SAPEGNO, Natalino
– Nacque da Giuseppe Maria e da Albertine Louise Viora il 10 novembre 1901 ad Aosta, città della famiglia materna, ma visse i primi anni a Torino, dove frequentò le scuole elementari e ginnasiali, durante le quali ebbe come compagno Carlo Levi, di cui fu amico per tutta la vita.
Nel 1916, affidato con la sorella maggiore Giuliana ai nonni materni, fece ritorno nella città natale dove studiò al liceo classico Principe di Napoli, anticipando di un anno l’esame di maturità. Nel 1918 entrò all’Università di Torino, iscrivendosi alla facoltà di lettere, dopo essere stato incerto se iscriversi invece a quella di matematica. Nello stesso anno conobbe Piero Gobetti al concorso per una borsa di studio del Collegio delle Provincie. Nel 1919 morì prematuramente il padre, segretario capo dell’Intendenza di Finanza di Torino, lasciando la famiglia in difficoltà economiche. Sapegno si laureò il 10 luglio 1922 con Vittorio Cian, discutendo una tesi su Jacopone da Todi, da cui estrasse due articoli editi in rivista negli anni successivi; la tesi, rielaborata, uscì in seguito con il titolo Frate Jacopone, nelle edizioni del Baretti (Torino 1926).
Nel 1924 curò una scelta di Opuscoli filosofici di Tommaso d’Aquino per la collana dell’editore Carabba, la Cultura dell’anima, fondata da Giovanni Papini, e, dopo un anno di supplenza (1923-24) presso l’istituto magistrale Regina Maria Adelaide di Aosta, vinto il concorso nazionale per una cattedra di italiano e storia nelle scuole medie superiori, si trasferì a Ferrara, dove insegnò nel locale istituto tecnico Vincenzo Monti, dal settembre 1925 al dicembre 1936. Nella città estense conobbe un’insegnante, Berta Ghedini, con cui si unì in matrimonio nel luglio del 1929, ma dall’unione con la quale – scomparsa prematuramente nel 1937 – non nacquero figli.
Nel 1930 conseguì la libera docenza in letteratura italiana; dal 1932 al 1936 tenne corsi liberi all’Università di Padova. Nel 1936 partecipò all’‘affollato’ concorso per professore straordinario di letteratura italiana bandito dall’Università di Messina, ove confluirono ben 29 concorrenti di cui 13 furono riconosciuti maturi all’insegnamento. La commissione era formata da Luigi Federzoni (presidente), Ugo Ojetti, membri dell’Accademia d’Italia, Giuseppe Toffanin, Francesco Pastonchi e Carlo Calcaterra (segretario). Riuscito primo della terna, Sapegno fu chiamato all’Università di Palermo, dove insegnò per un solo anno (gli altri due furono Francesco Maggini e Michele Catalano, che ottennero la cattedra rispettivamente al magistero di Firenze e a Messina).
Alla fine del 1937, succedendo a Vittorio Rossi, su proposta della facoltà, fu chiamato per decisione del ministro Giuseppe Bottai, che lo preferì a Luigi Russo, all’Università di Roma, dove insegnò fino al 1976.
Nel 1938 sposò in seconde nozze Maria Elisabetta Posta, da cui ebbe due figlie, Simonetta e Silvia. Nominato ordinario dal 16 dicembre 1939 (la commissione era formata da Giuseppe Toffanin, Alfredo Schiaffini e Luigi Fassò), fra il 1938 e il 1943 fu legato al Gruppo antifascista romano, cui appartenevano fra gli altri Pietro Ingrao, Carlo Muscetta, insieme con gli allievi Carlo Salinari e Mario Alicata (che fu anche suo assistente), dei quali, scomparsi prematuramente, lasciò un commosso ricordo. Fu eletto socio dell’Accademia nazionale dei Lincei, corrispondente dal 1954, nazionale dal 1966. Nella sua operosa vecchiaia fu, fra l’altro, presidente del premio Viareggio dal 1986 al 1990.
Morì a Roma l’11 aprile 1990.
