NEOCOMPORTAMENTISMO
. Per n. (o neobehaviorismo) s'intende quel movimento psicologico statunitense che, preso l'avvio all'inizio degli anni Trenta, ha conosciuto nel decennio 1930-40 il suo massimo sviluppo, ma la cui influenza si estende fino alla fine degli anni Cinquanta e per taluni autori (v. per es. B. F. Skinner) tuttora perdura. Il "manifesto" di J. B. Watson (La psicologia dal punto di vista di un behaviorista, 1913) aveva dato inizio a una vera e propria rivoluzione nel campo della ricerca psicologica, non tanto opponendosi ai precedenti indirizzi, strutturalismo e funzionalismo, sulla base di un'articolata critica e di un'adeguata teorizzazione alternativa, quanto mettendo bruscamente da parte e tacciandolo di assoluta sterilità il metodo principe dell'indagine psicologica del suo tempo, l'introspezione.
Nato dalla necessità di usare metodi obiettivi nel proprio ambito di ricerca (la psicologia animale), il comportamentismo di Watson (così denominato per l'accento esclusivo posto sulla categoria di comportamento, sulle caratteristiche osservabili e verificabili dell'attività dell'animale e dell'uomo) si limitava in un primo tempo a dichiarare la non scientificità di studi che avessero a loro oggetto l'immagine mentale o la coscienza, ritenendo insufficienti le garanzie metodologiche ottenibili in questi casi. Questo behaviorismo metodologico cedeva peraltro successivamente il passo a una forma assai più radicale, il behaviorismo cosiddetto metafisico; Watson sosteneva, in questa seconda fase di estensione delle concezioni behavioristiche allo studio dell'uomo, l'inesistenza di entità mentali di qualunque tipo e passava a fornire alcuni esempi di trattazione behavioristica di temi che, come il linguaggio o il pensiero, sarebbe presumibilmente stato impensabile assoggettare ai suoi metodi di ricerca. L'unica teoria psicologica possibile si rivelava dunque, secondo Watson, la teoria comportamentale, o teoria stimolo-risposta (S-R), suscettibile inoltre di fornire, attraverso un'analisi rigorosamente sperimentale del processo di apprendimento, notevoli opportunità applicative (v. per es. i primi tentativi di Watson di terapia comportamentale su fobie infantili, 1920).
Watson aveva avuto il merito di troncare netto coi complessi presupposti filosofici delle teorizzazioni psicologiche precedenti, proponendo come alternativa una concezione di estrema semplicità, l'analisi delle connessioni tra stimoli e risposte. Lo sviluppo della sua ricerca aveva peraltro rivelato una certa rozzezza delle sue proposte teoriche nel senso di un'insufficiente elaborazione di fondamentali problemi, come per es. quelli del rapporto tra fisiologia e psicologia, né il confronto da parte di Watson con tecniche di condizionamento sviluppatesi in Unione Sovietica (quelle di V. M. Bechterev, orientate a stabilire riflessi associativi motori piuttosto che quelle di I. P. Pavlov fondate sul riflesso salivare) poteva essere considerato esauriente. Nell'ultima produzione di Watson troppo spesso gli obiettivi della divulgazione e della polemica brillante prendono il sopravvento sull'approfondimento scientifico: si afferma, sul finire degli anni Venti, una vera e propria ideologia behavioristica.
Il n., di cui abbiamo dianzi delineato l'ambito cronologico, intende riprendere e sviluppare i problemi lasciati aperti da Watson e gettare le basi di una scienza psicologica pari, in quanto a rigore, alle altre scienze. Questo programma è portato avanti in maniera assai differenziata dai vari neocomportamentisti, tanto che l'etichetta di n. copre ambiti di ricerca, teorica e sperimentale, notevolmente diversi e suscettibili di essere analizzati e classificati concettualmente secondo prospettive multiple. Esamineremo qui di seguito (in un ordine sistematico e non cronologico), per sommi capi, l'evoluzione delle posizioni dei quattro autori che possono considerarsi gli esponenti più autorevoli del n.: C. L. Hull, B. F. Skinner, E. C. Tolman, E. Guthrie.
