neologismi
Lettori e critici, a cominciare dai più antichi commentatori, si sono imbattuti spesso, scorrendo le opere di D., in particolare la Commedia, in parole affatto inusuali, che hanno tutto l'aspetto di essere state coniate, a fini espressivi o semplicemente denotativi, dallo stesso scrittore. Quest'attività onomaturgica, a volte giudicata con riserva (si ricordino per tutte le osservazioni del Bembo nelle Prose della volgar lingua I 20), è stata frequentemente giustificata e ammirata. Dal Tasso al Leopardi, dal De Sanctis alla critica più recente si è riconosciuto nei n. un effetto della potente fantasia dantesca, capace perfino di forzare i limiti imposti dalla lingua, e se ne è sottolineata, volta a volta, la pertinenza stilistica.
Che D. non fosse alieno da creazioni nuove e che nel plurilinguismo dei testi danteschi rientrino anche vocaboli foggiati ex novo, è oggi generalmente ammesso. Nel giudicare tuttavia i singoli n. e la loro effettiva novità, i filologi moderni sono più prudenti dei loro predecessori. " Il bellissimo studio del Parodi sui vocaboli in rima " scrive il Maggini " e la sempre maggior conoscenza della lingua dei tempi di Dante hanno mostrato come spesso quel che pareva arbitrio era uso corrente e hanno ridotto di molti il numero degli hàpax legòmena danteschi ". E, dopo il Parodi, altri studiosi sono venuti a espungere creduti n., estendendo magari la ricerca alle fonti latine medievali, presenti certo a D. non meno che le volgari. Si è rilevato così, per esempio, che cunta (Pg XXXI 4) si trova già schedato in Uguccione e in Giovanni da Genova, e che l'alleluiare di Pg XXX 15 non è così singolare come potrebbe apparire a prima vista, dato che ricorreva usualmente nel linguaggio liturgico medievale.
Da queste premesse deriva evidentemente che una raccolta di n. danteschi si può oggi proporre solo a titolo latamente indicativo, come un " contributo necessariamente provvisorio allo studio della creatività linguistica dantesca " (per ripetere le parole del più recente studioso dell'argomento, il Di Pretoro). Più che sui singoli vocaboli, la cui novità, se presi isolatamente, dà luogo spesso a dubbi e controversie, converrà dunque appuntare la nostra attenzione su settori in qualche modo omogenei, su modelli formativi e compositivi che sembrino aver stimolato particolarmente lo spirito creativo del poeta. Uno dei campi più fertili è senza dubbio quello delle formazioni verbali parasintetiche, e, in special modo, dei parasinteti verbali in cui intervenga il prefisso in-, tipo ‛ inmillare ' da ‛ mille ', ‛ insemprare ' da ‛ sempre ', ecc. Il modulo di formazione era ben noto fin dalle origini della lingua (cfr. ‛ inabissare ', ‛ ingrandire ', ‛ ingrossare ', ecc.); D. tuttavia l'estende insistentemente al di là dei limiti usuali, applicandolo non solo, con varietà e indipendenza, a sostantivi e aggettivi, per es. in ‛ inurbarsi ' " entrare in città ", Pg XXVI 69; ‛ indiarsi ' " assimilarsi a Dio ", Pd IV 28; ‛ imborgarsi ' " essere ripieno di borghi, di Città ", VIII 61; ‛ indracarsi ' " divenire feroce come un drago ", " accanirsi ", XVI 115; ‛ infuturarsi ' " prolungarsi nel futuro ", XVII 98; ‛ inventrarsi ' " stare nel ventre, nel punto più interno ", XXI 84; ‛ inzaffirarsi ' " ingemmarsi ", " adornarsi luminosamente come di zaffiri ", XXIII 102; ‛ imparadisare ' " innalzare a gioie paradisiache ", XXVIII 3; ‛ inlibrare ' " tenere in equilibrio ", XXIX 4, ecc.; ma anche, più arditamente, ai numerali: ‛ incinquarsi ' " ripetersi per cinque volte ", IX 40; ‛ intrearsi ' " congiungersi come terzo ", XIII 57; ‛ inmillarsi ' " moltiplicarsi in più migliaia ", XXVIII 93; ‛ internarsi ' " farsi terno ", " comporsi di tre ", XXVIII 120; agli avverbi: ‛ insemprarsi ' " durare per sempre ", X 148; ‛ insusarsi ' " risiedere in su, in alto ", XVII 13; ‛ inforsarsi ' " essere in forse ", " risultare dubbio ", XXIV 87; ‛ immegliarsi ' " diventare migliore ", XXX 87; ‛ indovarsi ' " trovar luogo ", XXXIII 138; e perfino ai pronomi personali e ai possessivi in quei singolarissimi ‛ intuarsi ', ‛ inmiarsi ' " penetrare in te, in me ", IX 81; ‛ inluiarsi ', v. 73; e ‛ inleiarsi ', XXII 127, che rappresentano caratteristici e quasi proverbiali esempi dell'audacia delle creazioni linguistiche dantesche. Il gruppo in sostanza, nella sua compattezza, individua, piuttosto che una serie di n., un filone produttivo, una tecnica onomaturgica vivacemente e ripetutamente sperimentata da Dante.
