DELLA TORRE, Natale
Nacque a Vicenza in data imprecisabile del sec. XV, comunque, con tutta probabilità, non anteriore al 1470.
Per delinearne il profilo occorre, anzitutto, sgombrare il campo da un fuorviante errore dell'editore dei Diarii del Sanuto il quale - laddove i due nobili goriziani Niccolò e Michele Della Torre, fatti "presoni", nel marzo del 1514, "in Friuli", vengono detti "fradelli del vescovo di Lubiana" - ha corretto, a proposito di quest'ultimo, con "rectius di Veglia". Evidente l'itinerario della svista: poiché l'"episcopus labacensis" effettivo era allora Christoph Rauber, poiché tra i titolari dei vescovati coevi non risulta altro Della Torre che Natale vescovo di Veglia (a dire il vero non lo è, nel 1514, ancora; ma l'editore, deciso a correggere, non è andato per il sottile), ecco che questo viene affratellato ai due prigionieri di riguardo e traslocato pertanto nel ramo goriziano dei Della Torre, il più connotato da convinzioni filoimperiali e da animosità antiveneziana. Esatto, invece, Sanuto nella sostanza, anche se impreciso nella forma: i due, Niccolò e Michele, sono fratelli non già del vescovo titolare di Lubiana, ma del coadiutore di questo, Giorgio Della Torre. E il R non è nobile goriziano (sarebbe impensabile un vescovato veneto assegnato a chi non è suddito della Serenissima), ma vicentino. Lo dice Sanuto, in data 11 giugno 1516, quando, appunto, annota che, su proposta dei consiglieri e dei capi della Quarantia, il Senato approva, con 109 voti a favore e 5 contrari, il "dar possesso" - nel senso di ratificare la nomina romana dell'episcopato vegliense "a uno vicentino" - nativo di Vicenza cioè e, forse, stando all'appellativo, nobile - "domino Nadal de la Torre".
Un dato certo, allora, questo della vicentinità del D. - presenti, d'altronde, a Vicenza, specie nel Quattrocento, altri Della Torre, taluni dei quali ecclesiastici, come risulta da iscrizioni sepolcrali sia nella cattedrale sia nella parrocchiale di S. Michele Arcangelo (G.T. Faccioli, Musaeum lapidarium Vicentinum..., I, Vicentiae 1776, pp. 3 n. 8, 130 n. 18) - ribadito, in una lettera del 24 maggio 1533, dal nunzio pontificio a Venezia Girolamo Aleandro, il quale - per distinguerlo da un altro religioso che, invece, è "Iongo" - lo definirà "bassotto vicentino" così rimarpandone la corporatura tozza e, appunto, bassa. Sconcerta un po' il fatto che Barbarano, diffuso rievocatore seicentesco della storia ecclesiastica di Vicenza, nel diligente elenco dei concittadini investiti di "dignità ecclesiastiche" al "di fuori" della "patria", non nomini, tra i "vescovi", il Della Torre. Né d'altro canto, Barbarano accenna a suo fratello Donato Della Torre che, quand'è "rector parrocchialis ecclesiae s. Iustinae de Baldaria vicentinae diocesis" - titolare cioè del beneficio parrocchiale di S. Giustina di Baldaria (una "colleggiata" senza "giurisdizioni pievana" secondo G. Mantese, La chiesa vicentina, Vicenza 1962, p. 222) ammontante, stando alla tarda stima dello stesso Barbarano, a 90 ducati (F. Barbarano de Mironi, Hist. eccl. dì Vicenza, VI, Vicenza 1762, p. 119) - papa Innocenzo VIII, il 17 dic. 1484, crea "episcopuni" di Veglia, assolvendolo, nel contempo, "a censuriis et sententiis" nelle quali fosse eventualmente incorso. Ed è appunto come vescovo di Veglia che, il 16 marzo 1515, il D. succede a Donato trasferito nell'episcopato "bosonensis" - i cui titolari sono soliti risiedere a Diakovar (Djakovo) in Schiavonia, nel regno d'Ungheria, ove rimane sino al 1526, quando, probabilmente in seguito alla sua morte, gli subentra Giorgio "de Polisma".