L'approccio di C. L. Hull (1884-1952), il più influente ai suoi tempi e il più ambizioso, sia nel senso della ricchezza teorica che della mole di ricerche sperimentali cui diede direttamente o indirettamente origine (tra i suoi allievi si annoverano per es. N. E. Miller, O. H. Mowrer, J. Dollard, C. I. Hovland) si contraddistingue, da un punto di vista epistemologico, per una caratteristica particolare: si tratta infatti di un primo tentativo di costruire la teoria psicologica come sistema ipotetico-deduttivo, fornendo cioè una serie di assiomi psicologici (18) da cui derivare opportunamente teoremi e corollari: teoremi e corollari da assoggettare poi in modo conveniente alla sperimentazione onde verificare l'adeguatezza dell'apparato teorico (che Hull doveva, attraverso gli anni, sottoporre a complesse revisioni proprio come conseguenza dell'attività sperimentale svolta). Dal punto di vista del contenuto, Hull prendeva in considerazione, tra l'altro, una tematica largamente estranea all'impostazione watsoniana; i determinanti del comportamento, la motivazione. Il punto di partenza, il paradigma sia teorico che sperimentale rimaneva da un lato il condizionamento di tipo pavloniano, dall'altro l'apprendimento per tentativi ed errori, pur nella consapevolezza dell'enorme complessità (da Watson a torto ignorata) del processo di apprendimento e della varietà delle sue forme. La spiegazione del processo di apprendimento stava, secondo Hull, in una teoria del rinforzo, articolata reinterpretazione della legge dell'effetto già formulata da E. L. Thorndike (l'intensità di una connessione stimolo-risposta risulta aumentata da un'esperienza di soddisfazione, diminuita da un'esperienza d'insoddisfazione). Nelle equazioni fondamentali del sistema di Hull la connessione dei concetti principali della sua teorizzazione trova espressione quantitativa; una relazione moltiplicativa collega per es. l'intensità dell'abitudine (intesa a sua volta come il risultato di un rinforzo di connessioni stimolo-risposta in funzione della riduzione di un bisogno) alla pulsione (elemento motivante, inserito in un sistema di bisogni) per ottenere il potenziale di reazione, che a sua volta è suscettibile di esprimersi nella reazione comportamentale.; in simboli
dove il primo termine indica il potenziale di reazione, SHR l'intensità dell'abitudine, (D) la pulsione, drive. va notato che le variabili che compaiono in questa equazione appartengono a un tipo particolare di variabili, le cosiddette variabili intervenienti; è caratteristica precipua di questo tipo di variabili il non essere, diversamente dalle variabili indipendenti (stimoli) e da quelle dipendenti (risposte), suscettibili di osservazione. La portata metodologica di questa innovazione non va sottovalutata; si tratta, dal punto di vista teorico, di un abbandono del piano puramente osservazionale, cui pareva confinato il comportamentalismo di Watson in funzione di un potenziamento considerevole delle possibilità esplicative della teoria, pur senza venir meno al rigore di un'impostazione fedele all'empirismo (ta disputa sullo status metodologico delle entità in gioco - le variabili intervenienti - interpretabili come puri espedienti di convenienza o come costrutti con una loro possibile contropartita empirica si accese in questi anni senza trovare soluzioni definitive; in Hull rimangono vive, a questo proposito, propensioni per una neurofisiologia ipotetica che giustifichi in qualche modo le entità teoriche introdotte).
L'enorme influenza del sistema di Hull fu dovuta all'esigenza di obiettività e all'accento posto sulla quantificazione, anche nel senso della possibilità di correlare con entità teoriche del sistema i parametri caratterizzanti le risposte, onde permettere quella essenziale funzione predittiva che Watson, più pragmaticamente orientato, aveva concepito solo in vista di un controllo del comportamento. Ma sia la forma ipotetico-deduttiva del sistema, sia la difficoltà di formulare predizioni sufficientemente inequivoche da prestarsi a verifica empirica posero in forse la validità della costruzione hulliana, nonostante le importanti e raffinate revisioni teoriche del suo collaboratore K. W. Spence. Si delineava così l'affermazione di una forma diversa di n. che doveva rimanere salda fino ai nostri giorni, quella di B. F. Skinner.
