Naturalismo
Con il termine naturalismo si designano in genere posizioni tra loro assai diversificate, il cui comune denominatore può essere genericamente indicato nel rifiuto di riconoscere uno status ontologico a entità soprannaturali - come le anime, gli spiriti, i demoni, le divinità, le essenze ideali o le menti cartesiane - e insieme nella scelta di affidarsi ora ai risultati e ai metodi della scienza, ora, e talvolta alternativamente, alla concreta realtà dell'esperienza quotidiana.
A partire dall'Ottocento l'atteggiamento naturalistico, soprattutto relativamente al problema della conoscenza, è stato favorito dai notevoli progressi delle scienze. Tra la seconda metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento - a caratterizzare quello che storiograficamente viene indicato come positivismo - le tendenze psicologistiche in seno alla logica, gli entusiasmi filosofici per la teoria dell'evoluzione, varie reazioni, anche artistiche e letterarie, allo spiritualismo e al romanticismo ottocenteschi, configurarono infatti una vera e propria ondata di adesione addirittura ideologica al primato conoscitivo delle scienze, determinando anche l'esigenza di un rapporto più diretto (nel caso dell'artista) con il mondo naturale e dell'esperienza.
Come categoria filosofica, il n. esprime in generale l'idea che tutto ciò che vi è e tutto ciò che possiamo conoscere appartiene al mondo naturale, e dunque deve essere studiato con i metodi che risultano appropriati a indagare il mondo naturale. Una tale definizione minimale va ulteriormente specificata. È possibile infatti individuare un naturalismo ontologico, secondo il quale tutte le entità del mondo sono quelle e soltanto quelle la cui esistenza è riconosciuta dalla scienza; un naturalismo concettuale o semantico, secondo cui una teoria è naturalistica se tutti i suoi termini sono analizzabili all'interno di un certo vocabolario scientifico privilegiato (per es. quello della fisica, come intendono i 'fisicalisti', o quello della biologia); un naturalismo metodologico, secondo cui soltanto i metodi d'indagine delle scienze naturali producono conoscenza. Considerazione a parte merita il naturalismo etico, secondo il quale le proposizioni a contenuto morale o sono riconducibili a fatti o sono esse stesse proposizioni fattuali (nel senso del n. ontologico), oppure possono essere analizzate nei termini di meccanismi di approvazione e riprovazione che sono meccanismi naturali (nel senso del n. metodologico).
Alcune posizioni naturalistiche si sono ulteriormente articolate negli ultimi trent'anni del 20° sec. in seguito agli imponenti successi delle neuroscienze e delle scienze cognitive, e all'inizio del 21° sec. sono al centro di un'attenzione particolarmente critica in epistemologia e in filosofia della mente. Sebbene, dunque, sia difficile fornire una caratterizzazione unitaria, è possibile far emergere in modo più nitido determinati aspetti e problemi di fondo del n. da una considerazione ravvicinata di alcune delle sue espressioni più eminenti.
Il naturalismo di Quine e Neurath
In un suo influente scritto del 1969, Ontological relativity and other essays (trad. it. 1986), W.V.O. Quine coniò l'espressione epistemologia naturalizzata per esprimere il suo rifiuto della concezione, tipica del neopositivismo e di un certo kantismo, secondo cui vi sono verità a priori immutabili per quanto riguarda la logica o gli schemi concettuali ai quali la scienza si deve conformare, e secondo cui la conoscenza scientifica si fonda su tali elementi a priori così come sui dati empirici. Quine, inoltre, rifiutava i 'dogmi' empiristici della distinzione analitico/sintetico e della riduzione di tutti gli asserti dotati di significato ad asserti su esperienze immediate, concludendo che non è possibile uscire dai nostri schemi concettuali al fine di guadagnare una posizione di privilegio da cui osservare la nostra interazione con il mondo. L'epistemologia, concepita in base a queste premesse, rinuncia alle sue pretese fondazionali e normative e si propone come uno studio empirico della relazione tra input sensoriali e teorie. Inoltre, essa descrive come ci rapportiamo al nostro ambiente naturale usando metodi induttivi, che vengono da Quine intesi come estensioni dell'apprendimento animale. Gli elementi a priori che i razionalisti avevano creduto di individuare diventano universali contingenti della biologia e della psicologia umana, il cui successo è stato garantito dai vari meccanismi di selezione e di sopravvivenza. L'epistemologia naturalistica come concepita da Quine può essere sintetizzata in quattro punti:
a) Contro la 'filosofia prima', aprioristica e trascendentale, che ricerca la certezza e i fondamenti assoluti del sapere, il n. richiede che ci si rivolga alle scienze come candidati paradigmatici per la giustificazione di ogni pretesa conoscitiva.