Quanto al silenzio. del pur catalogante e inventariante Barbarano sui due (il D. e il fratello), o si tratta d'effettiva ignoranza della loro esistenza o di voluta omissione, ché senz'altro il D. non fu figura edificante e, forse, nemmeno Donato ebbe un comportamento specchiato o, quanto meno, non fece alcunché di registrabile nelle pur ricettive e corrive memorie devote della sua città.
Approssimative e confuse le notizie sul D. di Daniele Farlati, ma non da scartare. Se ne evince che il D. si assenta da Veglia per recarsi anche a Roma - non certo, però, come vuole Farlati, per partecipare all'inesistente sessione del 4 marzo 1514 dei quinto concilio lateranense, ma, semmai, a quella del 4 maggio 1515 (non v'è, comunque, traccia del D. tra i "nomina praesentium"), vale a dire la decima decretante sugli istituti di prestito e sulla censura dei libri - e che, durante detta sua assenza, ne assume le funzioni l'"episcopus bosonensis", il fratello Donato, cioè, che ama, perciò, qualificarsi "perpetuus suffraganeus seu vicarius episcopi vegliensis".
Ed è quest'ultimo - non il D. evidentemente a lungo lontano - a scontrarsi col capitolo e col parroco di Castel Verbenico (Vrbenik) nonché ad intimare, nel 1520, la scomunica ad un'influente famiglia isolana, quella dei Cedolini, così suscitando la "murmuratione" della popolazione. Donde l'ingiunzione trasmessa a Donato - è "bossinese suffraganeo" si preoccupa di precisare Sanuto attento a non confonderlo con il D. - dal provveditore Marcantonio Contarini di presentarsi alla Signoria per riferirne e giustificarsi. A Donato - così le traballanti informazioni di Farlati - il vescovo di Zara Francesco Pisani -raccomanderebbe le monache d'un monastero dell'isola.
Quanto al D., Farlati informa che avrebbe goduto, col consenso di Roma ribaditogli da Leone X, dei proventi di "tria sacerdotia" vacanti e sarebbe stato presule "vindex ac tutor immunitatis ecclesiasticae", granitico difensore degli "iura" di sua competenza. Di qui la fiera opposizione ai ricorrenti tentativi del metropolita zaratino per sminuirli, mentre da altre fonti s'apprende che reali contrasti "de regimine ecclesiae" si scatenarono soprattutto tra il D. e il fratello. D'entrambi, comunque, assicura Farlati, gli "acta iudicialia" rimasti nell'archivio vescovile nonché "quaedam sapientissima constituta". Una valutazione positiva che non esita a concludere aver svolto il D. "plures annos" i suoi doveri vescovile "sapienter et pieque" ad essi rinunciando, spontaneamente e col consenso di Clemente VII, nel 1528. Ne risente il giudizio della storiografia dalmata ottocentesca, a veder della quale il D., "di nobilissima famiglia", si batté strenuamente contro l'ignoranza della popolazione, fu severissimo coi preti concubinari e in genere aspramente rampognante nei confronti di tutto il clero - in effetti, questd (oltre 300 i "preti, diaconi e subdiaconi" su di una popolazione che non supera i 1500 abitanti) rasentava un vero e proprio analfabetismo ed era costretto, per vivere, all'esercizio di mestieri manuali, si che non mancavano tra le sue fila "marangoni, calegeri, barbieri" (in Rel. di provv. gen.... di Veglia, in Atti e mem. della Soc. istr. di archeol. e storia patria, 111[1886], pp. 99, 103) - riottoso ad ogni disciplina e refrattario ad ogni richiamo ai propri compiti. Sarà questo stesso clero - fa presente la storiografia ottocentesca - ad avvelenare il successore del D. Eusebio Priuli.
Ma quanto sul D. è appurabile non gli concede la minima parvenza d'austerità, deturpa ogni sua effigie con qualche ambizione di dignità. Il 21 maggio 1521 papa Leone X scrive a Contarini "civitatis et insule ... provisori" che è stata promossa, dal cardinale di S. Eusebio (vale a dire il vescovo d'Ancona Pietro Accolti) il quale deve, appunto riferirne "in consistorio nostro secreto". una causa "super regimine et administratione" della chiesa di Veglia "contra, Natalem qui se gerit pro episcopo Vegliensi".
