necessità (necessitare; necessitate; nicistà)
Il termine designa la proprietà per cui una realtà non può essere diversa da quella che è, e quindi il rapporto che lega l'essenza della cosa alle manifestazioni di essa; designa anche il rapporto tra le premesse e la conclusione di un sillogismo. In relazione al problema della libertà, n. designa la forza cogente del volere divino o dell'influsso degli astri sull'uomo.
Già al tempo di Aristotele i valori del termine erano molteplici. Secondo Metaph. V 5, 1015a 20 ss. ‛ necessario ' è detto: a) ciò senza di cui una realtà non può essere o vivere: respirare e cibarsi non sono causa di vita, ma solo ‛ concause ' o condizioni, e tuttavia senza di essi l'animale non vive; b) ciò senza di cui non può darsi il bene per l'uomo, o evitarsi il male: così è necessario bere una medicina; C) la violenza, o il fare violenza (per il rapporto tra violenza e la volontarietà dell'azione umana, cfr. Eth. Nic. III 1,1110a 1 ss.); d) ciò che non può essere diversamente (" quod non contingit aliter se habere, necessarium dicimus sic se habere "); e) la dimostrazione, in particolare la deduzione sillogistica. Il valore di cui al punto d) fonda tutti gli altri (" secundum hoc necessarium et alia dicuntur omnia necessaria "), di modo che i valori del termine secondo questo testo sono sostanzialmente quattro. Inoltre, in Interpr. 9, Aristotele pone il problema della validità del principio del terzo escluso per le proposizioni contingenti relative al futuro: esse dovrebbero essere o vere o false, ma l'uomo non può affermare i due valori (verità-falsità) che in disgiunzione, essendo impossibile conoscere in anticipo l'andamento di un evento.
Nel Medioevo la dottrina aristotelica è stata ripresa; il testo del De Interpretatione ha dato luogo alla discussione dei futuri contingenti in rapporto alla prescienza divina e, per quanto riguarda l'uomo, al problema della libertà (v.). Ancora al riguardo della libertà, altro problema è se gli astri determinino necessariamente le azioni degli uomini: esso è testimoniato in testi sia dell'antichità (cfr. Tolomeo Tetrabiblos I 2) che del Medioevo (cfr. Bonaventura In Il Sent. d. 14, p. 2, a. 2, q. 3 " Utrum ex impressionibus luminarium causetur in hominibus diversitas morum ": " Dicendum quod mores hominum et eventus futurorum a sideribus causari dupliciter potest intelligi: aut necessario et sufficienter aut dispositive et contingenter "; Tomm. Sum. tbeol. I 115 4 " Utrum corpora coelestia sint causa humanorum actuum "). Ma il rapporto libertà-n. è stato discusso nell'antichità soprattutto in relazione al tema del fato: cfr. Cic. De Fato IX 20 " Nec II, qui dicunt immutabilia esse quae futura sint, nec posse verum futurum convertere in falsum, fati necessitatem confirmant, sed verborum vim interpretantur at qui introducunt causarum seriem sempiternam, II mentem hominis voluntate libera spoliatam necessitate fati devinciunt ".
Secondo D., il mondo è regolato da una n. che è espressione del piano provvidenziale di Dio: in conformità al disegno divino si realizza il movimento della fortuna (If VII 89) e il viaggio nell'oltretomba (XII 87 necessità 'l ci 'nduce e non diletto). Ma tale n. tende sempre a realizzarsi secondo moduli strettamente naturali, conseguenti cioè alla natura stessa delle cose create (Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia, Vn XXIII 3). Essa di solito è insuperabile tranne che per il margine lasciato al libero arbitrio: poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s'accende, / di ritenerlo è in voi la podestate (Pg XVIII 70; cfr. sive necessitate naturae sive voluntarie agat, Mn I XIII 1).
