NEOPOSITIVISMO (App. III, 11, p. 235)
R. Carnap e l'eredità del positivismo logico. - Il n. nel senso stretto della parola (come, cioè, quel movimento di logica e filosofia della scienza che si è sviluppato a Vienna intorno agli anni Trenta, e che è legato principalmente ai nomi di M. Schlick, R. Carnap, Ph. Frank, O. Neurath e H. Reichenbach) può considerarsi praticamente esaurito. Bisogna però fare subito due precisazioni: in primo luogo può dirsi che il n. (o "empirismo logico" come, in questa accezione, viene assai spesso qualificato) - col suo programma di analisi logica del linguaggio scientifico, con la sua elaborazione della sintassi e della semantica, con la sua maniera d'impostare lo studio delle teorie scientifiche - ha assolto il suo compito storico creando una nuova coscienza epistemologica ma rivelando anche la sua unilateralità e i suoi limiti, e alimentando forme autonome di analisi e filosofia della scienza. In secondo luogo deve notarsi che il n., malgrado il grande rilievo assunto nel campo della filosofia della scienza, ha rappresentato solo una delle correnti della più vasta filosofia analitica, la quale ha fatto consistere il compito essenziale della filosofia nell'analisi del linguaggio in generale, senza predeterminare in alcun modo l'ambito, gli scopi o le tecniche di questa analisi. Noi cercheremo di riassumere gli sviluppi che più direttamente possono collegarsi allo spirito del n. originario (lasciando da parte gli sviluppi più tecnici attinenti soprattutto alla logica induttiva), e di chiarire le ragioni che hanno indotto L. Wittgenstein ad abbandonare la tematica logica del Tractatus logico-philosophicus e a spostare la sua attenzione sull'analisi del linguaggio ordinario, che doveva caratterizzare in maniera assai feconda e decisiva tutte le correnti della filosofia analitica (o "filosofia linguistica") dominanti il pensiero inglese.
È ben noto che i neopositivisti sono stati i primi a riconoscere il carattere astratto e artificiale delle loro costruzioni teoriche (concernenti espressamente la struttura e il funzionamento di linguaggi ideali), sono stati sensibili alle critiche esterne e si sono sottoposti, essi per primi, a un diuturno processo di autocritica, che li ha portati a revisionare continuamente le loro posizioni. In tal senso si è parlato di un processo di "liberalizzazione dell'empirismo" a cui lo stesso Carnap dedica un capitolo centrale della sua Autobiografia intellettuale che costituisce la prima parte della grande opera a lui dedicata, The philosophy of Rudolf Carnap (1963), edita a cura di P. A. Schilpp nella collana Living Philosophers. È così che il principio di verificabilità (che doveva servire di criterio per stabilire il significato delle proposizioni) è stato allargato, che la polemica antimetafisica si è fortemente attenuata, che le richieste avanzate per l'accettazione e la conferma delle teorie sono state formulate in forme nuove.
Sennonché, malgrado l'importanza di questi contributi logici, la filosofia neopositivistica della scienza ha continuato a essere sottoposta a riserve e a critiche, che sono dovute soprattutto al fatto di concepire le teorie scientifiche come "sistemi assiomatici interpretati". È questo, come osserva D. Shapere nel saggio Toward a postpositivistic interpretation of science (nel vol. The legacy of logical positivism, a cura di P. Achinstein e St. Barker, 1969, pp. 128, 155), l'"errore" iniziale dei neopositivisti: "Modellando così gran parte del loro approccio alla filosofia della scienza sulla logica matematica, [essi] parlavano dei nessi correlanti termini teorici e termini di osservazione ('definizioni di coordinazione', 'regole di interpretazione', 'regole di corrispondenza' ecc.) come se fossero analoghi alla interpretazione di un sistema formale in matematica e in logica". Questa critica (che non esclude affatto quella che è stata l'importanza storica dell'approccio) sembra assai giusta perché i due passaggi dei sistemi formali alla loro interpretazione semantica e poi da questa alla questione della giustificazione (verificazione, falsificabilità, conferma) delle teorie comportano una quantità di altri problemi pratici che non s'incontrano nelle teorie matematiche. La distinzione fra una parte teorica e una parte osservativa in fisica va incontro a una difficoltà fondamentale, perché le osservazioni non possono verificare o falsificare dall'esterno le proposizioni teoriche, in quanto sono proprio esse per prime condizionate e intrise di presupposti teorici, e la psicologia della percezione è straordinariamente complessa. Non può escludersi il pericolo di circoli viziosi, nel senso che non è l'osservazione a confermare la teoria, ma la teoria a condizionare l'osservazione. I processi d'idealizzazione in fisica (per es. la nozione di corpo rigido) non possono venir sufficientemente chiariti dal punto di vista logico e analogamente il problema dell'esistenza delle entità teoriche (per es. gli elettroni) non direttamente osservabili si pone in un orizzonte culturale e implica un contesto di riferimenti pragmatici che non rientrano nel quadro metodologico del n. classico.
