NEGRONI da Ello
NEGRONI da Ello (detti Missaglia). – Famiglia di armaioli originari di Ello (oggi in provincia di Lecco) ma attivi a Milano almeno dal XV secolo e fino all’inizio del Cinquecento. Il soprannome Missaglia fu adottato per la prima volta da Tommaso e si mantenne per la sua linea.
Nulla si sa dell’occupazione di Pietro (m. nel gennaio 1428), così come di suo padre Guglielmo e di suo fratello Antonio, ma appare probabile che già fosse un armaiolo. Nel giugno 1428 due dei suoi quattro figli, e cioè Tommaso detto Missaglia e Dionigi, lavoravano armi a Milano in una casa con bottega, disponendo anche di un magazzino indipendente; nell’arbitrato resosi necessario per stabilire la divisione dell’eredità paterna tali beni rimasero a Tommaso, mentre ai fratelli Zanino e Lanfranco toccarono gli immobili e le terre di Cantù; Dionigi venne liquidato con l’ingente somma di 1000 fiorini, beni immobili a Cantù e a Milano e una fornitura di armature. Il fatto che Tommaso, in questa divisione ereditaria, dovesse anche restituire il valore della dote della moglie di Dionigi porta a pensare che tale somma fosse stata investita nell’impresa gestita dal padre ma che, a partire da tale momento, lo stesso Tommaso e Dionigi avessero deciso di separarsi, dando così origine a due botteghe distinte.
A rafforzare l’ipotesi, Dionigi non compare mai associato al fratello e fu coinvolto nel 1429 in una causa relativa all’uso di marche ritenute troppo simili a quelle di altri armaioli (le sue consistevano nelle lettere DY coronate o DI sotto scarlione crocettato), comunque ben diverse da quelle della bottega principale gestita da Tommaso. Morì tra il 1464 e il 1469 ed ebbe due figli, Giovan Pietro e Ambrogio; nel 1476 il primo era impegnato nel commercio di cuoi, mentre del secondo non si sa nulla.
La bottega principale, diretta da Tommaso, era già di dimensioni tali da poter esportare i propri manufatti in tutta Europa: nel 1430 il socio Bellino Corio venne incaricato di gestire i commerci tra la Romagna e la Toscana (società rinnovata nel 1438), nel 1436 Gaspare Zunigo fungeva da procuratore di Tommaso per i crediti che questi vantava in tutta la Spagna; nel 1445 il marchese Leonello d’Este fece dono di un’armatura dei Missaglia al vescovo di Liegi, mentre nel 1458 i figli di Tommaso erano creditori con i Gonzaga per armi fornite dal padre al marchese Ludovico e ai suoi fratelli.
Nel 1450 il nuovo duca di Milano Francesco I Sforza nominò Tommaso e suo figlio Antonio armaioli ducali, esentandoli inoltre da ogni carico fiscale, una concessione che probabilmente deve essere considerata un espediente, sebbene solo temporaneo, per far fronte ai debiti accumulati dalla corte: infatti nel 1451 i due Missaglia richiesero al duca un pagamento per armi consegnate e mai saldate e nel 1452 il rimborso di 4000 ducati concessi in prestito.
Tommaso dettò testamento il 10 gennaio 1452 (Milano, Archivio Luoghi pii elemosinieri, Araldico-Genealogico, Famiglie, 318) e morì certo entro la metà di agosto del medesimo anno e fu sepolto nella chiesa di S. Maria Beltrade. Dalle sue ultime volontà si apprende il nome della moglie – Giovanna da Venegono, destinata ad assumere la tutela dei tre figli ancora minori, Francesco, Ambrogio e Damiano, e la cura delle femmine Giacomina, Maddalena e Elisabetta, cui il padre lasciò una dote di ben 1400 fiorini a testa – e degli altri eredi, i figli maschi Antonio, Giovan Pietro, Cristoforo, Cabrino e Filippo. A Giovan Pietro, residente a Napoli, e a Cabrino, in Catalogna, vennero destinati i beni esteri della famiglia, agli altri i beni nella città e ducato di Milano con l’auspicio di poter continuare la fabbricazione e la vendita di armi.