b) La razionalità della scienza può essere dimostrata soltanto dall'interno della scienza. L'epistemologia filosofica tradizionale non richiede, dunque, di essere in qualche modo supportata o integrata dalla ricerca scientifica, bensì di essere sostituita da essa.
c) I termini dell'epistemologia, come quelli di giustificazione o di priorità epistemica, devono essere sostituiti da termini che hanno un'applicazione di successo nella spiegazione di processi che sono oggetto delle scienze precedentemente riconosciute come naturali (le scienze cui Quine attinge in modo privilegiato sono la psicologia comportamentista, la biologia, la neurofisiologia), e cioè processi che occorrono nella dimensione spazio-temporale.
d) Distinguendo nettamente tra una teoria delle condizioni di verità e una teoria dell'accettazione di pretese di verità, il naturalista quineano conclude che non si deve fornire la giustificazione di una pretesa di verità, bensì la giustificazione dell'accettazione di una pretesa di conoscenza.
La metafora prediletta da Quine, per indicare il compito del filosofo e dello scienziato ed esprimere la sua concezione 'olistica' della conoscenza, è quella della nave, proposta precedentemente da O. Neurath (Protokollsaetze, in Erkenntnis, 1932, 3, pp. 204-14; trad. it. in Sociologia e neopositivismo, 1968). Filosofi e scienziati sono come marinai che devono riparare la propria nave in alto mare, senza poterla ancorare né fermare in un porto sicuro dove trarla a secco. Non vi è una darsena né un cantiere dove lavorare alla nave al riparo dai flutti; e, del resto, il marinaio non può abbandonare la nave per sceglierne un'altra senza falle, perché la sua è l'unica nave. Questo era il senso, fatto proprio da Quine, della metafora con cui Neurath sfidava le posizioni epistemologiche degli altri rappresentanti del neopositivismo logico. Egli, tuttavia, oltre ad avere anticipato molti aspetti del n. di Quine, ne ha anche significativamente ampliato le prospettive. Infatti, se è vero che avrebbe sottoscritto senza riserve le quattro tesi di cui sopra, ne avrebbe aggiunte due che Quine non sarebbe stato disposto a condividere pacificamente e che, invece, costituiranno il tratto distintivo di quel naturalismo storicistico che ha preso campo in filosofia della scienza alla fine degli anni Sessanta, a partire dall'opera di Th. Kuhn.
Neurath intendeva il n. come intenzione di comprendere in toto la pratica umana dell'accettazione delle teorie, non escluso, quindi, neppure il contesto in cui quella pratica viene esercitata (comprensivo dei fattori inerenti l'organizzazione 'politica' interna della scienza, della visione del mondo complessiva di un'epoca, dello sviluppo delle forze produttive ecc.). Per Neurath, dunque, in primo luogo un'epistemologia naturalizzata è chiamata a riconoscere fattori extracognitivi nell'accettazione delle teorie (fattori che, per alcuni storicisti postkuhniani, comportano non solo che non si possa comprendere adeguatamente la conoscenza senza rivolgersi a 'scienze umane', come la storia, la sociologia o l'antropologia, ma che l'epistemologia stessa sia risolta tout-court nella storia in senso lato della conoscenza). In secondo luogo, un'altra questione diventa centrale nella riflessione di Neurath: si può sostituire l'epistemologia tradizionale con qualcosa che è puramente descrittivo, che ci parla soltanto di come noi arriviamo a conoscere e ad accettare le nostre pretese di conoscenza? Deve, l'epistemologia, rinunciare al suo ruolo di critica e di correttivo nei confronti delle direzioni prese dai nostri programmi di ricerca? La risposta di Neurath è che l'epistemologia deve possedere le risorse per criticare pretese inadeguate di conoscenza, per esortare gli scienziati ad assumere 'responsabilmente' i concetti che servono alla loro ricerca, per continuare a combattere la metafisica speculativa, e deve dunque mantenere una sua dimensione normativa.
L'ultimo Quine è sembrato disposto a rivedere la sua originaria idea di epistemologia naturalizzata alla luce di quelli che Neurath suggeriva come possibili ulteriori caratteri per una sua definizione. Relativamente ai problemi implicati dalla tesi di Neurath sul riconoscimento dei fattori extracognitivi nell'accettazione delle teorie, Quine ha rivisto la sua tesi secondo cui la razionalità della scienza può essere dimostrata soltanto dall'interno della scienza, e che quest'ultima deve quindi sostituire l'epistemologia filosofica, e ha finito per riconoscere che anche la cosmologia, o la storia, o persino le scienze sociali sono da considerare altrettanti legittimi successori dell'epistemologia, purché godano del requisito della controllabilità delle loro conseguenze osservative secondo quel modo ipotetico-deduttivo che il tempo ha consacrato. Un correttivo sostanziale è apportato anche relativamente al problema della normatività dell'impresa epistemologica, che Quine ritiene di poter sostenere in base alla natura stessa del successo della scienza. Per es., una delle norme che Quine considera inalienabili da parte dell'epistemologia naturalizzata è la predizione dell'osservazione come controllo di un'ipotesi. Altre norme si possono ricavare dalle scoperte scientifiche; come il fatto che ogni informazione relativa a eventi lontani e ad altre persone ci raggiunge esclusivamente attraverso l'impatto di raggi e di particelle sui nostri recettori sensoriali (il che ci deve portare a diffidare di qualsiasi tipo di esperienza extrasensoriale). Altre norme ancora sono relative all'euristica delle ipotesi che noi pensiamo in vista del controllo empirico (e qui considerazioni di conservazione e di semplicità si vanno a unire, a un livello più tecnico, con quelle suggerite dalla teoria della probabilità e dalla statistica).