Neopositivismo e pragmatismo: influssi e trasformazione del neopositivismo nella filosofia americana. - Il n. ha trovato in America un ambiente in cui svilupparsi, assai favorevole a causa del terreno culturale costituito dal pragmatismo, e quindi da una congenialità di motivi, quali in primo luogo l'esigenza della chiarezza e l'interesse per il linguaggio e per la scienza. Ma per quanto il pensiero di Carnap, a prescindere anche dal processo di liberalizzazione dell'empirismo, sia caratterizzato da un passaggio dalla sintassi alla semantica, e in linea di principio egli abbia espressamente riconosciuto che "la pragmatica costituisce la base di tutta l'analisi del linguaggio", sussiste tuttavia una differenza di fondo fra l'orientamento decisamente matematizzante del n. e l'orientamento biologico del pragmatismo; ragion per cui non deve stupire constatare una reazione di ritorno o una specie di contraccolpo (che contempla l'esercizio concreto e il contesto sociale del linguaggio) sulla sintassi e sulla stessa semantica formale costruita da Carnap, che studia il linguaggio astrattamente (basandosi sulla costruzione di linguaggi artificiali) e prescindendo da ogni considerazione diretta degli utenti del linguaggio stesso. La manifestazione più importante di questa particolare reazione del pragmatismo sul n. è rappresentata dalla filosofia del linguaggio di W. v. O. Quine il quale, pur essendo un logico matematico, si rifiuta di considerare il linguaggio come un insieme di segni e parte invece da una concezione per così dire "olistica", che vede il linguaggio profondamente radicato nella realtà e nella vita, e come un insieme di enunciati strettamente intrecciati fra loro e in intimo nesso con gli stimoli sensoriali e le occasioni sociali che li hanno provocati. Come egli stesso scrive nella sua opera più importante e sistematica, Word and object (1960): "Il linguaggio è un'arte sociale. Nell'acquisirlo dobbiamo basarci soltanto su indizi intersoggettivamente disponibili relativi a quello che dobbiamo dire e al momento in cui dobbiamo dirlo. Perciò una collazione di significati linguistici è giustificabile soltanto in termini di disposizioni degli uomini a rispondere apertamente a stimolazioni direttamente osservabili". E ancora, come egli scrive altrove (nel vol. The ways of paradox and other essays, 1966): "Il materiale linguistico è un sistema interconnesso che è allacciato qua e là all'esperienza; non è un'associazione di termini e di asserzioni stabiliti separatamente, ognuno con la sua separata definizione empirica". E come il linguaggio, così anche la scienza va vista in maniera unitaria, "come un unico sistema che si dilata, in alcune parti connesso in modo vago, ma in nessuna parte privo di connessioni. Alcune parti di esso - la logica, l'aritmetica, la teoria dei giochi, le parti teoriche della fisica - sono più lontane di altre dal bordo osservativo e sperimentale. Ma il sistema nel suo complesso, in tutte le sue parti, trae la somma del suo contenuto empirico da quel bordo, e le parti teoriche hanno un valore solo in quanto contribuiscono, più o meno direttamente, alla sistemazione di quel contenuto". In una simile prospettiva ben si comprende la critica che ha fatto Quine della rigida dicotomia tra giudizi analitici (la cui verità dipende solo dal significato dei termini) e sintetici (la cui verità dipende invece dall'esperienza), e inoltre la critica dell'atomismo logico e del riduzionismo empiristico, tutti cioè i caposaldi dell'analisi del linguaggio di tipo neopositivistico: ciò che solo può ammettersi è che i cosiddetti giudizi analitici (che costituiscono il corpo della logica e della matematica) costituiscono il nucleo più intimo, e quindi relativamente più stabile e indipendente, della totalità fluttuante del linguaggio rispetto alla periferia dell'esperienza, senza che ciò possa autorizzare a introdurre rigide dicotomie.