Marche di Tommaso sono le lettere MY sotto corona (personale) e la M sotto scarlione crocettato (di bottega), entrambe poi utilizzate dal figlio Antonio ma con punzoni diversi.
Il primogenito di Tommaso, Antonio, nato forse attorno al 1415 o poco dopo (era certamente maggiore di vent’anni nel 1441), dopo la morte del padre assunse la guida dell’impresa di famiglia. Sposato una prima volta con Angela Piatti (deceduta ante 1469) e quindi con Susanna Stampa, ebbe quattro figli: Giovan Angelo (dalla Piatti), Sebastiano (dalla Stampa), Tommaso e Francesca. Come già il padre, dovette far fronte al grave problema dell’insolvenza ducale. Con il passare degli anni, infatti, il credito vantato nei confronti della corte dalla bottega Missaglia si accrebbe fino a raggiungere cifre altissime, solo parzialmente rifuse da pagamenti diretti; più spesso furono assegnate alla famiglia rendite su dazi o tasse locali sia come garanzia del capitale, sia a parziale saldo. Del resto le commissioni ducali furono sempre numerose: nel 1452 Antonio fornì una corazza per il giovane Galeazzo Maria Sforza e molti cortigiani furono inviati alla bottega Missaglia per essere riarmati a credito. Antonio anticipò anche forti somme di denaro al duca o fu costretto a stornare entrate daziarie a lui destinate per far fronte alle richieste della corte.
Comunque il favore ducale contribuì all’espandersi ulteriore della clientela, che nel corso della seconda metà del secolo giunse a comprendere le principali corti italiane (Mantova, Ferrara, Roma), sia attraverso ordinazioni dirette, sia come destinatarie di munifici doni ducali. La fama della bottega oltralpe – dove come si è visto già con Tommaso si erano spinti gli affari dei Negroni – trovò esplicito sbocco in un’ordinazione del re di Francia Luigi XI. Nel 1466 uno dei fratelli di Antonio, il giovane Francesco, si dovette infatti trasferire a Parigi per accordarsi con il sovrano e prendere le misure per l’armatura (che fu consegnata due anni dopo). La commissione dovette essere di grande soddisfazione se nel 1469 lo stesso Francesco poté destinare 12 tazze d’argento donategli dal re di Francia per finanziare i lavori di completamento della cappella di S. Tommaso in S. Maria Beltrade.
I Negroni acquisirono anche una serie di immobili in città, case, officine o mulini; quando non riuscirono ad acquistarli li ottennero in concessione o in dono dal duca. Così tra 1467 e 1469 entrarono in funzione sia il mulino presso la chiesa di S. Marco, sia un secondo (entrambi destinati alle operazioni di sgrossatura e pulizia dei metalli che necessitavano della forza idraulica per muovere le mole e i magli). Una grande casa-deposito, affacciata sulla piazza del castello di porta Giovia, era utilizzata anche come abitazione da alcuni membri della famiglia, ma la residenza principale era nella contrada degli Spadai (il cui ingresso era detto ‘la porta dell’inferno’ per i bagliori delle fucine e lo strepito dei lavoranti che si intravedeva dall’esterno), affollata di armature e dove i capitelli del portico interno e le decorazioni in facciata e nel cortile interno riportavano più e più volte lo stemma e la marca di famiglia. Inoltre, per regolarizzare le forniture di materie prime, i Negroni gestivano una fornace nei pressi di Canzo, dalla quale traevano le piastre grezze, poi lavorate a Milano. Il metallo proveniva da una miniera di ferro di loro proprietà e a tutto ciò si assommavano vari magli necessari per le prime lavorazioni del metallo grezzo, in modo che ogni fase della produzione di armature si poteva dire autonomamente gestita in proprio. Nel paese di origine, Ello, la famiglia possedeva poi una grande casa che ancora nel 1938 recava tracce di decorazioni quattrocentesche, compresi il probabile ritratto di Antonio e della moglie.