In Pd XV 41 si afferma che il discorso di Cacciaguida è oscuro non per deliberata scelta (per elezion) ma per n., e se ne dà la ragione: ché 'l suo concetto / al segno d'i mortal si soprapuose (vv. 41-42), cioè ciò che Cacciaguida viene esprimendo supera l'umana capacità di comprendere. In Cv III VI 10, invece, è detto che la sua [di Dio] larghezza non si stringe da necessitade d'alcuno termine: Dio è infinito, non è ‛ costretto da limiti ', e l'essere infinito è un attributo della natura divina. Si tratta, in questi casi, e in genere quando la n. è posta in relazione alla natura stessa degli esseri, di quello che nel Medioevo si diceva necessitas absoluta: cfr. Tomm. Exp. Metaph. V lect. VI " Necessitas absoluta competit rei secundum id quod est intimum et proximum ei: sive sit forma, sive materia, sive ipsa rei essentia ".
Analogo discorso va fatto per Pd V 49: gli Ebrei furono obbligati (necessità fu a li Ebrei) a compiere un'offerta anche se questa poteva poi essere riscattata; e ciò perché nel voto, di cui si discute, la convenenza (v. 45), che è la " forma " di esso (così Benvenuto e Buti), già mai non si cancella / se non servata (vv. 46-47).
Al contrario, una " necessitas secundum quid " va ritenuta quella che è imposta dal raggiungimento di un fine o di un bene: così, lo fondamento radicale de la imperiale maiestade... è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice (IV IV 1; cfr. Ep VI 15 Videbitis aedificia vestra non necessitati prudenter instructa sed delitiis inconsulte mutata). La felicità di cui si parla è quella raggiungibile dall'uomo in questa terra; essa è fine naturale e comune della società umana, sul quale riposa la giustificazione ultima della monarchia universale, istituita a togliere gl'impementi che si frappongono al conseguimento del fine (Cv IV IV 4 a queste guerre e le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra... essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; per il carattere ‛ naturale ' o meno dell'istituto Imperiale, v. IMPERO: La dottrina dell'Impero).
Al livello delle umane convenzioni semiotiche si realizzano prescrizioni conseguenti alla natura o forma stessa del sistema adottato; ad esse si può derogare solo grazie a una n., cioè una ‛ motivazione ' sufficiente a giustificare l'eccezione: così, fu necessario a Boezio (questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, Cv I II 13) superare la prescrizione retorica che vietava allo scrittore di parlare di sé stesso, allo scopo di eliminare la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto. In altra occasione anche D. deve nominare sé stesso (Dante... / mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra, Pg XXX 63), e se ne scusa con il lettore in ottemperanza a una prescrizione di ordine superiore a quella meramente retorica (cfr. Cv I II 2-3 parlare alcuno di se medesimo pare non licito, e quindi non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare: si veda Guido Faba Summa dictaminis 7), e cioè relativa all'ordine del discorso di cui si garantisce la piena intelligibilità.
Il termine vale " bisogno " (accostabile all'accezione aristotelica della n. come " concausa ") in Cv I 14: gli uomini possono essere distolti dalla scienza dalla cura familiare e civile che è induttrice di necessitade, e XI 6 [della discrezione] massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano si l'animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono (il Busnelli ricorda giustamente Tomm. Contr. Gent. I 4 " A fructu enim studiosae inquisitionis, qui est inventio veritatis... quidam... impediuntur necessitate rei familiaris ").
Ma la dottrina della n. riveste una particolare importanza nell'ambito del problema della conoscenza. In Cv IV XVIII 4 D. accenna ai due tipi di argomentazione direttamente connessi con la teoria della n., la deduzione sillogistica e l'induzione (cfr. Aristotele Anal. pr. I 5, 42a 3). L'argomentazione ‛ necessaria ' per eccellenza è il sillogismo secondo Aristotele. Nella definizione di sillogismo di Anal. pr. I 1 24b 18-20 (" Syllogismus... est oratio in qua, positis quibusdam, aliud quid ab his quae posita sunt ex necessitate [ἐξ ἀνάγκης] accidit eo quod haec sint ") è affermata la n., che qualifica il rapporto tra premessa e conclusione, e quindi l'operazione logica in quanto tale.