Ma vi è un altro aspetto della filosofia di Quine che è di grande rilievo, che marca la sua differenza dal n. di Carnap: egli si pone continuamente la questione ontologica (l'interrogazione "che cosa c'è?", quali sono le entità di cui asserire l'esistenza) e chiede quindi di precisare i presupposti e l'impegno ontologico delle nostre espressioni o asserzioni logico-linguistiche. Egli rovescia in questo modo l'orientamento metodologico di Carnap, consistente nel trasformare le questioni ontologiche in questioni linguistiche (mediante l'adozione di un modo formale di parlare) eludendo in questo modo le alternative tradizionali e riducendo i problemi metafisici a pseudoproblemi, per ripristinare invece proprio la legittimità e la necessità delle questioni ontologiche che, lungi dal poter essere neutralizzate o eluse, si trovano alla base del linguaggio. Questo vuol dire che mentre per Carnap (col suo principio di tolleranza) la via della riflessione - una volta stabilita l'equivalenza - porta all'indagine delle motivazioni psicologiche che stanno alla base delle varie scelte linguistiche, per Quine le scelte linguistiche (data un'intraducibilità di fondo) comportano sempre delle precise asserzioni ontologiche, sulle entità menzionate nelle espressioni. Quine riapre così, a suo modo, il problema degli universali: egli vede dovunque il pericolo del platonismo (della ipostatizzazione di entità astratte), dell'intellettualismo, del mentalismo, e passa a una drastica critica delle proposizioni (come una duplicazione degli enunciati da soli sufficienti alla costruzione di una teoria logica), dei significati (che rappresenterebbero, nel modo corrente in cui se ne parla, una pallida ombra e surrogato delle essenze platoniche, o delle inafferrabili costruzioni mentali la cui esistenza sarebbe in effetti impossibile meglio determinare), delle attitudini proposizionali (credere o dubitare), e delle nozioni modali (possibile e necessario). Da questo punto di vista la filosofia di Quine presenta un aspetto distruttivo e assume un carattere marcatamente nominalistico (in contrasto col presunto platonismo di Carnap).
Sennonché anche queste critiche e queste polemiche vanno interpretate nel quadro di quella concezione strettamente behavioristica della scienza e del linguaggio di cui si è parlato agl'inizi. In particolare la critica della dicotomia tra giudizi analitici e sintetici è solo l'indice di un più vasto programma di riforma semantica (enunciato già sinteticamente nel saggio Le mythe de la signification) che tende a criticare la terminologia logica tradizionale e la validità degli strumenti concettuali con cui, fin dai tempi di B. Russell, si era impostata l'analisi del linguaggio. Da una tale impostazione behavioristica procede l'arduo compito (intrapreso soprattutto in Word and object) di costruire un'alternativa e cioè non solo di spiegare la genesi e il concreto funzionamento del linguaggio ordinario o di quello scientifico, ma di ricostruire rigorosamente e coerentemente tutto l'edificio della logica e della matematica. In questo modo, egli arriva alla determinazione di una "notazione canonica" (che è in fondo il corrispondente del "linguaggio ideale" del primo n.), riconosciuto dall'autore stesso come particolarmente "austero", risultato di tutte le critiche e reinterpretazioni precedenti e pienamente rispondente alle esigenze metodologiche proprie dello spirito scientifico. Questo libro, d'indubbia genialità, è stato ampiamente discusso, soprattutto nell'opera collettiva Words and objections, Essays in the work of W. v. O. Quine (Dordrecht 1969). Non deve comunque tacersi che Quine con le sue critiche (che si riassumono in quello che egli stesso chiama "fuga dall'intensionalità") ha fortemente contribuito a una rielaborazione della logica matematica tradizionale, ribadendo la tesi della estensionalità e quindi una ricostruzione sistematica della stessa logica matematica sulla base della teoria degl'insiemi.
Abbiamo già notato come Quine rappresenti la più importante reazione del pragmatismo americano al n. (o forse, più esattamente, la forma assunta dal n. per effetto della reazione della pragmatica sulla sintassi), e come reintegri i problemi ontologici che la "svolta linguistica" aveva voluto espungere. Sennonché, una volta in quest'ordine d'idee, non deve meravigliare che l'opera di Quine possa essere criticata come scientismo, e che una più aperta e sistematica discussione dei rapporti fra linguaggio e realtà, fra scienza e filosofia, venga a imporsi: ed è questo quanto si trova nelle opere di G. Bergmann (oriundo tedesco, stabilito negli Stati Uniti), Existence and meaning (1960), Logic and reality (1964), nelle quali si riprende in effetti, in stretto rapporto con l'interpretazione del ruolo dei linguaggi ideali in filosofia, la problematica filosofica tradizionale, e si tende a dimostrare come - per un'adeguata comprensione dei linguaggi - non basti la reintroduzione pragmatistica degli utenti del linguaggio, ma necessariamente debbano prendersi in considerazione gli atti e le intenzioni del soggetto, secondo esigenze già fatte valere dalla fenomenologia husserliana. Per la sua critica del realismo che, tramite le astrazioni del linguaggio e con la complicità della stessa logica formale, s'introduce nella nostra concezione della conoscenza, un altro pensatore americano, N. Goodman, appare invece molto vicino a Quine, al quale viene spesso accomunato sotto la generica qualifica di nominalismo. Ma la sua posizione è caratterizzata piuttosto da un marcato relativismo gnoseologico, messo a fuoco nella sua opera, Fact, fiction and forecast (1955), che può ben riassumersi nella tesi esplicitata nel saggio The way the world is (in Review of metaphysics, 1960) secondo cui il "mondo è in tanti modi in cui può essere veracemente descritto, visto, raffigurato, e che non esiste pertanto qualcosa come il modo in cui il mondo è". Sennonché mentre la filosofia di Quine evolve verso la ricerca di una "notazione canonica" logicamente rigorosa, Goodman è invece portato (con una chiara tendenza fenomenologica peraltro non dichiarata) verso un'esplorazione di tutte le forme linguistiche verbali e non verbali, come si vede nella sua opera Languages of art (1968), che rappresenta a suo modo un altro esempio degli sbocchi possibili della riflessione analitica sul linguaggio. Come lo stesso Goodman nota, di fronte all'attuale espandersi delle indagini nel campo della linguistica strutturale, si accentua sempre più il bisogno di un accurato esame dei sistemi simbolici non verbali, proprio al fine dell'approfondimento critico di quei problemi della denotazione e del riferimento che tanta importanza hanno avuto nella problematica del neopositivismo.
