di Dharmadeva a Chabahil (Deopatan), associati tradizionalmente alla visita leggendaria di Aśoka, forse esistevano già intorno al II-III sec. d.C.
Di notevole interesse sono i riferimenti epigrafici a diverse strutture architettoniche: palazzi, templi, monasteri, stūpa, fontane, colonne celebrative, ecc. Particolari attenzioni erano destinate alla cura e alla realizzazione di opere idrauliche di pubblica utilità; la più antica attestazione di una fontana è del 505, realizzata a Harigaon per volere di un nipote del sovrano licchavi Mānadeva.
Le residenze palaziali licchavi fungevano sia da corte che da centri amministrativi; le cancellerie da cui si emettevano gli editti furono rispettivamente conosciute come Mānagṛha, Kailaśakutabhāvana e Bhadradhivasabhāvana. Il Mānagṛha, residenza di Mānadeva, sarebbe stato un complesso cinto da spesse mura con diverse porte monumentali, numerosi edifici, templi e cappelle, stalle per i cavalli e per gli elefanti, ecc. Grazie al resoconto dell'inviato cinese Wang Xuanzi presso la corte di Narendradeva intorno alla metà del VII sec., possiamo disporre di una descrizione del Kailaśakutabhävana, il palazzo di Aṁśuvarman concepito come la reggia di un «sovrano divinizzato», realizzato verso la fine del VI secolo. Al centro del palazzo, composto da quattro padiglioni (o ali), si trovava una torre con sette piani divisi da tre terrazze, con una copertura di tegole di rame. Pare che tutti gli elementi strutturali e decorativi, i balconi, le inferriate, le colonne, le travi, ecc., fossero decorati con gemme e pietre semipreziose; agli angoli della torre un doccione di rame terminava con una protome di drago (makara) da cui continuamente sgorgava acqua. Il sovrano, adorno di preziose vesti e gioielli, sedeva su un trono leonino in una sala enorme cosparsa di fiori e profumi, circondato dai consiglieri e dagli uomini della scorta personale.
Per quanto riguarda le indagini archeologiche, sporadici scavi finalizzati all'individuazione di evidenze preistoriche furono intrapresi agli inizî degli anni '60 sotto la guida di A. Ghosh. Nel 1965 S. B. Deo tentò di localizzare nei pressi di Harigaon il palazzo di Mānadeva, il Mānagṛha. Oltre alla ceramica, lo scavo restituì strutture in laterizio e pochi materiali; la cronologia venne divisa in tre periodi: Licchavi (I, distinto in antico, medio e tardo), tardo Malla (II), post-Malia (III). Furono osservate alcune affinità tipologiche della ceramica licchavi con quella gupta e post-gupta delle regioni gangetiche settentrionali (Ahicchatrā). N. R. Banerjee nel 1966 compiva limitate indagini a Dhumvarahi, ma i risultati non sono mai stati pubblicati.
Nel 1984 una missione italo-nepalese aprì alcune trincee sulla parte più alta di Dhumvarahi. L'evidenza archeologica attesta un'occupazione tra il VI e l'VIII-IX sec., caratterizzata soprattutto da produzione ceramica.
Altri scavi sono stati condotti dagli italiani nell'area del santuario di Satya Nārāyaṇa a Harigaon (1984-89).
La sequenza cronologica è stata suddivisa in cinque periodi. Nel periodo la (I sec. a.C.) la Valle di Kathmandu appare già inserita nell'orbita culturale della civiltà gangetica. Tra i ritrovamenti di questa fase prestrutturale, terminante con una disastrosa inondazione, è un frammento scultoreo in arenaria di Sikri. Questo, riconosciuto come appartenente a un ex voto (un peso per esercizi ginnici del tipo attestato in circoli kṣatriya d'osservanza visnuita) implica un aspetto rituale - si presume che vi fosse raffigurata una scena mitica relativa al ciclo di Kṛṣṇa, come gli analoghi pesi rinvenuti a Mathurā o nel Gandhāra - proprio delle arti marziali. Tale ritrovamento suggerisce la presenza di gruppi di kṣatriya esercitanti una funzione politica (forse i primi Licchavi della Valle di Kathmandu).