Meno compatte, ma formalmente analoghe, altre serie di possibili neoformazioni verbali con prefissi diversi: a- in ‛ appulcrare ' " abbellire ", " aggiungere per abbellimento ", If VII 60 (ma ‛ pulcrare ' è già in Uguccione); ‛ arruncigliare ' " afferrare col ronciglio ", XXI 75, XXII 35; ‛ acceffare ' " afferrare col ceffo, azzannare ", XXIII 18; ‛ adimare ' " volgere in basso, scendere ", Pg XIX 100, Pd XXVII 77; di- in ‛ dirocciarsi ' " scendere giù da una roccia (di fiumi) ", If XIV 115; ‛ dilaccarsi ' " divaricare le cosce ", XXVIII 30; ‛ dilibrarsi ' " uscire dall'equilibrio ", Pd XXIX 6 (da confrontare con l' ‛ inlibrare ' del v. 4); ‛ divimarsi ' " sciogliersi ", v. 36; dis- in ‛ disvicinare ' " allontanare ", Rime CXIII 3; ‛ dislagare ' " elevarsi da una distesa d'acqua ", Pg III 15; ‛ dismalare ' " liberare dal male, purificare ", XIII 3; ‛ disunarsi ' " cessare di essere un'unità ", Pd XIII 56, ecc.; cui si potrebbero ancora aggiungere tras- in ‛ trasumanare ' " trascendere l'umano ", I 70; ‛ trasmodarsi ' " oltrepassare ogni limite ", XXX 19, e qualche altra serie, via via meno vistosa (per questo si veda Di Pretoro, pp. 283-289). Il modulo formativo consente evidentemente al poeta di tradurre in azione verbale, con immediatezza e felicità espressiva, un'immagine che si è affacciata inizialmente alla sua fantasia con le sembienze grammaticali di un sostantivo, di un aggettivo, e perfino di un pronome o di un avverbio.
La cantica che più di ogni altra dà l'occasione a queste neo-formazioni è, come si sarà osservato, il Paradiso, e molte di esse sono legate a quella poesia dell'ineffabile, che cerca, con vari mezzi, e tra gli altri la radicale e, talora, violenta creazione verbale, di esprimere concetti e sentimenti che sfiorano l'inesprimibile. Si veda come siano legati a una tale tensione linguistica e fantastica contesti come Dio vede tutto e tuo veder s'inluia, Pd IX 73, e 81 s'io m'intuassi, come tu t'inmii, relativi all'interpenetrazione intellettuale degli spiriti beati, oppure quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l'amor , ch'a lor s'intrea, XIII 55-57, che cerca rischiosamente di esprimere l'essenza della misteriosa vita trinitaria; o ancora il tentativo di cogliere l'altrettanto misteriosa unione delle due nature del Cristo in veder voleva come si convenne / l'imago al cerchio e come vi s'indova, XXXIII 137-138. Elementi stilistici ed elementi grammaticali, connessi questi ultimi alla singolare predilezione per un determinato modulo formativo, convergono dunque nell'individuare nelle serie sopra proposte un settore privilegiato per la nascita di n., anche se essi non siano sempre (come ripetiamo) singolarmente additabili con definitiva certezza. Il fatto che la maggior parte di tali n. s'incontri in rima, non implica ovviamente un giudizio limitativo. Si ricordi al contrario come suggerimenti in apparenza elementari e meccanici (il bel zaffiro / del quale il ciel più chiaro s'inzaffira, XXIII 101-102; tal vime, che già mai non si divima, XXIX 36, ecc.) si risolvano nel contesto dantesco in giochi verbali di raffinata perizia retorica e, al tempo stesso, di alta efficacia espressiva.