Sennonché, l'eredità più diretta del pensiero e dell'insegnamento di Carnap si coglie piuttosto in studiosi come Hintikka e Bar Hillel, che hanno sviluppato la semantica formale di Carnap nella direzione della linguistica matematica, della teoria dei giochi e della teoria dell'informazione. Ciò è visibile nell'opera di Y. Bar Hillel, Language and information (1964), e risulta in maniera anche più organica nell'opera di J. Hintikka, Logic, language games and information (1973), nella quale si vede proprio come l'impostazione metodologica della semantica logica di Carnap (sia pure con le indispensabili revisioni) porti all'elaborazione più corretta del concetto d'informazione semantica. La considerazione degli "stati di cose" (situazioni o "mondi possibili") porta a individuare - attraverso la determinazione delle possibilità escluse - il contenuto informativo degli enunciati, se l'informazione è caratterizzata proprio dall'ambito delle possibilità che restano dopo l'esclusione dei casi che non possono verificarsi (motivo questo nel quale si può vedere uno sviluppo nel concetto di falsificazione fatto valere già da decenni nell'epistemologia di K. Popper). Nei confronti della critica della dicotomia tra giudizi analitici e sintetici e dello "scetticismo verso l'analiticità" proclamato da Quine, appare assai rilevante per il suo equilibrio e rigore la distinzione di ben dodici sensi di analiticità fatta da Hintikka. Questo permette di dissipare una quantità di equivoci che si erano insinuati nell'annosa polemica relativa alla dicotomia suddetta e permette di enucleare l'esigenza valida che era presente nella concezione dei giudizi sintetici a priori e in genere nella filosofia della matematica di Kant. In effetti appare indispensabile una distinzione fra informazione superficiale e informazione profonda degli enunciati (che non è senza analogie con la distinzione tra struttura superficiale e strutture profonde della grammatica generativa di N. Chomsky), e tale distinzione tra vari livelli dell'informazione può servire come base per una distinzione tra vari tipi di enunciati: un'informazione profonda, sia pure implicita nella struttura della lingua, ma che non può diventare esplicita che attraverso complesse e peculiari manipolazioni logiche, può ben apparire di carattere sintetico a priori distinguendosi così dalle semplici tautologie. Un altro importante contributo di Hintikka è la sua interpretazione dei quantificatori (cioè degli operatori logici che appaiono nel linguaggio sotto la forma di "esistono alcuni " o "tutti"): da un punto di vista informazionale, questi quantificatori contengono l'indicazione di aver trovato in qualche modo la risposta a un'attività di ricerca; vengono così ricondotti ai giochi di "cercare e trovare" e possono così venire interpretati formalmente nel senso tecnico della "teoria dei giochi". Questo punto di vista, che presuppone certamente la nozione di misura dell'informazione, presenta - oltre all'interesse logico - un particolare interesse per la sua analogia con la concezione di un'attività esploratoria dei sensi, che condiziona il processo percettivo e ha la sua radice biologica nella struttura neurale del cervello. Lo stesso Hintikka si riporta, in quest'ordine d'idee, all'opera di J. von Neumann, The computer and the brain (1958), che segna una data per la convergenza e la confluenza degli studi logicomatematici con quelli neurologici, in stretto rapporto con lo sviluppo della cibernetica. Non può negarsi comunque che Hintikka, evidenziando il nesso esistente fra i giochi linguistici della logica formale e i "giochi di esplorare il mondo", abbia colmato una lacuna concernente la spiegazione dei rapporti tra logica ed esperienza (assolvendo in questo modo un compito che egli stesso assimila alla logica trascendentale di Kant), e mette in luce l'inseparabilità tra informazione concettuale e informazione fattuale la cui rigida distinzione era invece uno dei presupposti del n. viennese.