Al periodo Ib-c (I-III sec. d.C.) è associata la costruzione e l'abbandono di una vasca monumentale pertinente a un'area sacra sovrapposta in parte al precedente insediamento abitativo (fondi di capanne). La grande vasca, la più antica struttura nota nella Valle, rientra in quell'insieme di opere idrauliche, che rispondono a esigenze tanto rituali quanto funzionali, caratteristiche della pianura gangetica del periodo śaka-kuṣāṇa; anche i materiali rinvenuti (figurine fittili, ceramica e una moneta di Kaniṣka I) appartengono alla stessa koinè.
A uno iato di circa due secoli, durante il quale si consolidò il potere dei Licchavi e la cui mancanza di evidenze è attribuibile ai limiti della superficie indagata, segue il periodo Ila-b (VI-prima metà VII sec.), caratterizzato dall'edificazione di strutture cultuali, probabilmente di carattere scivaita, e dalla realizzazione della fontana di Bharavi, nipote di Mānadeva, distrutte da un violento terremoto intorno al 630, poco dopo il dominio del potente feudatario Aṁśuvarman (605-621). Tra i varî materiali, si segnalano una sessantina di lucerne, con figurazioni impresse sull'ansa che documentano una grande varietà di motivi iconografici (teste di divinità, personaggi semidivini, scene ispirate a storie popolari, animali, motivi vegetali e simbolici); mentre le figurine fittili di animali, contrariamente al periodo precedente, vengono ora realizzate con la tecnica a doppia matrice.
Sulle rovine del santuario scivaita si imposta all'epoca di Narendradeva (641-679) un santuario buddhista. Gli edifici del periodo III (metà VII-seconda metà VIII sec.) presentano evidenti caratteristiche buddhiste, come p.es. la fondazione dello stūpa 21, alcune iconografie e un'iscrizione su una conduttura di fontana datata al 749 d.C. In essa è riportato il nome dèi villaggio, Andigrāma, divenuto poi Harigaon («il villaggio di Viṣṇu»), quando il potere visnuita si sostituì stabilmente a quello buddhista e scivaita. Nell'area di scavo venne innalzato, in particolare, il tempio di Satya Nārāyana e la colonna iscritta con un'eulogia in onore del saggio brahmano Vyāsa, e con l'immagine di Garuda.
A partire dal 1990 sono stati condotti scavi nel giardino del palazzo reale di Patan (dove le attestazioni più antiche risalgono a epoca altomedievale, c.a IX sec.), e nel parco di Deopatan, presso il tempio di Paśupatināth, da cui provengono materiali ceramici, analoghi a quelli del periodo I di Harigaon, e materiali fittili ascrivibili al periodo kuṣāṇa. I risultati di ambedue gli scavi sono tuttora in corso di edizione.
Dallo studio delle iconografie delle più antiche sculture rinvenute nella Valle è evidente il profondo influsso esercitato dall'India kuṣāṇa. Ricordiamo la statua acefala di yakṣa (v.), secondo altri di Bodhisattva, rinvenuta a Harigaon, datata al I-II sec. d.C. La figura, stante, a tutto tondo, porta una veste trasparente fissata da una cintura annodata sui fianchi e uno scialle avvolto intorno alla spalla sinistra, le cui pieghe scendono lungo il fianco. Il trattamento iconografico e il modellato presentano strette affinità con immagini analoghe dell'area gangetica.
Uno degli esemplari più rappresentativi di questa prima fase scultorea è la stele con Gaja Lakṣmī da Chyasal Toi (Patan), la più antica raffigurazione di questo genere conosciuta in Nepal. L'immagine, rigidamente frontale, stante, con larghi fianchi e ampio seno, è bilanciata dal braccio destro ripiegato con la mano che tiene un loto e dallo scialle che ricade in diagonale intorno ai fianchi sulla veste trasparente. Due devoti ai piedi della dea fanno da contrappunto agli elefanti posti su due loti sopra la dea, nell'atto di aspergerla con le acque lustrali. L'iconografia, la composizione volumetrica, le pesanti cavigliere, i grandi orecchini e la capigliatura - elementi caratteristici dello stile di Mathurā del periodo kuṣāṇa - suggeriscono una datazione intorno al II secolo.