La conoscenza personale e l'affidabilismo
Vi è una tradizione di pensiero che, invece di porsi il problema della legittimazione delle nostre conoscenze nel loro complesso, si pone il problema socratico di come noi ci possiamo sentire autorizzati a sostenere che un nostro stato mentale è uno stato il cui contenuto è una conoscenza. Un'annosa tradizione, soprattutto angloamericana, che ha ereditato da Platone la definizione di conoscenza come credenza vera giustificata, tende a rispondere al dubbio scettico che si insinua tra le nostre credenze e il mondo elaborando posizioni fondazionaliste (intese a conseguire una base certa - indubitabile, incorreggibile, infallibile, assoluta - su cui erigere l'intero edificio delle nostre conoscenze) o coerentiste (intese a giustificare le nostre conoscenze in base a una loro sistemazione all'interno di un corpo non contraddittorio di conoscenze consolidate). I tentativi fondazionalisti e coerentisti di giustificare le nostre conoscenze sono considerati tentativi 'internalisti', in quanto assumono che ciò che determina se una credenza è giustificata o garantita sono fattori o stati in qualche modo interni al soggetto, nel senso che il soggetto può esserne conscio, può avere a essi accesso cognitivo o epistemico (v. anche fondazionalismo e antifondazionalismo). Per gli internalisti, inoltre, vale un'accezione 'deontologica' della giustificazione, in quanto essi fanno appello alla responsabilità epistemica o ragionevolezza mostrata da un soggetto nel credere a qualche contenuto proposizionale. Di contro a tali prospettive, i naturalisti, in genere, fanno proprio invece un modo 'esternalista' di dar conto della nostra conoscenza, in quanto fanno appello non a contenuti o a proprietà di stati mentali individuati come fondanti o coerenti, bensì a connessioni esterne tra credenze e realtà appropriate a generare conoscenza. Un atteggiamento naturalista-esternalista, dunque, tende ad abbandonare l'idea stessa che la giustificazione sia una condizione necessaria della nostra conoscenza. In ogni caso, se di giustificazione si tratta, essa non è intesa deontologicamente, come un compito privato da espletare per poter appartenere a una comunità di 'credenti a ragion veduta', bensì è l'appello a un processo o a una relazione esterna appropriata tra la propria credenza e la verità. Secondo A. Goldman, uno dei maggiori teorici di questo n. (Philosophical applications of cognitive science, 1993; trad. it. 1996), una credenza giustificata è (approssimativamente) una credenza ben formulata, una credenza formata (o sostenuta) da metodi, procedure o processi appropriati, adatti o adeguati.
L'idea fondamentale che anima ogni esternalismo consiste, dunque, in questo: a) la conoscenza è credenza che è non-accidentalmente vera; b) ciò che si deve aggiungere a una credenza vera per poterla considerare conoscenza è la connessione appropriata tra la credenza e la verità. E siccome gli esternalisti vanno alla ricerca di qualcosa di affidabile che ci offra una qualche garanzia per le nostre conoscenze, ecco che il termine in uso per caratterizzare questa posizione epistemologica è affidabilismo. Goldman (e con lui la maggior parte degli affidabilisti) ha ritenuto di affermare che la connessione appropriata che lega credenza e verità sia una connessione causale. Il fatto che io veda qualcosa, per es. il foglio di carta davanti a me, è causa della mia credenza che io veda un foglio di carta. Il fatto che il mio vedere un foglio di carta causi la mia credenza che vedo un foglio di carta, sostiene ancora Goldman, porta al mio sapere che io vedo un foglio di carta. È la genesi della mia credenza, e dunque una questione di causazione esterna, piuttosto che la coerenza all'interno di un qualche sistema, che porta conoscenza. L'idea centrale dell'esternalismo è che una relazione con il mondo esterno che spieghi la verità della nostra credenza è sufficiente a convertire una credenza vera in conoscenza, senza che sia necessario, da parte nostra, avere alcuna idea di quella relazione.