La nuova semantica di Wittgenstein. - Mentre il pensiero americano, pur nella sua ricchezza, si sviluppa soprattutto sulla base dell'eredità congiunta del n. e del pragmatismo, la vera svolta della filosofia analitica si opera in Inghilterra, per effetto dell'insegnamento orale di L. Wittgenstein a Cambridge e poi della pubblicazione delle sue opere, tra cui in primo luogo le Philosophical investigations (1953), e poi The blue and browm books (1958). Ora, per quanto non si debba mai perdere di vista l'unità storico-culturale e motivazionale della filosofia analitica, e anche la continuità tematica del pensiero di Wittgenstein, può essere opportuno (soprattutto in un'esposizione così schematica come la presente) parlare di un "secondo Wittgenstein", e altresì di un nuovo inizio della stessa filosofia analitica. In realtà, ciò che caratterizza la seconda fase della riflessione di Wittgenstein sul linguaggio - sia pur maturata attraverso un processo di autocritica del Tractatus - è proprio il ripudio del programma di un'analisi logica del linguaggio, basato sull'applicazione sistematica della logica matematica e condotto dal punto di vista di un linguaggio ideale, costruito in conformità a precise esigenze metodologiche ed epistemologiche. Sono queste premesse (che hanno assicurato al n. viennese il suo successo nell'area della filosofia della scienza) che rendono sviante e arbitrariamente riduzionistico un tale tipo di analisi, mentre le nuove istanze di Wittgenstein sono rappresentate proprio dall'esigenza di una più completa "filosofia del linguaggio", conseguita attraverso un' "immersione" nella realtà concreta e vissuta del linguaggio, ai fini di una più approfondita comprensione del suo funzionamento, delle sue funzioni e delle sue motivazioni. Al prevalere dell'interesse analitico per i linguaggi ideali, artificialmente costruiti, ma necessariamente astratti, subentra l'interesse per la comprensione del linguaggio ordinario (del linguaggio, cioè, concretamente usato e parlato nella comunità dei parlanti) con fini soprattutto descrittivi ed ermeneutici: alla povertà voluta dell'astrazione si contrappone la ricchezza della descrizione, fermi restando i fini della chiarezza e della comunicazione, ma con l'intento di esplorare i presupposti taciti del linguaggio comune, le sue distinzioni e sfumature, al di fuori dell'armatura o della regolamentazione logica, delle preoccupazioni scientifiche, per cogliere anzi (avendo come termine di riferimento il linguaggio comune) la genesi stessa della logica e la germinazione della problematica filosofica.
Questa restaurazione del linguaggio ordinario come oggetto di analisi (con uno spirito di diffidenza, non lontano da quello che anima la fenomenologia, nei confronti della logica) è di grande momento. Se la logica procede necessariamente (e per scopi ben determinati) introducendo delle rigide distinzioni, e ponendosi in atteggiamento mentale astratto e oggettivistico, essa non può costituire (come credeva Russell) lo strumento più adeguato per analizzare, descrivere, comprendere, esplorare il linguaggio, che è un'attività sociale per eccellenza, condizionata da una grande molteplicità di fattori che si situano a diversi livelli e interferiscono fra loro. Il fulcro di questa nuova impostazione dell'analisi è la nozione di "giochi linguistici", in base a cui è possibile considerare il linguaggio nella sua dimensione sociale, nel suo uso concreto che reintegra appunto la personalità dei parlanti e quella funzione comunicativa di scambi o di messaggi e di informazioni che era stato obliterato nel primitivo modello oggettivistico e scientifico di analisi. Il significato delle espressioni non va più cercato nella trama sintattica delle sue relazioni logiche, e neppure nel riferimento più o meno diretto all'esperienza, ma nell'uso che se ne fa nelle situazioni concrete in cui l'espressione stessa viene usata e applicata. Da qui lo slogan: "non cercate il significato, cercate l'uso", che implica un nuovo orientamento nell'analisi del significato, un nuovo criterio che enuclei in primo luogo le circostanze di applicazione dei termini, quindi le occasioni e le motivazioni che si trovano alla base degli enunciati, e infine le regole e convenzioni che disciplinano lo scambio dei messaggi e rendono possibile la comunicazione. In tal modo, grazie a questa relativizzazione della concezione tradizionale del linguaggio, anche la nozione di "concetto" ne risulta relativizzata e storicizzata, e sostituita dalla nozione di una "famiglia di concetti" che tenga conto del nesso che pur tuttavia persiste nella varietà degli usi e delle circostanze particolari di applicazione. Sennonché, la conseguenza più importante del nuovo approccio analitico è la critica dei linguaggi privati, cioè del tacito solipsismo che era il presupposto della concezione dei rapporti fra linguaggio e realtà. Dal punto di vista originario la proposizione "egli sente dolore" non è mai definitivamente verificabile o falsificabile, e dovrebbe apparire "priva di senso"; ma dal nuovo punto di vista anche la proposizione "io sento dolore" perde ogni senso, se si prescinde da un orizzonte interpersonale di riferimento e se si resta sul piano "dello pseudolinguaggio dei cartesiani e degli empiristi tradizionali". Com'è stato osservato, il nuovo orientamento della semantica del secondo Wittgenstein consiste in una specie di "principio di giustizia naturale epistemologica: per lo scettico, la tradizionale bête noire della credenza postcartesiana, una credenza è colpevole fino a che non è dimostrata innocente. Per Wittgenstein, una credenza sufficientemente motivata dai criteri della sua applicazione è innocente fino a che non è provata colpevole" (P. Hacker, Insight and illusion, 1972, pp. 277, 303); questa è la premessa decisiva o almeno la decisione epistemologica che conferisce un nuovo orientamento alla filosofia analitica e che, anche senza risolvere i problemi, consente almeno una nuova elaborazione della problematica filosofica.