Il cardinale Accolti, spiega Leone X, ha disposto il sequestro dei relativi "fructus, redditus et proventus", deputando, a tal fine, "venerabilem fratrem Donatuni episcopum bonanensem utpote fide et facultatibus idoneurn". Sia insomma il fratello il custode delle rendite sequestrate. "Nos", aggiunge il papa, "sequestrationem", con un breve, "approbavimus". Di qui la richiesta a Contarini d'assecondare, con la sua autorità, l'operazione: "nobilitatem tuam, que ad reddenduin ius deputata est, hortamur ut opem et operam efficaces adhibere velit" sicché Donato "fructus in sequestrum, iuxta mandatuni sibi factum, retinere valeat". Un appello che si spiega solo supponendo una vera opposizione da parte del D. al provvedimento, al punto da mettersi in urto con Donato.
Quanto al "clerus veglensis", rinnova compatto, il 12 luglio 1524, un'antecedente richiesta di rimozione a papa Clemente VII, cui ha già fatto presenti, "per procuratores nostros", gli "scelera et enormia delicta" del D., la sua vita disonesta e scandalosa.
Unanime la supplica al pontefice, "ut eundem Natalem, qui in veritate verus pastor noster non existit, ob cius delicta a nobis amovere", dando, invece, "nobis et ecclesie veglensi" l'agognata possibilità di valersi "bono pastore". Già il papa ha incaricato gli auditori di Camera ed il governatore dell'Urbe d'indagare "de excessibus et de mala vita ipsius Natalis" per darne conto in "consistorio suo secreto". Detti "iudices" - riepiloga la supplica -, oltre ad ingiungere al D. di comparire "personaliter", hanno inviato "ad partes nostra remissioniales" per un supplemento d'indagine "super delictis" del vescovo. Questi sono notori, di per sé non più bisognevoli di poggiare su "Probatione" ulteriore. Comunque, dal rinnovato (e, fanno capire i supplicanti, superfluo) ascolto di testimoni, chierici e laici, fededegni, l'indegnità del D. s'è riconfermata indubbia sicché "de iure episcopatu ... privari debeat". Conceda, insiste il clero isolano, perciò il papa "bonum pastorenl qui, doctrina et exemplo pascat". Farà così il bene dei fedeli e "procul dubie" gioverà allo stesso Della Torre. Ché, in caso contrario (e qui la supplica sfiora la minaccia), il clero sarà costretto a disertare "ecclesiam ipsain", la popolazione sarà indotta ad "insurgere 4 contro "dictum Natalem ob eius malain et obstinatam vitam".
Esasperato dalla lentezza romana, il clero di Veglia richiede il 12 dicembre, per la terza volta, la cacciata del Della Torre. Certo se ne parla in concistoro il 14 marzo 1526 e, di nuovo, di lì a poco, mentre il D., recatosi a Roma, "è - così Sanuto il 21 riassumendo le informazioni di lì giunte - in prexon". Pressoché certo che "sarà privato dil vescovato", appetito da "uno domino Bernardin di Comitibus" di Pavia. Approfitta di questa ventilata candidatura non veneta il prigioniero - che dev'essere in grandi angoscie, essendo stata letta in concistoro una dettagliata relazione sui suoi misfatti - per far giungere al reppresentante veneziano Marco Foscari "certa scrittura" ove s'argomenta che "quel episcopato è ius patronatus di la Signoria nostra". Una mossa non priva d'abilità ché vale a ritardare la decisione a suo danno. C'è, infatti, l'effetto rallentante dell'intervento, voluto dalla Repubblica, degli ambasciatori Foscari e Domenico Venier che chiedono a Clemente VII di soprassedere alla nomina del nuovo vescovo, appunto, perché la sede è giuspatronato veneto. Col che si scoraggiano, prima ancora che sia dichiarata vacante, le aspirazioni dei non veneti ad essa. Intanto, il 2 maggio, il vescovo di Treviso Bernardo Rossi e il procuratore fiscale Marco de Perruschi recano in concistoro ulteriori elementi a sfavore del Della Torre. Il papa, cui viene rimesso il caso, l'affida ad una commissione di tre membri e, ragguagliato da questa, finalmente, il 9 ott. 1528, provvede al vescovato di Veglia "vacans pro cessione" del Della Torre. Sembra, stando a Sanuto, un normale avvicendamento: il 10 febbr. 1529- così il diarista - "fu posto" in Senato, "per li consieri ... dar il possesso del vescovado ... al reverendo domino don Eusebio di Prioli abate di san Michiel di Muran, di l'ordine camaldolense, qual" il D. "cesse al prefato abate, come apar per le bole ... date a Roma", appunto, il 9 ottobre; e la "parte" viene approvata con 159 voti a favore, 10 contrari, 9 "non sinceri".