La dimensione della bottega e l’importanza anche quantitativa delle ordinazioni comportarono la necessità di assumere o farsi affiancare da numerosi maestri armaioli estranei alla famiglia, come testimoniano le varie marche personali presenti sugli insiemi oggi conosciuti. I principali collaboratori paiono essere stati Pier Innocenzo da Faerno (marca Y sormontata da un corno da caccia o da una corona) e Giovanni Negroli (coppia di chiavi incrociate). Per quanto riguarda le marche delle botteghe Negroni, certamente Antonio utilizzava le iniziali AM (leggibile anche come AN) sotto corno da caccia (prima della morte del padre) e più tardi la M sotto scarlione crocettato (di bottega) e le lettere MY sotto corona (marca personale), le stesse già in uso al padre ma in questo caso meno elaborate.
Al 1472 i Negroni ricevettero dal duca di Milano, in cambio di un terreno di circa 260 pertiche situato presso il castello di porta Giovia, terre e diritti a Corte Casale e Canzo; in un primo momento lo scambio non deve aver comportato diritti feudali né tantomeno un titolo nobiliare, ma certo è che nel giro di non molti anni Antonio iniziò a firmarsi con il titolo di conte. Allo stato attuale delle ricerche non è stato possibile rinvenire il documento che attesti l’avvenuta infeudazione, ma certo una persona in vista e nota come Antonio non avrebbe potuto fregiarsi di un titolo nobiliare (per di più trasmissibile ai figli) in mancanza di un diploma ufficiale. In ogni caso è al «nobil viro Antonio Missalie da Ello» che nel 1480 venne conferita la patente di armaiolo ducale da parte di Bona di Savoia e del figlio Gian Galeazzo Sforza (Motta, 1914, p. 218) e ancora nel 1488 fu «dominus Antonius de Missalia» a consegnare l’offerta degli armaioli per il costruendo Lazzaretto (ibid., p. 220).
Nel 1474 giunse finalmente a termine, grazie a un arbitrato, l’annosa questione dell’eredità di Tommaso. Sebbene il suo testamento del 1452 non paia lasciare dubbi sull’assegnazione delle varie parti dell’eredità ai figli, solo oltre due decenni dopo la sua morte gli eredi superstiti giunsero a un accordo, per il quale Giovan Pietro otteneva la somma di 1000 ducati in cambio della promessa di accettare sia il volere paterno sia i successivi accordi tra i fratelli (resisi necessari per la morte di Cabrino, Francesco e Ambrogio, oltre che della sorella Caterina). Grazie ai testimoni citati nel corso della causa intentata da Giovan Pietro (provenienti da Siviglia, Valencia, dalla Catalogna, da Napoli, Firenze, Pisa e dal Monferrato) si può avere un’idea della vastità dei contatti e del mercato coperto dai Negroni.
Con il passare degli anni Antonio si dedicò sempre più alla gestione del suo patrimonio, trasformandosi da importante armaiolo a ricco imprenditore. Nel 1489 l’ambasciatore estense ne elogiava la cordialità; nel 1492 gli ambasciatori veneziani, portati a visitare la sua casa, la trovarono non solo piena di armi e di lavoranti ma pure molto ben arredata. Morì tra la fine di febbraio e la metà di maggio 1496, lasciando l’intera sua fortuna (e innumerevoli crediti) ai figli Giovan Angelo e Sebastiano; il terzogenito, Tommaso, che dopo aver abbracciato la carriera ecclesiastica vi aveva rinunciato con grande disonore per la famiglia, fu di fatto diseredato (ma poté recuperare una piccola quota del patrimonio familiare, una rendita di 400 lire l’anno, dopo una causa protrattasi fino al 1512), mentre la figlia Francesca, andata in moglie a Merlino Maggi, ricevette – si può immaginare – una ricca dote.