La filosofia del secondo Wittgenstein presenta motivi di grande interesse anche se non sempre del tutto espliciti e conciliati fra loro, ma affioranti dalle sue opere. Anzitutto, emerge una difesa del senso comune, che ricorda la filosofia del senso comune di G. E. Moore, e tende a preservare intatta la concretezza e la spontaneità della vita ordinaria, senza interferenze riduttrici di tipo scientifico (che portano ad altri livelli conoscitivi di quelli in cui di fatto funziona il linguaggio ordinario) né problematizzazioni di tipo filosofico. In secondo luogo, l'analisi mette alla prova l'insieme di abitudini logico-linguistiche che sono ormai incorporate nella nostra coscienza linguistica, e che rimandano storicamente all'essenzialismo platonico, all'intellettualismo aristotelico, e al dualismo cartesiano con le sue conseguenze solipsistiche. Il linguaggio odierno è ugualmente lontano dalle riduzioni scientifiche, dai dubbi e dalle assolutizzazioni filosofiche, e ha una vita propria abbastanza efficiente nel contesto della nostra comunità linguistica; ma il contrasto tra la forma e la vita (per usare una distinzione messa in voga da G. Simmel) è la fonte d'innumerevoli problemi e difficoltà che si rivelano anche a livello linguistico. Si è parlato, a proposito di Wittgenstein, di una "deplatonizzazione" della filosofia, ed è in lui costante la tendenza a contrapporre la profondità della convenzione alla profondità dell'essenza (come egli stesso ha scritto nelle sue Remarks on the foundations of mathematics, I, 74), ma si tratta di accenni che non trovano mai una trattazione organica. In terzo luogo, l'attenzione portata da Wittgenstein alle "forme di vita", esprime non solo il suo relativismo, e l'aspetto fenomenologico del suo pensiero, ma tradisce anche il suo disagio interiore e la ricerca di forme di vita nuove e più soddisfacenti. I numerosi scritti di Wittgenstein concernenti la morale e la religione sono orientati proprio in questo senso, come anche il suo documentato interesse per l'etnologia e per la psicoanalisi, che contribuisce a dimostrare l'importanza, anche se solo potenziale, e l'innegabile apertura della sua filosofia del linguaggio.
Sviluppi della filosofia linguistica in Inghilterra. - Abbiamo già accennato all'immenso influsso esercitato dal secondo Wittgenstein sulla filosofia inglese contemporanea, la quale viene spesso qualificata (per distinguerla dal n.) "filosofia del linguaggio ordinario" o anche "filosofia linguistica". Tale influsso, determinante per l'evoluzione della filosofia inglese negli ultimi decenni, può misurarsi - per così dire - in ragione a un progressivo allontanamento da Russell e a una certa ripresa di motivi già presenti in Moore. Il punto decisivo di questa svolta è l'assunzione di un nuovo atteggiamento verso il linguaggio, o più esattamente l'assunzione del linguaggio ordinario a specifico oggetto di analisi, e la contemporanea critica della logica matematica quale strumento idoneo per tale analisi; è implicita in ciò una certa difesa del nucleo di credenze realistiche del senso comune (che costituiscono l'orizzonte di sicurezza e la piattaforma indispensabile del nostro vivere quotidiano), una reazione contro le tendenze riduzionistiche operanti nella scienza, nonché contro le tendenze soggettivistiche e scettiche presenti nella gnoseologia empiristica. Il linguaggio ordinario (un po' come la "casa dell'Essere", per usare liberamente di un'efficace espressione di M. Heidegger) va difeso contro questi assalti e pericoli, va analizzato nelle sue sottigliezze, esplorato nelle sue ricchezze, ripristinato nella sua spontaneità e freschezza, ma non deve pensarsi per questo che esso sia "intoccabile", perché va anzi corretto contro abitudini, interpretazioni, sedimentazioni culturali che si sono insinuate in esso e molte volte lo costringono e ne compromettono l'uso. Non è la logica che deve analizzare il linguaggio, ma è l'accurata e spregiudicata osservazione del linguaggio che deve in certo modo spiegare la logica, la quale comporta un'astrazione e un'idealizzazione, che mentre da un lato definiscono e forniscono le regole del funzionamento corretto del linguaggio, rappresentano d'altro lato un'armatura troppo stretta per il libero esercizio del pensiero e per l'elaborazione concettuale dell'esperienza: ciò è già avvenuto per la logica aristotelica, ma torna a ripetersi per la logica matematica di Russell la quale, pur avendo espletato una funzione storica innegabile e indispensabile e conservando (pur con tutte le sue inevitabili trasformazioni) il suo innegabile valore tecnico, appare tuttavia inadeguata e sviante ai fini dei nuovi bisogni dell'analisi del linguaggio.