Dalla lettera d'Aleandro del 24 maggio 1533 s'apprende, in più, che il D., uomo a detta del nunzio "ribaldo nephando" e "indegno et scelerato", condannato. come "falsaro et sacrilego et venefico", alla galea, ha approfittato dello sconvolgimento del sacco dell'urbe del 1527 per sfuggire alla pena e rintanargi a Venezia.
Sdegnatissimo l'arcigno nunzio all'idea che il D., "quello che in tempo di la felicità" di Roma l'aveva intaccata con la sua inquinante presenza, sia stato così smaccatamente agevolato dalla "ruina" della città. Pochi i cenni sanutiani sul soggiorno lagunare dei D., che il diarista continua a chiamare "vescovo" o "episcopo" di "Veia". Si parla di lui il 1° ott. 1528, in una riunione delle due Quarantie, la civile e la criminale, nella quale l'avogador di Comun Piero Boldù, accusando di "manzarie" il collega Michele Trevisan, cita, tra queste, i 6 ducati "et uno bisaco fornito d'arzento" passatigli, in cambio non si sa di che favore, dal Della Torre. Ma a parte l'ombra di questo episodio sospetto, il D. figura in altre pagine di Sanuto, senza disdoro, negli elenchi dei presenti a questa o quella cerimonia. Assieme al doge splendidamente addobbato, agli ambasciatori riccamente vestiti, ai procuratori in pompa magna non manca mai una manciata di vescovi - quello di Baffo, quello di Pla, quello di Chisamo, quello di Traù, quello di Sebenico, quello di Nona - che da un lato fa numero, dall'altro attesta così la propria presenza. E "lo episcopo di Veia" - che nella "taxa fatta al clero", il 24 sett. 1527 e di nuovo nell'aprile del 1532, "per li VII savi" figura con 100 ducati - è assiduo in siffatte occasioni, incede, anch'egli, con le autorità, è, talvolta, tra i convitati di pranzi ufficiali, è, quando può, commensale nei banchetti. Ma, contrariamente a quanto reputa l'editore di Sanuto, non è lui, ma il vescovo di Veglia allora in carica Giovanni Rosa che, il 9 maggio 1532, "zorno di la Senza", nella cerimonia dello sposalizio, assente il patriarca, "fece l'officio" e che, il 1° novembre, sempre in assenza del patriarca, celebra la messa, cui assiste il doge, e "dete la indulgentia de zorni 40".
Ma una presenza così sbiadita e innocua nelle annotazioni sanutiane (ove, peraltro, non è nemmeno sicuro che il cenno riguardi sempre il D. anziché i suoi successori) si colora di ben altre tinte nella corrispondenza del nunzio Aleandro.
