RISI, Nelo
– Nacque a Milano il 21 aprile 1920, da Arnaldo e Giulia Mazzocchi, in una famiglia della buona borghesia, fratello minore di Mirella (nata il 2 febbraio 1916) e Dino (nato il 13 dicembre dello stesso anno), regista celebre e fra gli artefici di quella commedia all'italiana che fu «specchio di un Paese di cui ha tramandato lo spirito vitalistico e irresponsabile in anni cruciali della sua Storia» (Caprara, 2004).
Uomo di profonda umanità, di tradizioni repubblicane mai smesse e di vasti interessi letterari, Arnaldo Risi fu medico curante di Gian Pietro Lucini, poi suo esecutore testamentario. «Milanese (marzo '876 - ottobre '929). Laureatosi a Pavia, specializzato in otorino-laringolatria, fu tra i primi soccorritori nel terremoto di Messina nel '908, al fronte […] durante il conflitto del '15-'18, fondatore di cure climatiche per l'infanzia povera e medico del Teatro alla Scala» (Il medico di Lucini…, 1999, p. 40). Rimasta vedova prematuramente, Giulia fu «donna di grande valore e cultura» (Bruck, 2017, p. 34), e dal polso fermo nel crescere i tre figli, che instradò al gusto della letteratura e ai valori di rigore e rettitudine laici. A lei sono dedicati alcuni fra i versi più belli, scontornati nei ‘cauti affetti’ di Risi: «Il dare l'avere il debito l'esempio/ un vano confinarti;/ saperti viva oggi ci compensa/ del vuoto che saremo» (A nostra madre, in Di certe cose: poesie 1953-2005, 2006, pp. 34 s.); «[…] la tua religione era qualcosa di diverso/ una musica di sfere (l'intelletto/ che riconosce sé nell'universo)» (Attesa là, ibid., p. 195).
La famiglia risiedeva in via Cernuschi 1, non lontano da viale Bianca Maria e piazza Cinque Giornate. Risi, dopo aver frequentato il r. ginnasio e liceo classico Berchet di Milano, si laureò successivamente in medicina, «per far contenta la mamma» (D. Risi, 2004, p. 87), senza tuttavia esercitare la professione al pari del fratello Dino. Nel 1942-43, inquadrato come «sergente di sanità», fu inviato sul fronte del Don al seguito dell'8ª Armata italiana in Russia (ARMIR), come racconta lui stesso, in quelle «divisioni che i russi chiamavano cikai, cioè "scappa", un nome che già rende l'idea, prima della grande ritirata descritta dai nostri scrittori che si sono salvati, i miei amici Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern» (in Raffaeli - Scarabicchi, 2006).
Richiamato in patria, distante circa 600 chilometri dalla prima linea ferrata utile, si avventurò a piedi insieme con un altro compagno di studi in medicina. Internato in Svizzera a Losanna, coltivò il rimpianto – pur di temperamento «anarcoide» e da pacifista convinto – di non aver partecipato alla lotta partigiana. Terminata la guerra, collaborò al Politecnico di Elio Vittorini, al quotidiano Avanti! e alla Rai di Milano, prima di ottenere finalmente la laurea che influenzò comunque lo sguardo ‘clinico’ e non solo ‘letterario’ del poeta-regista, insieme con una innata predisposizione a cogliere la realtà scorta dal basso.
Frattanto era approdato – anche attraverso le accensioni liriche ungarettiane che, suggeritegli da Giovanni Scheiwiller, libraio-capo da Hoepli e poi suo primo editore, al fronte gli capitava di rammentare – al desiderio di scrivere sulla base di apporti affatto particolari, scoprendo, nel contempo e per caso, la vocazione cinematografica.
«Caso fortuito, nell'immediato dopoguerra, in ritardo forzato all'università, mi capita di incontrare due grandi fotografi, un inglese e un americano, che avevano fatto la sbarco in Normandia e giravano per l'Europa in macerie: a Milano hanno chiesto se c'era qualcuno, magari uno studente, che potesse seguirli perché volevano realizzare un documentario sull'attività partigiana e sulle distruzioni operate dalle SS nella valle del Po. […] dopo circa un anno mi sono ritrovato in mano la macchina da presa, una Arriflex, e sono andato a Berlino, completamente distrutta, insieme con loro […]. Tuttora mi sento un documentarista e il film a cui sono più legato è proprio il mio esordio, Ritorno nella valle, girato per l'Unesco in Grecia in piena guerra civile, credo nel '49, la storia degli abitanti di un paese bruciato dalla Wehrmacht […]» (Raffaeli - Scarabicchi, 2006).
Trasferitosi a Parigi al principio degli anni Cinquanta, frequentò la mitica Agenzia fotografica «Magnum» (fondata poco dopo il conflitto, fra gli altri, da Robert Capa e Henry Cartier-Bresson), divenne amico di Raymond Queneau e sposò, in circostanze non del tutto chiare, una pittrice «australiana piuttosto viziata e ricca» da cui si sarebbe separato nel 1956 (Bruck, 2017, p. 34).