In contrapposizione a Hull, B. F. Skinner (n. 1904) rigetta qualunque esperienza di teorizzazione, ispirandosi, piuttosto che a suggestioni neopositivistiche, alle esigenze del contemporaneo operazionismo di P. W. Bridgman, che nato originariamente in connessione alla teoria fisica, tanta importanza doveva avere in questi anni (1930-40) per la psicologia americana. Seguace di uno scetticismo metodologico rigoroso fino alla spietatezza (e di una teoria della causalità di tipo humiano), l'approccio di Skinner, accusato da più parti di descrittivismo, si porrà soltanto come "analisi funzionale del comportamento", tenendosi accuratamente lontano sia da tentazioni teoriche che da una neurofisiologia speculativa. Si deve a Skinner l'introduzione di un concetto fondamentale della moderna teoria dell'apprendimento, quello di condizionamento operante. Mentre per Pavlov è importante la connessione stimolo condizionato-stimolo incondizionato in funzione della risposta, a Skinner interessa quasi esclusivamente non l'elicitazione (che comporta la conoscenza degli stimoli) bensì l'emissione delle risposte (indipendentemente dalla conoscenza degli stimoli che le determinano). Il suo obiettivo principale diventa quindi quello d'individuare i rinforzi opportuni che permettano di far aumentare significativamente la probabilità di emissione delle risposte stesse. Di qui il suo impegno per la formulazione di schemi e programmi di rinforzo adeguati (a intervallo e rapporto fisso, a intervallo e rapporto variabile) che permettano un soddisfacente controllo del comportamento (sia negli animali, attraverso un procedimento di shaping, "modellamento", delle risposte, sia nell'uomo, per es. nelle applicazioni riguardanti l'insegnamento, come insegnamento programmato). Notevole anche il suo sforzo di elaborare ulteriormente l'approccio di Watson al linguaggio, sempre inteso come un insieme particolarmente complesso di risposte e tuttavia sempre aggredibile da un punto di vista comportamentistico (ma cfr. negli anni Cinquanta le distruttive critiche di N. Chomsky a questa impostazione).
Una concezione fortemente originale dell'apprendimento (tanto che è nato talora negl'interpreti il dubbio se sia lecito ricomprenderla sotto l'etichetta di n.) è quella di E. C. Tolman (1886-1959)
Influenzato da teorie psicologiche poco diffuse negli Stati Uniti negli anni 1930-40, come la psicologia istintivistica di W. McDougall (definitivamente messo fuori causa dalla polemica con Watson) e la psicologia della Gestalt, Tolman reinterpreta profondamente il processo di condizionamento in termini del rapporto segno-significato. Uno stimolo può così, in questo approccio, divenire segno di uno stimolo successivo (significativo), che a sua volta precederà una risposta; risulta evidente il carattere piuttosto cognitivo che comportamentale di questo tipo di apprendimento, anche se si tratta in questo caso di un tipo di apprendimento particolare (privilegiato per altro da Tolman come apprendimento complesso, diretto a uno scopo - purposive - in grado di esprimere disponibilità del tipo mezzifini, caratterizzato, come conseguenza, da credenze, aspettative, mappe cognitive, ecc.). Nell'elaborazione finale del suo sistema Tolman individuò come fondamentali i tre costrutti seguenti: il sistema di bisogni (collegato alla tradizionale - in quegli anni - nozione di pulsione), lo spazio comportamentale (affine allo spazio di vita di K. Lewin, con correlata nozione di "valenza", ecc.) e la matrice di valori di aspettativa (belief value-matrix: si tratta di gerarchie di aspettative apprese riguardanti oggetti nell'ambiente e i loro ruoli in riferimento al comportamento). Il sistema di Tolman, assai più flessibile di quello di Hull, tendeva tra l'altro a rendere conto di un problema cruciale per la teoria dell'apprendimento: quello dell'apprendimento latente (Tolman aveva sperimentalmente dimostrato che ratti sottoposti a ripetute prove in labirinti, con risultati pressoché nulli a livello di apprendimento, si dimostravano successivamente, qualora adeguatamente motivati - mediante l'uso di cibo, per es., come ricompensa - assai più abili di ratti che affrontavano per la prima volta la stessa prova).
La distinzione introdotta da Tolman sulla base dei suoi risultati sperimentali tra apprendimento e performance era in asse con le sue propensioni a un behaviorismo diverso che tenesse conto di esigenze disconosciute dalla prima impostazione di Watson, soprattutto di quelle cognitiviste. Di qui l'abbandono del tradizionale periferalismo watsoniano (negazione dell'importanza per la psicologia di elementi, strutture, processi "centrali" del sistema nervoso; l'unico paradigma di riferimento è la sequenza da individuare a livello periferico, stimolo-risposta) e, da un punto di vista metodologico, l'accento sull'importanza delle variabili intervenienti (con la conseguente possibilità di una loro reinterpretazione "mentalistica"), nonché la fondamentale differenziazione dei livelli di analisi in psicologia, come punto di partenza per una più adeguata trattazione del rapporto fisiologia-psicologia; il livello di analisi a cui deve muoversi la psicologia non è per Tolman il livello molecolare (attività di ghiandole e nervi, come in Watson), ma quello molare, inteso come livello comportamentale complesso, caratterizzato da flessibilità e direzionalità a uno scopo. Già E. R. Guthrie (1886-1959) aveva acutamente colto questa problematica quando aveva distinto atti (livello molare) da movimenti (livello molecolare), sostenendo l'irrilevanza dello studio di questi ultimi (qualora definiti in senso fisiologico) per una scienza del comportamento. Guthrie è peraltro uno dei pochissimi comportamentisti che non basino la loro interpretazione del condizionamento e dei processi di apprendimento sul concetto di rinforzo.