Fondamentale negli anni della sua formazione a Torino fu il rapporto di amicizia e di collaborazione con Piero Gobetti, cui dedicò un saggio nel luglio del 1946 (L’insegnamento di Piero Gobetti, in Rinascita, III (1946), 7, pp. 157-163), nel quale insisteva in particolare su «l’esperienza del comunismo torinese e lo scambio d’idee con Gramsci», contrapponendo l’intellettuale torinese a Carlo Rosselli e al suo socialismo liberale, in una polemica, che si prolungò anche nei decenni successivi (in particolare con Norberto Bobbio), contro il Partito d’Azione (Pd’A), o meglio intorno alla sua eredità. Risalgono agli anni Venti anche le amicizie torinesi più significative: Franco Antonicelli, Federico Chabod, Mario Fubini, e due critici militanti, Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti (del primo recensì favorevolmente Scrittori negli anni, del secondo il postumo Romanzo del Novecento). Sapegno che, giovanissimo, nel 1919 aveva esordito con un articolo su Walt Whitman (in Energie nove, 1919, n. 6, pp. 93 s.), collaborò a La Rivoluzione liberale fin dalla fondazione, per circa un anno, affrontando anche argomenti non strettamente letterari: scrisse di storici come Gaetano Salvemini e Gaetano De Sanctis, del quale aveva seguito le lezioni a Torino. Nel 1924, quando già stava allontanandosi dalla politica militante, pubblicò nel primo numero della rivista quindicinale di critica letteraria Il Baretti, fondata a Torino quell’anno da Gobetti, un articolo, Resoconto di una sconfitta, che, come raccontò molti anni più tardi (v. Il «Baretti» in edizione anastatica. La lezione europea di un giovane maestro, in la Repubblica, 18-19 settembre 1977), gli era stato chiesto «nei modi di amichevole ingiunzione» dal giovane editore. Sapegno prendeva subito le distanze dalla lettura di Benedetto Croce data nel primo Novecento, sintetizzando la lezione del filosofo e del critico in una definizione nuova del concetto di poesia e in una chiara distinzione dell’arte dalla filosofia. I veri e migliori crociani erano per lui Renato Serra, Alfredo Gargiulo, Emilio Cecchi. Bisognò attendere qualche tempo, quando, letti gli Ossi di seppia di Eugenio Montale nelle edizioni di Gobetti, subito riconobbe una voce nuova nella poesia italiana, parlandone poi in un articolo nella stessa rivista, in forma di lettera a Mario Fubini firmata con lo pseudonimo Silvestro Gallico.
Il libro su Jacopone, crocianamente inteso a distinguere i valori poetici e impoetici del testo e ben diverso per questo dagli studi maggiori della scuola storica, di Alessandro D’Ancona e Francesco Novati, fu valutato dall’autore nella sua maturità non privo «di giovanile inesperienza e di acerbo entusiasmo». Tuttavia mostra già un interesse per i secoli alti della nostra letteratura che divennero centrali nella sua produzione: si pensi ai saggi successivi, su La lingua e l’arte di Cecco Angiolieri (in Convivium, I (1929), 3, pp. 371-382), sullo stil nuovo (Dolce stil novo; Dolce stil novo. Dal primo al secondo Guido; Dolce stil novo. Le rime di Dante, in La Cultura, n.s., IX (1930), rispett. n. 5, pp. 331-341, n. 6, pp. 409-424, n. 10, pp. 801-817) e su Antonio Pucci (Scrittori del Trecento: Antonio Pucci, Firenze 1933).
Nel 1934, grazie all’autorevole segnalazione di Giulio Bertoni, fu insignito con il premio dell’Accademia d’Italia per il volume Il Trecento, pubblicato nella Storia letteraria d’Italia dell’editore Vallardi (Milano 1933), che sostituiva la vecchia opera omonima di Guglielmo Volpi (1867-1938) apparsa nel 1902.
Come questa, si apriva con un capitolo dedicato al Dolce stil nuovo, in cui Sapegno si muoveva con indipendenza rispetto alle interpretazioni dominanti. Ma poi, discostandosi dalle orme del suo predecessore, trattava subito la poesia realistica borghese, la fortuna di Dante e la prosa dei volgarizzamenti, per dedicarsi poi ai due maggiori trecentisti. Anche se non mancano riprese letterali di alcuni titoli (per esempio, i capitoli relativi alla ‘letteratura religiosa’ e alla ‘letteratura popolare e popolareggiante’), il piano dell’opera è completamente diverso, configurandosi come un repertorio di consultazione che tuttavia e al tempo stesso vuol essere un’opera di storia letteraria in cui è evidente la lezione teorica di Croce, in particolare nel caso di Francesco Petrarca. L’interpretazione del poeta, infatti, dipende, oltre che dal saggio desanctisiano, da quello crociano, Sulla poesia di Petrarca, apparso per la prima volta nel 1929 e recensito da Sapegno (in Pegaso, II (1930), 3, pp. 369-371). Non meno importante è il capitolo su Giovanni Boccaccio, nel quale rivaluta con misura le opere minori (in particolare il Filocolo, l’Ameto per le parti in prosa, l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano), appuntando l’attenzione sugli esercizi letterari giovanili antecedenti al capolavoro. Soprattutto nuova è la posizione critica nei riguardi dell’interpretazione desanctisiana, posizione mediata da Croce, di cui Sapegno aveva recensito il saggio Il Boccaccio e Franco Sacchetti (5, pp. 621-623), in polemica con il quale rivendica la funzione di moralista all’autore del Decameron. I due capitoli su Petrarca e Boccaccio furono lodati in particolare da Bertoni in una lunga recensione apparsa nel Giornale storico della letteratura italiana (CVIII (1936), 322-323, pp. 278-286), in cui definiva Sapegno «seguace intelligente e autonomo del Croce».