Dino (cfr. I miei mostri, 2004, p. 87), nell'accennare al matrimonio del fratello, appone non a caso un punto interrogativo; in assenza di prove documentali, il nome stesso della pittrice – ‘Mitty’ – farebbe pensare più a una fantasticheria cinematografica che non alla realtà, sulla scorta di The secret life of Walter Mitty (trad. it., Sogni proibiti), film del 1947 ch'ebbe grande risonanza in cui Danny Kaye interpretava un sognatore a occhi aperti, intento a evadere dalle maglie e dal grigiore di una vita non sua.
Si stabilì definitivamente a Roma nel 1955. Fu traduttore (Compito di francese e d'altre lingue: 1943-1993, Milano 1994), nell'ambito di una lunga consuetudine ch'ebbe con gli scrittori d'Oltralpe che ne favorì talune soluzioni lessicali e prosodiche. Di temperamento irrequieto, viaggiò in Europa, nella Cina di Mao e in Africa; e proprio all'interno del tema del viaggio «ridotto dall'ampiezza di un nomadismo incontrollato a mossa e ritmo di mera misura psicologica» (Ramat, 1976, p. 590), emerge il sentimento della «fuga», che così profondamente appartenne a Risi, come «difesa del proprio indefinito antipersonaggio» (ibid.) e sconsacrazione dei ruoli.
Se pur compreso, quando non addirittura «accusato», di far parte di quella «linea lombarda» tracciata a compendio di un'idea agonistica e antiermetica di «Poesia in re…» – di una poesia, cioè, «che non sia poesia dell'idea di poesia» (Anceschi, 1952, p. 22) –, sviluppò una anomala originalità rispetto ai poeti della sua generazione, «senza affidarsi al suono rauco del populismo o all'oltranza esistenzialistica» (Fortini, 1988, p. 195), nel solco di una consapevolezza civile e di critica della società e della rappresentazione di un paesaggio non deformati da alcuna lènte magica o crepuscolare.
La prima produzione di Risi (Le opere i giorni, un quadernetto striminzito uscito per Scheiwiller, Milano 1941, seguito da L'Esperienza, Milano 1948), confluì poi in Polso teso (Milano 1956), nel tentativo «di ritagliarsi un proprio margine nel vocabolario degli altri» (Costanzo, 1958, p. 19). Risi attraversò, per così dire, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora ed Eugenio Montale per giungere a un territorio suo, e alla musica affatto soggettiva del suo spartito, ‘in levare’ o ‘in aggiungere’: si prenda, fra le primissime prove, Domenica tra l'erbe (in Linea lombarda, 1952, p. 87), in cui l'endecasillabo al verso 3 risulta cadenzato da una pausa (7 + pausa + 2 = 11: «è tolto al nostro sguardo – caldo»), mentre il verso 9, aggiungendo una sillaba, rende claudicante il verso con effetto (o illusione) di prosa («ti filava tra le mani un'acqua chiara»). Già dalla prima fase, cui si possono ascrivere le raccolte degli anni Sessanta (Pensieri elementari, Milano 1961 e Dentro la sostanza, Milano 1966), nel segno di una sentenziosità e di una pronuncia «essenzialmente non metaforica; una poesia nella quale il detto prevale comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull'ambiguità» (Raboni, 1977, p. XVI), Risi riesce «ad abbattere con naturalezza la barriera tra pubblico e privato» (Luzzi, 2007, p. 18), tenendosi lontano da ogni forma di «enfasi» e ritagliandosi un percorso che – senza rinunciare a una vocazione spontaneamente epigrammatica ch'è, nel suo risvolto amaro o sarcastico, sguardo disincantato sulla vita e sul mondo – diviene testimonianza di sobrietà e misura, grazie a «un linguaggio fortemente comunicativo, equidistante da forme di troppo esposta sperimentazione quanto dall'analogismo ermetico» (Cucchi, 2006, p. VI).
Fra le successive raccolte poetiche, a Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa (Milano 1970), seguirono: Amica mia nemica (Milano 1976,) I fabbricanti del «bello» (Milano 1973), Le risonanze (Milano 1987), Mutazioni (Milano 1991), Il mondo in una mano (autoantologia per temi con tre inediti, Milano 1994), Altro da dire (Milano 2000), Ruggine (Milano 2004) e Né il giorno né l'ora (Milano 2008).
A Roma, il 17 marzo 1966, si unì in matrimonio con Edith Steinschreiber Bruck, scrittrice e poetessa ebrea ungherese reduce dal Lager e poi nazionalizzata italiana, stabilitasi nel nostro Paese dal 1954, che Risi aveva conosciuto nel dicembre 1957. Lo stesso anno diresse il primo lungometraggio, tratto dal romanzo di lei Andremo in città, ch'era apparso per i tipi di Lerici (Milano 1962).
