NEGOZIO giuridico (XXIV, p. 505)
La materia è stata disciplinata - con riguardo precipuo, ma non esclusivo (art. 1324), ai contratti - dal codice civile del 1942, ove il titolo II del libro quarto è dedicato ai "contratti in generale" Il contratto deficiente dell'elemento soggettivo, sia per fatti che viziano il consenso, sia per fatti che lo escludono, come l'errore sulla dichiarazione (art. 1433), non è nullo, ma solo soggetto ad annullamento esperibile nel termine di 5 anni (articoli 1427, 1442). Al quale criterio è coerente la norma (articoli 590, 799) per cui l'invalidità del negozio a titolo gratuito, da qualunque causa dipenda, è sanata con una consapevole conferma o esecuzione volontaria dell'interessato. Il negozio concluso da chi, per qualsiasi causa, anche transitoria, era all'atto di concluderlo incapace d'intendere e di volere, non è privo di effetti giuridici, ma è soltanto soggetto ad annullamento (articoli 428, 1425 capov. 591, 775, 120), esperibile in materia patrimoniale nel termine di 5 anni e solo in caso di grave pregiudizio nel caso dell'art. 428.
Certi vizî del consenso, come l'errore (articoli 1428, 1431) e il dolo proveniente da un terzo (art. 1439 capov.), non sono rilevanti di per sé, ancorché determinanti, ma solo se riconoscibili o noti all'altra parte contraente. Nel caso che le parti contraenti si siano servite del negozio per raggiungere uno scopo divergente da quello che i suoi elementi e la sua funzione tipica fanno palese, codesta simulazione non può essere opposta, né da esse parti né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede abbiano acquistato diritti dal simulato acquirente, che appariva loro legittimato (art. 1415). Norma, quest'ultima, che, a tutela della buona fede degli acquirenti dal titolare apparente, conferisce a questo la legittimazione a disporre, togliendola, correlativamente, al simulato alienante: il quale non può certamente dolersi di una conseguenza che deriva dal fatto suo volontario dell'aver posto in essere l'apparenza dell'altrui legittimazione.
Secondo la valutazione che si ricava dalle norme sopra citate l'autonomia privata non si esaurisce in un fatto psicologico individuale come la "volontà", ma attiene alla vita di relazione e configura un fenomeno sociale: fenomeno, del quale la volontà è, bensì, un momento importante, ma non più che un momento da tenere in conto insieme con gli altri, senza pregiudizio delle esigenze sociali che ad esso si ricollegano. Se, infatti, nel negozio la "volontà", come fatto psicologico individuale, fosse l'unico fattore decisivo, non vi sarebbe ragione di tenere in piedi o di rimuovere solo dietro reazione della parte interessata (azione di annullamento) negozî nei quali sia deficiente l'elemento soggettivo o la stessa capacità d'intendere e di volere; e neppure vi sarebbe ragione di stabilire l'inopponibilità della simulazione agli acquirenti di buona fede dal simulato acquirente che appariva loro legittimato. In quella ipotesi, sarebbe unicamente decisiva la considerazione che nei casi prospettati manca, per incapacità o per errore, una volontà idonea o manca una determinazione di volontà esente da vizî, o non vi è, da parte del simulato alienante, un'effettiva volontà di spogliarsi della cosa e di conferire al simulato acquirente la legittimazione a disporne. Invece, non è questo il pensiero della legge: segno è che in esso prevalgono altre considerazioni, come quella dell'affidamento creato nella controparte con la dichiarazione emessa (cfr. articoli 1338, 1398), o della responsabilità assunta col porre in essere un regolamento d'interessi, dal quale possono derivare ripercussioni nella sfera giuridica di terzi di buona fede (art. 1415).
La impostazione che i seguaci di una concezione individualistica sogliono dare alla questione concernente la natura del negozio giuridico, se cioè esso sia, o meno, essenzialmente un "atto di volontà", è affetta da un vizio logico, perché non coglie il vero nocciolo della questione e conduce ad una soluzione affermativa, che di per sé è inconcludente. In verità la questione, rettamente intesa, cade non già sul carattere di "atto di volontà", che un negozio normale deve pur avere, ma sulla funzione assegnata alla volontà e sul posto che ad essa deve riconoscersi in concorso con altri elementi nella struttura del negozio. Ora la questione, così posta, non può essere risolta in astratto e con un procedimento atomizzante, rivolto ad isolare la "volontà" dagli altri elementi che con essa concorrono nella complessa economia del negozio; bensì deve essere risolta sul terreno concreto di un dato ordine giuridico, non solo tenendo conto degli elementi, ma soprattutto avendo presenti i problemi pratici, che ogni diritto positivo risolve con l'istituto del negozio giuridico, senza mai dimenticare che essi sono problemi di convivenza sociale attinenti alla circolazione dei beni, problemi che si risolvono con la composizione di conflitti d'interesse astrattamente previsti mediante una valutazione comparativa degli interessi in conflitto. Ora, non si nega che nella normalità dei casi il singolo dichiari o faccia qualcosa di voluto. È da negare soltanto - e tanto più sul terreno dell'attuale diritto positivo italiano - che la volontà si trovi, nel negozio, in primo piano e che la concordanza degli effetti giuridici con la funzione o causa del negozio debba, essa stessa, essere voluta, come si pretende allorché si postula una volontà rivolta agli effetti giuridici.
Bibl.: E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1943, con bibl.; L. Cariota-Ferrara, Il negozio giur. nel dir. privato ital., 1946-48; F. Messineo, Dottrina generale del contratto (articoli 1321-1469 cod. civ.), 2ª ed., Milano 1946; G. Stolfi, Teoria del negozio giur., Padova 1946 (su cui, Giur. it., IV, 1947, pp. 137-144; IV, 1948, pp. 41-59).