Nell'impossibilità di fornire un quadro esauriente dell'odierna filosofia linguistica, ci limiteremo a brevi cenni. In primo luogo conviene sempre rifarsi all'opera di G. Ryle, The concept of mind, che, benché edita nel 1949, può servire sempre come utile punto di riferimento per gli sviluppi successivi. Ryle analizza l'uso concreto, e contestuale, dei termini concernenti qualità mentali: noi diciamo per es. correntemente che un clown è intelligente; sennonché se noi pensiamo al "perché" della nostra asserzione, chiediamo cioè di giustificare e spiegare l'attribuzione di quella qualità mentale a un certo individuo, subito subentra (a causa della nostra eredità culturale) la propensione a dare una risposta di tipo dualistico, implicante l'esistenza di una qualità mentale, interna dell'individuo e a noi inaccessibile, come causa di quel comportamento intelligente che in realtà solo osserviamo. Lo slogan "il significato è l'uso" apre una serie di nuovi quesiti, nel senso che la spiegazione teorica dell'uso è fornita in base a una serie di presupposti ontologici e d'interpretazioni filosofiche che in realtà non collimano necessariamente con la semplice descrizione dell'uso stesso (della circostanza concreta in cui, osservando il comportamento di un clown, asseriamo la sua abilità): e cioè, in questo caso, in base al riferimento a una mente distinta dal corpo e causa invisibile del comportamento osservato. Ora è proprio questo tipo di risposte (ispirate a quello che Ryle chiama il "mito dello spettro nella macchina" e che è di chiara derivazione cartesiana) che genera una serie di difficoltà e di problemi insolubili, e apre le porte allo scetticismo e al solipsismo che insidiano continuamente la filosofia moderna. L'analisi del linguaggio, evidenziando l'intreccio tra descrizioni spontanee e spiegazioni teoriche, ci libera dai problemi (o pseudoproblemi) generati da questa sovrapposizione di spiegazioni preconcette a certi usi linguistici naturali, che non implicano affatto il dualismo cartesiano, ma sono perfettamente giustificabili restando nell'ambito del senso comune e reintegrando il carattere unitario della personalità.
Di particolare rilevanza, anche a causa della ricchezza e organicità della sua produzione, è l'opera di P. Strawson, il quale dopo un'approfondita analisi critica della logica (sia tradizionale che matematica, contenuta nel vol. Introduction to logical theory del 1952) è passato - nel suo volume successivo, Individuals, del 1959 - a un'esplicitazione dei presupposti del linguaggio ordinario, trovandoli proprio nelle persone e negli oggetti materiali contrariamente, ancora una volta, alla tradizione empiristica che vede i termini originari dei riferimenti linguistici nei dati sensoriali. È significativo che in tal modo l'autore giunge all'idea di una "metafisica descrittiva" che ha il compito di esplicitare l'intero schema concettuale in base a cui noi pensiamo e parliamo intorno al mondo: non si tratta, cioè, di criticare o rettificare questo schema, per costruirne un altro più valido (come tende a fare una "metafisica revisionistica"), ma proprio di scoprire e descrivere il funzionamento, l'ordinamento dei nostri concetti, restaurando così un equilibrio concettuale che è stato turbato non rispettando quest'ordine. E appunto le persone e i corpi materiali hanno una priorità e sono da considerare "inanalizzabili", perché costituiscono la condizione di possibilità e le premesse indispensabili di ogni altro discorso, in contrasto - come si è detto - con quel tipo di analisi riduzionistica ed empiristica finora prevalente che pretende scomporre questi concetti per riportarli a elementi più semplici. Ora proprio molti problemi artificiali e insolubili e molte deformazioni concettuali sono risultati da questo errato approccio metodologico, di fronte al quale va rivendicata l'esigenza della descrizione. Una descrizione così orientata, che metta in luce le condizioni di possibilità del linguaggio, non è priva di affinità e analogie col metodo trascendentale kantiano, cosa che l'autore ha messo in luce nel successivo volume intitolato The bounds of sense (1966); e l'affinità risulta tanto più significativa in quanto uno dei compiti fondamentali dell'analitica kantiana consiste nella critica dell'idealismo problematico di Descartes e dello scetticismo humiano, che costituiscono in fondo gli obiettivi polemici della filosofia del linguaggio ordinario.