Prima e dopo quest'ultimo, il «poeta con la cinepresa» si cimentò dapprima nei ‘politici’ Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959); quindi, in piena contestazione, realizzò quello che viene considerato il frutto migliore e più celebrato della sua non copiosa ma pregevole produzione cinematografica: Diario di una schizofrenica (1968), storia del calvario di un'adolescente malata e delle terapie analitiche per ricondurla alla normalità, cui seguirono: Una stagione all'inferno (1971) tratto da Rimbaud; il clamoroso insuccesso manzoniano de La colonna infame (1972), sceneggiato da Vasco Pratolini; Idillio (1980) girato a Recanati nei luoghi leopardiani, racconto del giorno in cui il poeta compone L'infinito; nonché, da ultimo, Per odio e per amore (1990), realizzato per la televisione «in funzione dell'esuberante femminilità di Serena Grandi – una cassiera emiliana sedotta da un siciliano dalla doppia vita – », in cui, mescolando mafia, commedia e melodramma, Risi riuscì comunque a «imporre il suo tocco cólto e raffinato» (Fusco, 2015).
Prigioniero «di un certo riserbo aristocratico misto a una coscienza civile e a una coerenza e onestà incorruttibili» (Bruck, 2017, p. 123), Risi fu uomo schivo e riservato, generoso di cuore ma avaro di parole. Diffidava della tecnologia (prediligendo la macchina da scrivere e ostinandosi a non adoperare il cellulare), e si considerava un timido che tuttavia amava il gusto del rischio e mettersi alla prova.
Colpito da un morbo degenerativo, e alleviato nella pensierosa malinconia degli ultimi anni dalla vicinanza affettuosa e partecipe della compagna di una vita fino all'ultimo (se ne veda il dolce, lacerante referto, «prospetto terminale di una grande storia d'amore»: Raffaeli, 2017), morì a Roma il 17 settembre 2015.
Opere: Oltre alle singole raccolte si vedano, in particolare: Poesie scelte (1943-1975), a cura di G. Raboni (Milano 1977) e Di certe cose: poesie 1953-2005, a cura di M. Cucchi (Milano 2006). A principiare da Linea lombarda. Sei poeti a cura di Luciano Anceschi (Varese 1952), pp. 77-93, Risi ha trovato posto nelle principali antologie di poesia contemporanea, fra cui si rammentino almeno: P. Chiara - L. Erba, Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954), Varese 1954, pp. 169-180; E. Falqui, La giovane poesia…, Roma 1957, pp. 255-259; L'Antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo, a cura di G. Ravegnani - G. Titta Rosa, Milano 1963, pp. 1191-1196; Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano 1990 (1ª ed., 1978), pp. 853-868; Poeti italiani del secondo Novecento (1945-1995), a cura di M. Cucchi - S. Giovanardi, Milano 1996, pp. 185-209. Si vedano, inoltre: Lo studente di lingue, azione scenica dal testo originale di L. Wolfson, Milano 1978; nonché la bella, esaustiva Prefazione a Il medico di Lucini: lettere di A. Risi, Milano 1999, pp. 7-35.
Fonti e Bibl.: Necr., in Corriere della sera (P. Di Stefano) e la Repubblica (M.P. Fusco), 19 settembre 2015. Entrambe le antologie sopra citate contengono un repertorio bibliografico di e su Risi, per cui v. rispett. Raboni (1977) pp. XXIX-XXXI, e Cucchi (2006) pp. XX-XXIV.
M. Costanzo, R. o la civiltà della poesia, in Id., Studi per una antologia, Milano 1958, pp. 17-40 e passim; S. Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano 1976, ad ind.; F. Fortini, I poeti del Novecento, 2ª ed., Roma-Bari 1988, pp. 195 s.; D. Risi, I miei mostri, Milano 2004, p. 87 e passim; V. Caprara, Risi, Dino, in Enc. del cinema, Roma 2004, s.v.; M. Raffaeli - F. Scarabicchi, N. R. a polso teso nell'anomalia italiana, in Il Manifesto, 19 ottobre 2006; G. Luzzi, Rompere il collo all'eloquenza, in L'Indice dei libri del mese, 2007, n. 6, pp. 18 s.; E. Bruck, La rondine sul termosifone, Milano 2017 (alle pp. 137-140, L'uomo N. R., breve intervento, da segnalarsi per intensità e finezza di tocco, pronunciato nelle Giornate di studio Parole e immagini per N. R., Fondazione C. Palmisano «Biennale Piemonte e Letteratura», San Salvatore Monferrato-Alessandria, 13-14 ottobre 2016); M. Raffaeli, Per N. R. precipitato all'inframondo, l'amoroso referto della moglie, in Alias, 12 febbraio 2017, p. 6.