Storico della letteratura, ma anche attento lettore dei contemporanei (fu recensore assiduo nei periodici diretti da Luigi Russo, Il Leonardo e La Nuova Italia, di alcune delle opere più notevoli pubblicate intorno al 1930, soprattutto di poesia, da Ossi di seppia a Preludio e fughe, da Vincere il drago! di Arturo Onofri a Caprizzi di Virgilio Giotti), con il fortunato Compendio di storia della letteratura italiana (I-III, Firenze 1936, 1941 e 1947) diventò per generazioni di studenti l’autore della storia della letteratura italiana per antonomasia. Al Compendio si affiancarono il Disegno storico della letteratura italiana (Firenze 1949), riduzione scolastica che riproponeva il titolo di un noto manuale ottocentesco di Raffaello Fornaciari, ed Europa. Antologia di autori italiani e stranieri per il ginnasio superiore e il primo biennio del liceo scientifico (Roma 1959), per la quale aveva tradotto lui stesso vari testi. Il Compendio, dati i tempi lunghi della sua composizione (i primi due volumi uscirono in pieno fascismo, l’ultimo nel secondo dopoguerra, di cui condivise le speranze di rinnovamento etico-politico), documenta bene il crocianesimo iniziale di Sapegno, maturato negli anni dell’università, e la sua crisi, nel segno del ritorno a De Sanctis propugnato da Antonio Gramsci, di cui recensì Letteratura e vita nazionale (in Società, VII (1951), 2, pp. 348-355). D’altronde già nel profilo di Croce, nel capitolo del volume dedicato alla letteratura del Novecento (v. Compendio..., cit., III, Dal Foscolo ai moderni, Firenze 1947, p. 337), aveva preso apertamente le distanze dal filosofo. Questo suo giudizio deve essere inquadrato non solo in un processo di personale affrancamento dal pensiero crociano, ma anche in un contesto storico ormai dominato dalla contrapposizione, letteraria e politica, tra Croce e Gramsci: nel 1944 Sapegno si era iscritto al Partito comunista italiano (PCI), da cui uscì dopo i fatti di Ungheria del 1956. Di lì a pochi anni il ritorno a De Sanctis prese corpo nell’edizione Einaudi delle opere, promossa da Carlo Muscetta, alla quale Sapegno collaborò con le introduzioni al Saggio sul Petrarca (Torino 1952, pp. I-XXII) e alla Storia della letteratura italiana (Torino 1958), entrambi curati da Niccolò Gallo. Seguì, nel 1961, l’introduzione al volume ricciardiano delle Opere, ma la linea interpretativa era stata anticipata dal saggio Manzoni tra De Sanctis e Gramsci (in Società, VIII (1952), 1, pp. 7-19), nel quale l’analisi gramsciana appariva l’approfondimento «su un terreno più ampio» della critica di De Sanctis. Onde anche il giudizio complessivamente negativo sulla letteratura del secondo Ottocento, da Giosue Carducci a Gabriele D’Annunzio, e del primo Novecento, considerata un’involuzione «aulica classicistica e rettorica». E in particolare su D’Annunzio, giudicato «una specie di Monti o di Marino redivivo», Sapegno non mutò parere, come si vede già dal titolo dell’articolo apparso in La Stampa il 17 aprile 1963, nell’anno del centenario della nascita, D’Annunzio fu più retore che poeta; restò un dilettante estraneo al suo tempo, con cui iniziò la sua collaborazione al quotidiano torinese.