Al di fuori del modulo formativo parasintetico si trova qualche altro derivato che potrebbe risalire a D., per es. il ‛ pennelleggiare ' di Pg XI 83 o il ‛ sempiternare ' di Pd I 76, oppure, tra i nomi, il mischio, che vale " mescolanza (di suoni) ", di XXV 131 (cfr. Di Pretoro, pp. 290-296). Ma le riprove e gl'indizi esterni si fanno più tenui. Siamo sempre, comunque, all'interno di tipi compositivi già sperimentati dal volgare, quando non largamente popolari (anche se talora la base sostantivale è dotta, per es. ‛ inurbarsi ', ‛ divimarsi '). Diversa è la posizione di alcuni composti, presumibilmente danteschi, foggiati per intero su modelli e con elementi dotti: per es. le neoformazioni grecheggianti Eunoè (Pg XXVIII 131, XXXIII 127) e teodia, " canto rivolto a Dio " (Pd XXV 73). In questo caso vengono in primo piano le ambizioni culte del poeta.
Quali conseguenze e quale fortuna hanno avuto nella lingua italiana i n. coniati da Dante? Se restringiamo il nostro esame agli esemplari citati sopra, si può osservare che alcuni di essi, per es. ‛ inurbarsi ', hanno avuto successivamente una qualche diffusione, sia pur sempre soggetta a limitazioni e oscillamenti. Qualcuno, come il Tommaseo a proposito di ‛ imparadisare ' (v. DIZIONARIO), ne ha tratto argomento per rovesciare i termini della questione e concludere che quei vocaboli erano evidentemente vivi già al tempo di D., e D. non li ha creati ex novo, ma li ha tratti dall'uso contemporaneo. Dopo quanto si è detto, e fino a prova contraria, appare tuttavia più probabile l'ipotesi opposta. Si tratta a ogni modo di riflessi deboli e scarsi. I n. danteschi restano legati per lo più al contesto individuale in cui nacquero. Se hanno avuto una certa storia ulteriore nella lingua poetica o letteraria, è una storia che si confonde con quella della fortuna di D. e della Commedia. Se, per esempio, il Tasso usa ‛ inzaffirarsi ' (Prologo ai ‛ Suppositi ', v. 47; cfr. T. Tasso, Teatro, a c. di A. Solerti, Bologna 1895, 467) o l'Alfieri ‛ intuarsi ' (Satire VII 42) o il Gozzano ‛ immillare ' (L'amica di nonna Speranza 12), è certo implicita l'allusione al testo dantesco e questi esempi non ne sono che un riflesso più o meno diretto. Un po' diverse le intenzioni di uno scrittore come Bernardo Davanzati, che tentava di rimettere in circolazione, alla fine del Cinquecento, ‛ incinquarsi ', ‛ indiato ', ‛ indragata ' (volgarizzamento degli Annali di Tacito, II 36, I 59, XIII 21); ma le conseguenze in pratica non sono state diverse.
Bibl. - Oltre alle fonti consuete (vocabolari, concordanze, rimari) si vedano: Parodi, Lingua 215-216 e passim; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, 193-194 (e ID., Conversazioni sulla lingua, ibid. 1949, 127-128); Pagliaro, Ulisse 607-608; P.A. Di Pretoro, Innovazioni lessicali nella ‛ Commedia ', in " Atti Accad. Naz. Lincei " s. 8, CCCLXVII (1970) 263-297. L'osservazione del Maggini si legge ora in Due letture dantesche inedite (Inf. XXIII e XXXII) e altri scritti poco noti, a c. di A. Di Preta, Firenze 1965, 80 (e cfr. A. Schiaffini, Momenti di storia della lingua italiana, Roma 1953², 52). Su cunta v. G. Nencioni, Note dantesche, II, in " Studi d. " XL (1963) 17-22; e su alleluiare, oltre i lessici del latino medievale, Petrocchi, Introduzione 220. Sulle neoformazioni parasintetiche e, in genere, derivative, v., oltre lo studio del Parodi citato sopra (particolarmente pp. 263-268), F. Tollemache, I parasinteti verbali e i deverbali nella D.C., in " Lingua Nostra " XXI (1960) 112-115. Valutazioni stilistiche sui n. danteschi si trovano sparse in numerosi studi critici e commenti; fra i più recenti, L. Blasucci, L'esperienza delle ‛ petrose ' e il linguaggio della D.C., in " Belfagor " XII (1957) 403-431,- ora in Studi su D. e Ariosto, Milano-Napoli 1969, 1-35 (particolarmente pp. 17-18, 34); G. Contini, Un esempio di poesia dantesca (il canto XXVIII del Paradiso), Firenze 1968, rist. in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 477-497 (spec. pp. 484-485).