Lo stesso ampliamento di orizzonti si trova in un altro filosofo precocemente scomparso, J. L. Austin, per il quale "l'atto linguistico totale nella situazione linguistica totale è l'unico fenomeno effettivo che, in definitiva, siamo impegnati a chiarire". L'esigenza di comprensione e di chiarezza è ribadita, ma l'oggetto e i compiti di analisi sono ormai ribaltati rispetto al primitivo programma di Russell e del n.: l'analisi, accentuando il motivo della descrizione, si trasforma in fenomenologia linguistica; il linguaggio ordinario (che è stato collaudato da un esercizio millenario e funziona in maniera soddisfacente nella vita quotidiana) va sostanzialmente accettato e difeso contro le schematizzazioni e classificazioni astratte della logica, i riduzionismi scientifici, le tendenziose problematizzazioni filosofiche, che costituiscono - nel loro insieme - una fonte di confusione e di perplessità che è possibile dissolvere con una comprensione più accurata e adeguata del funzionamento del linguaggio stesso. Alla considerazione dei semplici enunciati, risultato di un'operazione di astrazione logica, va sostituita la considerazione degli "atti linguistici" che tengono conto di tutti i fattori e modificazioni confluenti nella situazione, e che accanto al contenuto informazionale comportano delle "forze illocuzionarie" in base a cui esse sollecitano ed esplicano un effetto nel destinatario del messaggio. Austin ha illustrato ciò nel suo libro How to do things with words (1962), in cui richiama l'attenzione su atti linguistici che comportano un effetto o un impegno (per es. una promessa o un giuramento) nell'atto stesso di pronunciarli. Nell'altra sua opera, Sensa and sensibilia (1962), dedicata all'analisi del linguaggio della percezione e alla critica dell'abitudine a classificare gli oggetti della percezione in dati sensibili e oggetti materiali, l'autore mostra fino a qual punto la problematica filosofica tradizionale sia condizionata da un ideale assolutistico di conoscenza e da rigide dicotomie che risalgono a Platone e a Descartes: come in fondo avveniva già in Ryle, l'analisi serve a liberare la descrizione accurata dell'uso spontaneo del linguaggio da una sovrastruttura teorica che interferisce con la concretezza dell'esperienza e diventa fonte di pseudoproblemi.
Come ben si vede, la filosofia analitica ha subito in questo modo, rispetto alle posizioni originarie di partenza, un notevole capovolgimento, caratterizzato dal passaggio da una concezione riduzionistica e antimetafisica a una concezione fenomenologica dell'analisi stessa. Tutta questa evoluzione (contrassegnata dall'evoluzione del pensiero di Wittgenstein) è stata seguita e vissuta da numerosi autori, tra i quali vanno citati in particolar modo F. Waismann e A.J. Ayer che pure erano stati tra i più autorevoli e brillanti esponenti del movimento neopositivistico originario. Ayer, in particolare, pur riconoscendo la funzione metodologica ineccepibile rappresentata dal realismo del senso comune contro le paradossali negazioni della metafisica, riconosce (Metaphysics and common sense, 1969) al tempo stesso l'illegittimità di rifiutare anche le forme più fantasiose di esplorazione concettuale solo perché esse implicano un cambiamento delle nostre abitudini mentali. È evidente che il nuovo orientamento della filosofia analitica si presti ai più vari sviluppi: per quanto riguarda la teoria degli atti linguistici, si deve menzionare almeno l'opera di J. R. Searle, Speech acts (1969), ed è ben naturale che allontanandosi dalla logica matematica l'analisi si avvicini sempre più alla linguistica propriamente detta, alla psicolinguistica e alla sociolinguistica. Vanno poi segnalati i rapporti dell'analisi del linguaggio con la psicoanalisi, nel quale settore vanno ricordati soprattutto J. Wisdom (Philosophy and psycho-analysis, 1953) e M. Lazerowitz (The structure of metaphysics, 1953), ai quali può aggiungersi - per la psicoanalisi della logica - la recente opera di I. Matte Blanco (The inconscious as infinite sets, 1975), che contribuisce a determinare il posto della logica nella dinamica generale della psiche. Se poi ora, a guisa di conclusione, volessimo trarre un bilancio da tutto questo sviluppo della filosofia analitica, non potremmo non essere colpiti in prima linea dalla comune "passione per il linguaggio" che accomuna tutti questi autori e queste tendenze; notare in secondo luogo che queste tendenze, così spesso in contrasto fra loro, rispondono più che altro a esigenze e a punti di vista diversi, che sono, più che veramente esclusivi, complementari fra loro, come le tessere che vanno ricomposte insieme in un mosaico; e notare finalmente come in tutto ciò si nasconde il bisogno di una trasformazione della nostra coscienza linguistica, esprimente - per effetto dell'evoluzione psicosociologica e del progresso scientifico - un mutato atteggiamento della nostra coscienza verso il mondo.
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