In quest'ambito va compreso l'uso che D. fa della locuzione ‛ di necessitade ', che vale " necessariamente ", e ‛ di necessitade convene. ', che esprime la n. della deduzione in un'argomentazione. L'uso di queste locuzioni ubbidisce prevalentemente a ragioni logiche. Si veda, per la prima, Cv II 111 5 Tolomeo... costretto da li principii di filosofia, che di necessitade 'vuole uno primo mobile; XIV 3, IV XII 18, XIV 5 (cfr. IV IV 4, Pg XVI 69, XVIII 70, XXX 63, citati). Fra le occorrenze della seconda locuzione, degne di rilievo sono Cv I VIII 6 intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono... conviene essere utile a chi riceve; III XIII 4 pare farsi distinzione ne l'umana generazione. E di necessitate far si conviene; XIV 6 come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate; IV XV 5 di necessitade... conviene l'umana generazione da diversi principii essere discesa; e II III 14, III V 8, IV XXIV 10, Rime dubbie XXX 2 di nicistà convenne (cfr. i luoghi citati di Vn XXIII 3 e Cv IVI V 4).
Più esplicito il riferimento al lessico logico nelle opere latine: cum dicitur quod aqua est corpus imitabile orbis lunae, et per hoc concluditur quod debeat esse ecentrica, cum orbis lunae sit ecentricus, dico quod ista ratio non habet necessitatem; quia licet unum adimitetur aliudin uno, non propter hoc est necesse quod imitetur in omnibus (Quaestio 84, e cfr. Sed ista ratio non videtur demonstrare, quia propositio maior principalis sillogismi non videtur habere necessitatem, § 39)., Ma oltre questa n. di un particolare nesso logico, qui il sillogismo, sussiste un'altra n. relativa a un più complesso livello del discorso (in prima [scil. parte] petit divinum auxilium, in secunda tangit necessitatem suae petitionis, Ep XIII 87), e può quindi essere utilizzato per una dimostrazione di ordine filosofico: si aqua, in sua circumferentia considerata, esset in aliqua parte altior quam terra, hoc esset de necessitate altero istorum duorum modorum: vel quod aqua esset ecentrica... (Quaestio 18).
Infine, due luoghi relativi alla tematica connessa con il problema della n. muovono dalla centrale questione del rapporto tra contingenza (v.) universale dell'essere e libero arbitrio (v.). Attraverso la discussione di questo rapporto la cultura medievale tendeva a salvaguardare l'autonomia della persona nella meccanicità cosmica regolata dal finalismo della volontà divina e dal gioco delle influenze celesti o, almeno, a renderlo intimamente coerente con esso in modo che non ne risultasse violato il principio - fondamentale per la dottrina cristiana nella maggior parte dei suoi tratti storici - della scelta volontaria sulla strada della salvezza o della condanna
In questo senso proprio a Cacciaguida, la radice (Pd XV 89), la cara piota (XVII 13), è riservato il compito di dirimere il dubbio di D. sull'obbligatorietà dei destini, e quindi anche delle scelte relative al gran viaggio: La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto etterno; / necessità però quindi non prende / se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente giù discende (XVII 40). Cacciaguida rassicura cioè D. come la contingenza sia principio di fatto limitato al campo della materia e del naturale senza che i futuri possibili, visti compiutamente dalla mente divina (v. PRESCIENZA), siano regolati da alcuna forma di necessità.
La questione, ampiamente discussa nel Medioevo europeo, aveva tra le sue fonti primarie Boezio: " sicut scientia praesentium rerum nihil his quae fiunt ita praescientia futurorum nihil his quae ventura sunt necessitatis importat " (Cons. phil. V IV 20); cfr. anche VI 18-19 " Quid igitur postulas ut necessaria fiant quae divino lumine lustrentur, cum ne homines quidem necessaria faciant esse quae videant? Num enim quae praesentia cernis aliquam eis necessitatem tuus addit intuitus ", e " Fient igitur procul dubio cuncta quae futura deus esse praenoscit, sed eorum quaedam de libero proficiscuntur arbitrio, quae quamvis eveniant existendo tamen naturam propriam non amittunt qua prius quam fierent etiam non evenire potuissent " (V VI 32; cfr. Agostino CIV. V IX-XI). Ma si tenga presente l'argomentazione tomista in proposito: " Deus autem cognoscit omnia contingentia, non solum prout sunt in suis causis, sed etiam prout unumquodque eorum est actu in seipso. Et licet contingentia fiant in actu successive, non tamen Deus successive cognoscit contingentia, prout sunt in suo esse, sicut nos, sed simul. Quia sua cognitio mensuratur aeternitate, sicut etiam suum esse: aeternitas autem, tota simul existens, ambit totum tempus, ut supra dictum est. Unde omnia quae sunt in tempore, sunt Deo ab aeterno praesentia, non solum ea ratione qua habet rationes rerum apud se praesentes, ut quidam dicunt: sed quia eius intuitus fertur ab aeterno super omnia, prout sunt in sua praesentialitate. Unde manifestum est quod contingentia et infallibiliter a Deo cognoscuntur, inquantum subduntur divino conspectui secundum suam praesentialitatem: et tamen sunt futura contigentia, suis causis comparata " (Sum. theol. I 14 13c).