Nella sua impostazione vi si sostituisce l'unico semplicissimo principio di contiguità ("una combinazione di stimoli che ha accompagnato un movimento tenderà, ricorrendo nuovamente, a essere seguita da quel movimento") per cui l'apprendimento, come formazione di connessioni stimolo-risposta, avviene in una sola prova. I contributi sperimentali più rilevanti di Guthrie riguardano soprattutto le stereotipie nel gatto, che ben si prestavano a confermare le sue posizioni teoriche. Il suo raffinato associazionismo, nel cui ambito è reinterpretato il processo di apprendimento (v. per es. la concezione dell'estinzione come apprendimento di risposte diverse allo stesso stimolo), ha indubbiamente esercitato per la sua elegante semplicità notevole suggestione, dando luogo da ultimo anche a tentativi (1948-1954) di formalizzazione (V. W. Voeks, n. 1921); tuttavia la fondamentale non verificabilità della teoria non ne ha mai favorito una completa accettazione. Forse il frutto teorico più cospicuo dell'indirizzo di Guthrie è da ricercarsi nei modelli matematici (probabilistici) dell'apprendimento elaborati successivamente da W. K. Estes.
In conclusione va osservato che il n. è andato, già dalla fine degli anni Cinquanta, incontro a un processo di trasformazione e di liberalizzazione che ne ha resi meno netti e precisi i contorni teorici, in conformità a una generale tendenza all'estinzione delle scuole, il cui nascere e svilupparsi contraddistingue il periodo tra le due guerre. In particolare l'influenza di altre teorizzazioni psicologiche (Gestalt e psicanalisi in primo luogo) hanno infiltrato l'originaria purezza dell'approccio. L'emergenza (o la riemergenza) di problematiche estranee al comportamentismo come quelle del comportamento istintivo, del pensiero o dei sistemi motivazionali complessi, lo sviluppo degli studi sulle basi flsiologiche del comportamento (esitanti in nuove teorizzazioni sull'apprendimento, il cosiddetto neurobehaviorismo per es. di K. Pribram), il nascere di nuove discipline, come la cibernetica, la teoria dell'informazione, la teoria dei sistemi, in grado di fornire più sofisticate modellistiche agli studiosi del comportamento e il contemporaneo tramonto delle esigenze sistematiche formalizzanti che avevano ispirato le teorizzazioni ipotetico-deduttive di Hull possono ritenersi alcuni degli elementi cui si deve l'esaurirsi del n. come movimento, benché molte delle sue tematiche di ricerca sopravvivano nella psicologia contemporanea.
Bibl.: a) Fonti primarie: E. C. Tolman, Purposive behavior in animals and men, New York 1932; E. R. Guthrie, The psychology of learning, ivi 1935; B. F. Skinner, The behavior of organisms, ivi 1938; C. L. Hull, Principles of behavior, ivi 1943; id., Essentials of behavior, New Haven 1951; E. C. Tolman, Collected papers in psycology, Berkeley 1951; C. L. Hull, A behavior system, New Haven 1952; B. F. Skinner, Verbal behavior, New York 1957 (trad. it. 1976); B. F. Skinner-C. B. Ferster, Schedules of reinforcement, ivi 1957. b) Fonti secondarie: E. R. Hilgard-D. G. Marquis, Conditioning and learning, New York 1940; E. R. Hilgard, Theories of learning, ivi 1948 (trad. it. 1970, sull'ed. originale 1966); R. S. Woodworth, Contemporary schools of psychology, ivi 1948 (nuova ed. in collab. con M. Sheehan, 1965); Handbook of experimental psychology, a cura di S. S. Stevens, ivi 151; K. W. Spence, W. K. Estes e altri, Modern learning theory, ivi 1954; Psychology: the study of a science, a cura di S. Koch (voll. I-III), ivi 1959; B. B. Wolman, Contemporary theories and systems in psychology, ivi 1960; M. H. Marx-W. H. Hillix, Systems and theories in psychology, ivi 1963; Essays in neobehaviorism, a cura di H. H. Kendler-J. T. Spence, ivi 1971. In italiano cfr. in particolare: M. W. Battacchi, I limiti del comportamentismo americano. Saggio sulla teoria del comportamento di Hull, in Rivista di psicologia, 1957, pp. 39-58; 1959, pp. 1-43; R. Venturini, Il problema metodologico della psicologia e il behaviorismo di Edward Chace Tolman, in De homine, nn. 27-28, 1969; L'analisi operazionale in psicologia, a cura di U. Curi, Milano 1973.