A giudicare dalle numerose attestazioni (da Harigaon, Deopatan, Chabahil, Kirtipur, Patan, Balkhu, Balaju, ecc.), il culto delle dee madri (Matṛkā, v.), accanto a quello di Hāritī - generalmente raffigurate assise all'europea, con grandi cavigliere, e come nel caso di Hāritī con un bambino in braccio - era particolarmente diffuso nella Valle, tra il II e il V secolo.
Una scultura rinvenuta a Mṛgasthali, variamente interpretata come raffigurante un ritratto regale, una divinità solare, Kṛṣna o Āditya Viṣṇu, e datata intorno al IV sec., denota i tratti caratteristici del passaggio da un influsso stilistico kuṣāṇa a quello gupta. L'immagine stante, adorna di gioielli e nimbata presenta una fisionomia caratterizzata dai tratti locali e larghe spalle. Delle mani all'altezza dei fianchi, la sinistra tiene lo scialle che forma una linea semicircolare sulle gambe, e la destra compie un gesto non identificato che forse allude alla conchiglia di Viṣṇu. La corona-turbante, simile a un diadema in tre elementi con un makara in quello centrale, riflette l'influsso gupta.
In una piccola cappella nei pressi del tempio di Paśupatināth si trova la raffigurazione di una divinità solare (altrimenti interpretata anche questa come un ritratto regale); in questa scultura si possono scorgere quegli elementi di ispirazione gupta (p.es. il trattamento della capigliatura) che saranno rielaborati nella grande statuaria del VI-VII secolo. La divinità, seduta all'occidentale con le mani poggiate sulle ginocchia, è caratterizzata da un alone radiato e dall'espressione sorridente; i compatti volumi plastici sono ammorbiditi dalla resa dell'abbigliamento.
Infine una complessa benché apparentemente semplice iconografia, sulla cui identificazione sono state avanzate diverse ipotesi (Vāruṇa, Nāga, Kumbhayoni, ecc.), è documentata da una scultura, rinvenuta nei pressi di Harigaon, rappresentante un vaso da cui sporge una testa antropomorfa sovrastata da un cappuccio di cobra. Delle mani, che sporgono dall'orlo, la sinistra regge un rosario e la destra un gioiello. Questa scultura può essere confrontata con la precedente per la resa stilistica dei tratti fisiognomici, ed è databile al IV-V secolo.
Intorno alla seconda metà del V sec. si osserva una maggiore padronanza nel modellato delle figure umane e un maggior equilibrio formale anche nelle composizioni più sofisticate. Esemplificative sono due stele commissionate da Mānadeva in onore della madre, datate al 467, ambedue raffiguranti Visnu Trivikrama, che attraversa l'universo con tre passi e soggioga Bali, il re dei demoni. Sono queste le più antiche immagini datate dell'arte nepalese e le prime attestazioni di questa iconografia nel mondo indiano; una proviene da Lazimpat, ed è conservata al Museo Nazionale, l'altra si trova a Tilganga nei pressi di Paśupatināth. La prima, che riflette una maggiore maturità compositiva, presenta una divisione in due triangoli lungo la diagonale formata dalle gambe divaricate del dio, stante al centro: i suoi attributi e gli accoliti nella metà superiore, celeste, a cui si contrappone la metà degli inferi con i personaggi legati a Bali. È possibile che queste raffigurazioni, similmente al panegirico di Changu Nārāyaṇa, vogliano affermare la sovranità del giovane Mānadeva e la sua emancipazione dai Gupta.
La più antica immagine di Brahmā, rinvenuta a Chapagaon e risalente al V-VI sec., ritrae il dio con tre teste, di cui quella centrale ornata da una corona con siṃhamukha (testa di leone) e quelle laterali acconciate a ciocche regolari, seduto a gambe incrociate su un trono di loto con schienale decorato con makara, tiene una pelle di antilope intorno alla spalla sinistra al posto del cordone sacro e nelle mani il rosario e la fiasca col nettare dell'immortalità. Sul piedistallo, tra i due attendenti o devoti si trova un'iscrizione senza data.
Nella stessa cappella del personaggio solare assiso, si trova, tuttora semi-interrata, l'immagine itifallica di Śiva Virupākṣa, caratterizzata dalla capigliatura a treccine regolari, dal terzo occhio verticale e da pesanti orecchini. Queste ultime due sculture, pur recependo i dettami stilistici gupta, sono ancora legate a una concezione arcaica di volumi compatti.