Con il dopoguerra si aprì un periodo di fervore critico ben rappresentato dagli studi sette-ottocenteschi, su Giannone, Alfieri, Porta, Manzoni, Leopardi, De Sanctis, Belli, Cattaneo, Giusti, Carducci, Verga, successivamente riuniti in Ritratto di Manzoni e altri saggi (Bari 1961), in cui il saggio eponimo, apparso per la prima volta con il titolo Manzoni e il primo Risorgimento (per cui si rimanda a Risorgimento, I (1945), 1, pp. 67-80), tratteggiava i lineamenti dello scrittore in funzione anticrociana, affermando la vanità della questione «se i Promessi Sposi siano un’opera di poesia o di oratoria; questione nata sul fondamento di una dottrina estetica, che ritiene di non poter salvare l’autonomia dell’opera d’arte se non collocandola per così dire fuori dalla storia» (cfr. Manzoni. Lezioni e saggi, a cura di C. Fenoglio e con introd. di N. Borsellino, Torino 2009, p. 277).
Alla sua attività di studioso su periodici quali il Giornale storico della letteratura italiana (sul quale cominciò a pubblicare nel 1935, diventando poi condirettore insieme con Salvatore Battaglia, Gianfranco Contini, Mario Fubini, Vincenzo Pernicone, Raffaele Spongano e Giuseppe Vidossi nel 1953), e Belfagor, Società, Rinascita nel dopoguerra, affiancò poi un’intensa collaborazione alla stampa quotidiana, dapprima su l’Unità, poi su La Stampa e, in tempi più recenti, su Il Giorno. Agli stessi anni appartengono anche i contributi desanctisiani, in parte già citati, e il fondamentale commento alla Commedia (Firenze 1955-1957; Milano-Napoli 1957) che conclude il lavoro critico sul Trecento, scandito dai tre volumi ricciardiani dedicati a Petrarca (Milano-Napoli 1951), cui seguirono Boccaccio e i rimatori minori del secolo XIV (entrambi, Milano-Napoli 1952).
Nel solco di De Sanctis Sapegno riprese la lezione di Erich Auerbach a proposito dell’unità della Commedia, come risulta chiaro nel consuntivo della critica dantesca, steso per la ricorrenza del centenario (La critica dantesca dal 1921 ad oggi, in Atti del congresso internazionale di studi danteschi... 1965, Firenze 1965-1966, II, pp. 263-274). Del dantista tedesco in particolare apprezzava il «criterio di interpretazione “figurale”» che rovescia l’impostazione crociana, muovendo «dalla struttura per approfondire la comprensione della poesia, per accorgersi alfine che i due termini non si contrappongono» (p. 430). In questa prospettiva, di definitivo superamento delle posizioni crociane, Sapegno nel capitolo dantesco della Storia letteraria del Trecento (Milano-Napoli 1963, pp. 29-168) e in quello successivo della Storia della letteratura italiana, edita da Garzanti in nove volumi (Milano 1965-1969, II, pp. 7-183), progettata e diretta insieme con Emilio Cecchi all’inizio degli anni Sessanta, segnava la distanza nei riguardi dell’interpretazione crociana. In linea con le acquisizioni critiche di dantisti più giovani di lui come, per esempio, Gianfranco Contini, da cui lo divideva il dissenso sull’attribuzione del Fiore (pp. 169 s.), ma lo univa l’accordo su molte altre questioni, dall’atteggiamento verso l’interpretazione di Croce al giudizio sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande (p. 139; e, più distesamente, nella Storia della letteratura italiana, II, pp. 83-87), Sapegno si collocava ormai decisamente fra gli studiosi postcrociani.
Fonti e Bibl.: Morgex (Aosta), Fondazione Centro di studi storico-letterari Natalino Sapegno-Onlus; C. Salinari, N. S., in Letteratura italiana, I critici, V, Milano 1970, pp. 3585-3605; L. Caretti, Storiografia letteraria di S., in Id., Sul Novecento, Pisa 1976, pp. 270-280; E. Bonora - M. Pozzi, N. S. (necr.), in Giornale storico della letteratura italiana, CLXVIII (1991), 544, pp. 625-632; C. Dionisotti, N. S. dalla Torino di Gobetti alla cattedra romana, Torino 1994 (poi in Id., Ricordi della scuola italiana, Roma 1998, pp. 477-488); M. Corti - D. Della Terza - G. Gorni, Il Dante di S. nella critica del Novecento, Torino 2002; N. S. e la cultura europea. Convegno internazionale di studi, Aosta-Morgex... 2010, a cura di G. Radin, Torino 2011. Di notevole interesse è il volume Le più forti amicizie. Carteggio (1918-30), a cura di B. Germano, Torino 2005, che, soprattutto per i primi anni Venti, bene documenta la vastità delle letture di Sapegno e i suoi rapporti culturali con l’ambiente torinese.