Questa prima analisi da parte di Goldman è stata giudicata efficace per dar conto della nostra conoscenza percettiva, ma non per spiegare la conoscenza teorica e la conoscenza di generalità (che i maschi dei mammiferi non figliano, per es., o che gli elettroni hanno una carica negativa ecc.). D.M. Armstrong (Belief, truth and knowledge, 1973) e F. Dretske (Knowledge and the flow of information, 1981) per ovviare a tale insufficienza, hanno teorizzato che la relazione tra la credenza e ciò che la rende vera deve essere costruita in termini nomologici, deve cioè essere una relazione che risulta da una qualche legge di natura. R. Nozick, in modo analogo, ha proposto che la credenza porti con sé la verità in un senso che è in parte esplicato dal seguente controfattuale: io non avrei creduto ciò che credo se non fosse per la verità della credenza (Philosophical explanations, 1981; trad. it. 1987). E ora Goldman, come si è visto sopra, sostiene che una credenza giustificata debba risultare da un processo di formazione delle credenze che conduca affidabilmente alla verità. Goldman, contrariamente ad altri esternalisti che ritengono di disfarsi della giustificazione, ritiene che le credenze che risultano da tali processi siano giustificate. Tutti concordano, comunque, sul fatto che una credenza che risulta da un certo tipo di processo o relazione che connette credenza e verità possa portare conoscenza senza il sostegno di alcuna altra credenza o di alcun altro sistema di credenze.
Gli affidabilisti sono naturalisti perché cercano in natura la relazione tra credenza e verità che costituisce la conoscenza (la causalità è in natura, e le leggi o le regolarità 'legiformi' richieste da Armstrong sono egualmente in natura). La stessa teoria della credenza di D. Hume era, in questo senso, naturalistica, in quanto Hume limitava la sua spiegazione della conoscenza umana a relazioni di causazione, contiguità e rassomiglianza. Gli affidabilisti sono naturalisti, però, in un senso meno radicale di Quine, perché considerano l'epistemologia e la normatività che la caratterizza come sopravvenienti alla scienza, e dunque come in qualche modo dipendenti dalle indagini scientifiche, ma non come sostituite da essa.
Naturalismi liberalizzati
In Mind and world (1994, 19962; trad. it. 1999) J. McDowell, facendo proprie alcune istanze del neopragmatismo americano e delle tradizioni storicistica ed ermeneutica, rivendica la superiorità di un cosiddetto n. della 'seconda natura' su qualsiasi altra teoria naturalistica circa la relazione tra la mente e il mondo. Egli, sulla scia di una distinzione di W. Sellars, contrappone il 'regno della legge' allo 'spazio logico delle ragioni'. Se io vedo un foglio bianco davanti a me, la mia percezione intrattiene una duplice relazione con l'oggetto visto: vedo un foglio perché c'è effettivamente un foglio davanti a me, e questo 'perché' spiega un rapporto di tipo causale (la mia esperienza giunge alla fine di una catena di eventi naturali connessi da una relazione di causa ed effetto) tramite leggi di natura. Ma tale percezione potrebbe benissimo essere allucinatoria. Per essere sicuro che non lo è devo poterne giustificare la correttezza adducendo delle buone ragioni; e giustificare qualcosa mediante ragioni è un'operazione concettualmente diversa dallo spiegare mediante cause: la relazione con la quale intendo giustificare la correttezza della mia percezione è semantica, non causale. E dunque questa mia giustificazione appartiene allo spazio logico delle ragioni, non al regno della legge. Lo spazio logico delle ragioni si differenzia dal regno della legge principalmente perché possiede una dimensione normativa assente nella 'prima' natura. Si pone allora, ancora una volta, il problema di come colmare lo iato tra il regno della legge e lo spazio logico in cui l'intelletto mostra, kantianamente, la sua 'spontaneità' e libertà. Per McDowell, e per molti sostenitori odierni di un n. 'liberalizzato', la risposta sta in una sorta di 'reincantamento' della natura; nell'ammettere che non esiste un'esperienza che non sia già segnata dall'operare dell'intelletto, e che la dimensione normativa e teleologica dell'agire umano è presente nella natura stessa; non perché riducibile a eventi spiegabili tramite le scienze, bensì perché i valori, gli scopi, pur prodotti culturali, sono nella natura come lo è per Aristotele quella virtù morale che, interiorizzata e divenuta comportamento spontaneo, viene a far parte di una 'seconda natura' vincolante e condizionante al pari della natura stessa.
Una tale posizione ancora sedicente 'naturalista', in auge all'inizio del 21° sec., se da una parte riesce a prospettare una soluzione al problema della compatibilità tra normatività e naturalizzazione, dall'altra sembra rinunciare a quei requisiti ontologici, concettuali o metodologici che hanno caratterizzato le versioni storiche del naturalismo.
bibliografia
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