Altri soggetti scivaiti sono ampiamente attestati, come p.es. i liṅga (v.), di cui forse il più rappresentativo è l’ekamukhaliṅga di Paśupatināth del V sec. che riflette gli analoghi esemplari dell'India gupta; oppure i rilievi, i più antichi del mondo indiano, con Umāmaheśvara, raffiguranti cioè la coppia divina Umā-Śiva, assisa sul monte Kailāśa.
Altrettanto diffuse intorno al VI sec. sono le sculture buddhiste: accanto alle immagini del Buddha, del Bodhisattva Avalokiteśvara e di triadi, sono documentati piccoli stūpa votivi con numerose nicchie (private in seguito delle immagini a causa della reazione anti-buddhista), ed «edicole» con raffigurazioni di Buddha e Bodhisattva sui quattro lati, riccamente decorate.
Nel corso del VII sec. si assiste a una grandiosa produzione artistica; gli elementi della scultura gupta sono reinterpretati a misura di un gusto originale che si manifesta in un formalismo più maturo e in composizioni che prediligono il gigantismo e la monumentalità. L'artista che ha creato l'immmagine dell'avatara di Viṣṇu Varāha a Dhumvarahi si rifà palesemente a modelli gupta (come p.es. la grotta del Varāha a Udayagiri), riuscendo a infondere all'opera una particolare vitalità, nella posizione stante, con le gambe ripiegate del dio, sul serpente Śeṣa, nel contrappunto delle braccia, e nella testa di cinghiale affusolata. In relazione allo stesso ambiente artistico che produsse il Varāha è una monumentale raffigurazione di Kṛṣṇa Kāliyadamana (che sottomette il nāga Kāliya), conservata in un cortile del palazzo reale di Kathmandu. Il feroce nāga, le cui spire, sapientemente intrecciate a quelle delle sue consorti, somigliano a una montagna, osserva impotente il fanciullo che lo sta soggiogando colpendolo con una sciarpa mentre danza sulla sua testa.
Il gigantismo scultoreo sembra riflettere il desiderio di alcuni sovrani (o di alti feudatarî) di farsi immortalare come le divinità stesse; è forse questo il caso di un'immagine di Viṣṇu affiancato dalle personificazioni dei suoi attributi, a Mṛgasthali, interpretabile come raffigurante Viṣṇugupta e i suoi figlioli. Pare che anche il grande Viṣṅu disteso sul serpente cosmico Śeṣa, che si trova a Buḍhanīlakantha, sia dovuto alla committenza di Viṣṇugupta. L'immagine di Garuḍa di fronte al tempio di Changu Nārāyana, interpretata da alcuni studiosi come un ritratto del re Mānadeva è invece posteriore all'epoca di Mānadeva, e va probabilmente ascritta alla stessa corrente del VII sec. caratterizzata dal gigantismo.
Mustang e regioni occidentali. - Dopo le pionieristiche ricerche compiute da G. Tucci tra gli anni '30 e '50, vanno segnalate le attività di ricognizione e scavo di una missione germano-nepalese, a partire dal 1990 nel Mustang.
Le prime indagini sono state condotte in un complesso rupestre, nei pressi di Muktināth, composto da grotte dislocate a diverse quote su una parete rocciosa lungo la sponda settentrionale del fiume Dzong. Le grotte erano articolate in più ambienti separati da strutture in mattoni crudi e adibiti a funzioni diverse (cucina, deposito granaglie e abitazioni).
La cronologia, stabilita anche in base ad analisi al radiocarbonio, può essere preliminarmente suddivisa in due grandi periodi: dalla preistoria tibetana (c.a III sec. a.C.) fino circa all'800 d.C.; in questo periodo le grotte erano frequentate da popolazioni agricole e, successivamente, dal periodo altomedievale fino circa al XVI sec. d.C., anche da eremiti buddhisti.
Nel 1991 sono stati scavati a Khingar, nei pressi del complesso rupestre, sulla sponda meridionale del fiume Dzong, i ruderi di un castello che ha fornito resti pertinenti a epoca medievale.
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