Insieme con la negazione della prescienza divina come forma di una n. universale di carattere metafisico e direttamente connessa con la volontà divina D. ribadisce anche la negazione di una n. mondana connessa al sistema delle influenze stellari in modo da rendere indipendente il libero arbitrio anche da questa forma, secondaria nella gerarchia dell'essere, di determinismo: Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio (Pg XVI 69).
In ambedue queste accezioni è sensibile il distacco del discorso dantesco - orientato su di una problematica della persona in senso agostiniano - dalla trattazione della n. in senso strettamente ontologico.
Il commento dell'Ottimo a If VII 89 permette d'intendere l'articolazione dell'influenza celeste secondo il pensiero di Dante. Il testo tocca la tematica della causalità divina e, collateralmente, quella della fortuna. L'Ottimo si pone innanzitutto il problema di una n. realizzata dalla volontà divina: " Dio, ch'è la prima causa della quale tutte le cose hanno a causarsi per le influenze delle spere, e circuli del Cielo, siccome per cause secundarie, in queste cose di sotto adopera, e fa influenze alcuna volta per necessità, alcuna volta per disposizione e qualitade; per necessitade adopera la celestiale spera nel generare, e producere qualunque nascente: però che necessario è, secondo naturale necessitade causando le virtù della materia celestiale, che uomo ingeneri uomo, bue bue ". Vi è poi una n. della " natura del Cielo " che " dà influenza e disposizione, qualificando e disponendo li uomini razionali ad abitare, operare, e perseguire a cotale pensiero, cosa, o desiderio, quale in esso infonde la celestiale materia: verbi grazia, se il feto, o fanciullo nascerà signoreggiante il pianeta di Giove... non si necessiterà, ma disporrassi, e innanimerassi volontariamente a ricevere, e amare onori, e ricchezze ". I due sistemi d'influenze, divino e stellare, sono però limitati nella loro azione in parte per salvaguardare il libero arbitrio, in parte per spiegare, sempre su fondamenti astrologici, la ragione di destini differenti di esseri segnati ugualmente all'origine: " che per la influenza del Cielo non si causi necessitade nelli uomini, questa è la ragione: la incessabile sapienza dell'onnipotente nostro Creatore in operazione, e somma perfezione di tutti li beni opera nelle creature, e nelle sue operazioni perfettissimamente; lo quale quando perfettamente ebbe creato l'uomo, diede e spirò in lui tre cose: ragione, volontà, e libero arbitrio ". Questo contribuisce a vincere la n. delle influenze ma solo quando sussista un determinato indirizzo al bene. Essa non distrugge il libero arbitrio come fondamento di premi e castighi: " l'umano arbitrio perisce. Questo è falso; e così indarno alli buoni meriti, e alli rei pene si darebbono, però che a loro non si doverebbono dare, perché le loro operazioni non procederebbono da libero arbitrio, né da volontario movimento d'animo, ma da necessitade; e così si darebbe materia agli uomini di peccare... E però sopra la materia delle premesse parole si conclude per necessaria ragione, che della influenza delle stelle, che noi comunemente chiamiamo fortuna, non si infonde necessità di bene e di male, ma veramente disposizione, qualitade, e abito a bene e a male ". Il Lana, commentando lo stesso luogo, deduceva da posizioni analoghe l'esistenza di una n. della " natura " che opera " in necessariis " e, forse, di un'altra della " fortuna ": " perché di natura è scienzia e adovrasi in libero arbitrio; di fortuna non è scienzia e secondo l'autore lo libero arbitrio non ha contrasto con lei ".