Non molte notizie sono emerse sui fratelli di Antonio, comunque tutti impegnati, anche se con modalità differenti, nell’impresa di famiglia. Giovan Pietro era certo vivo nel 1496; Cristoforo, che si trovava a Roma nel 1456, era ancora attivo nel 1478 (e defunto ante 1498); Cabrino morì prima del 1474; Filippo era vivo nel 1474 e già morto nel 1498; Francesco era minorenne nel 1452, rogò testamento nel 1469 e risulta già morto nel 1472; Ambrogio, nato dopo il 1438, morì tra il 1469 e il 1474; Damiano, anch’egli nato dopo il 1438, morì tra il 1514 e il 1521. Delle sorelle sappiamo solo che nel 1452 Giacomina era maggiore di 16 anni, mentre Maddalena e Elisabetta erano minori; di una quarta, Caterina, non citata nel testamento paterno, si sa unicamente che morì prima del 1474.
I figli di Antonio, Giovan Angelo (ancora vivo nel 1526, e morto ante 1535, forse nel 1534) e Sebastiano (deceduto tra il 1510 e il 1512), rappresentarono l’ultima generazione di armaioli della famiglia. Nel 1488 sposarono due sorelle, Elena e Bianca della Torre, ed ebbero ciascuno tre figli (il primo, Benedetto, Antonio e Galeazzo; il secondo, Giovan Francesco, Alessandro e Ottaviano). Appare molto probabile che i due fratelli, che ereditarono dal padre già più che adulti, abbiano quasi subito tralasciato di occuparsi direttamente della bottega, delegando l’incarico a persone di fiducia che già lavoravano per l’impresa. In qualche modo ormai nobilitati, rimasero comunque formalmente i responsabili della produzione familiare, anche marcando alcuni pezzi databili all’inizio del Cinquecento, come per esempio l’armatura da cavallo ‘alla tedesca’ del Musée de l’Armée di Parigi.
Gli affari all’estero furono immediatamente delegati a rappresentanti (si sa che nel 1497 a Roma l’incarico venne affidato a Giovanni Angelo Brasulis e nelle Marche, a Fermo, ad Ambrogio de Sachelis), mentre certamente più impegnativo dovette risultare il distacco dall’attività milanese, soprattutto per la necessità di rientrare di numerosi crediti ancora insoluti. Nell’ottobre 1496 Ludovico il Moro assegnò ai Negroni una serie di dazi per un valore di 24.000 lire a saldo dei debiti che la Camera ducale ancora aveva con loro (evidentemente con Antonio, deceduto pochi mesi prima).
Di grande interesse è la presenza di Giovanni Negroli all’interno della bottega Missaglia già nella seconda metà del XV secolo (testimoniata dall’esistenza di marchi Negroli su alcuni pezzi), soprattutto perchè suo figlio Domenico fu colui al quale i Negroni affidarono – prima come socio e quindi come affittuario – l’intera impresa, passata poi al figlio Luigi Negroli. La data cardine appare essere il 1504, quando appunto Giovan Angelo Negroni da una parte affittò a Luigi Negroli una bottega di S. Maria Segreta con fucina e camere soprastanti e dall’altra strinse con Domenico Negroli e un altro suo figlio, Nicolò, una società per la fabbricazione e la vendita di armi, i cui guadagni si sarebbero dovuti dividere a metà tra le due famiglie. Tale società, che sarebbe stata sciolta definitivamente nel 1513 pareggiando i conti tra i soci o i loro eredi – sebbene gli ultimi pagamenti si protrassero fino al 1517 – prevedeva che i Negroli potessero utilizzare in toto le botteghe Missaglia per la produzione. Nel 1525, ben dopo lo scioglimento della società, l’intera proprietà dei Missaglia era ancora affittata per 430 lire imperiali l’anno ai Negroli, destinati a sostituirli a Milano e in Europa.
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