Per questo il D. è lo "scelaràtissimo" autore di continui "scandali... grandi e notorii" in "tutto 'l paese", è l'ecclesiastico infame che s'aggira "vestito da furfante", che vive senza fissa dimora bazzicando "taverne" e "lupanari", imbrancandosi con gentaglia della peggior risma, accompagnandosi "ladri, marioli et furfanti". Non basta: "ha fatto - prosegue il nunzio - tante inique et abominevoli ordinationi di persone indignissime, di ladri, di assassini" nei "luoghi" più sordidi, "a tempi impertinentissimi". Non contento s'è pure dato alla consacrazione di chiese. Insozza la veste con "stupri", s'involtola bestiale in vizi "innominabili". Emette bolle false "con le antedate", una delle quali, confezionata nella settimana pasquale del 1533, "ha messo in furor tutta" Venezia e il "Dominio". Un cumulo di "scelleragini et infamie" di cui dovunque si protesta, per cui da ogni parte si viene a "discarricar contra di lui". Vane le ripetute ammonizioni del nunzio, menzognere le profferte di pentimento del D-., senza seguito le sue promesse di cambiar vita, di trasferirsi a Roma. Egli prosegue imperterrito nelle sue "ribalderie", giungendo al punto d'estorcere denaro - dapprima vuole 50 ducati, poi s'accontenta dei 18 per lui racimolati - da una povera madre, disperata pel figlio in prigione a Brescia, che egli, con un paio di bolle dalle date posticce, fa figurare "chierico", senza che per questo sia liberato. La poveretta, così imbrogliata, va a protestare da Aleandro che nulla può fare. Da un lato la bolla "clementina concessa" alla Repubblica "contra huiusmodi clericos", non li sottrae alla giustizia civile, dall'altro il vescovo di Brescia, il cardinale Francesco Corner, sospetta della truffaldìna nomina del D., "persona ... notoria a far simili delitti".
Più che tanta mascalzonaggine angoscia Aleandro il pericolo che il D. rappresenta per la "conservation" della giurisdizione ecclesiastica, pel mantenimento del decoro della "dignità episcopale". Col suo scandaloso comportamento rischia d'attirare i fulmini della Repubblica. Urge impedire a "questo mostro" d'ingrossare la lista delle sue malefatte. Egli ardisce, in un isolotto lagunare, conferire a tre individui i gradi di subdiacono, di diacono, di prete. A Treviso, per fortuna cacciato da quel vicario vescovile, tenta di proseguire nelle sue disinvolte ordinazioni sacerdotali. Occorre anticipare in qualche modo l'intervento statale. Poiché osa frequentare palazzo ducale, il 24 maggio 1533, il nunzio, "cautamente" e senza clamore, riesce a farlo "rinchiuder in una di quelle preggioni" escogitando, a giustificazione della retenzione, che questa viene disposta "per nome et ordine" del papa "dicendo che" questo "m'havea.così commesso". Un espediente ingegnoso (il D. viene incarcerato per volontà della S. Sede prima che della Repubblica), ma non efficace, ché nemmeno in prigione il "ribaldo" si placa, anzi crea guai peggiori. Forse non è soltanto un furfante, come vuole il nunzio, forse lo affligge-una sorta di raptus vescovile, forse lo perseguita, a mo' di maniacale ossessione, d'irrefrenabile impulso, la memoria dei riti e dei gesti connessi colla dignità episcopale. Forse è anche tragica, non solo farsesca la parodia del vescovo che il D. esegue in carcere. C'è una vena di follia nella grottesca cerimonia della cresima e dell'ordinazione sacerdotale che egli vi organizza. Esterrefatto ne dà notizia Aleandro: "el dì seguente ch'io l'haveva fato ritener ... lui chrismò in prione non so chi et ordinò alcuni prigionieri".
Comprensibile il nunzio s'affretti a farlo uscire e a sistemarlo "in un luoco" del monastero lagunare di S. Salvatore "dove sta meglio che non merita", in attesa che a Roma si decida il da farsi "di questo vescovo, il quale sarebbe meglio retruder in qualche" convento, dove, privato dell'"essercitio dell'ordine" e impossibilitato a compiere "cose nefandissime" che inducano l'autorità politica ad intervenire con una disposizione "prejuditiale alli sacri canoni et honore ecclesiastico", possa vivere modestamente sotto ferreo controllo. Fatto sta che il D., conniventi probabilmente i monaci "malcontenti" d'un ospite non gradito e del connesso obbligo di mantenerlo e di fargli la "guardia", complici forse dei "suoi parenti", come scrive furibondo il 27 settembre il nunzio, o ha levato con lime li ferri delle finestre et se ne è andato con Dio". Da una successiva lettera, dell'8 genn. 1534, dallo stesso s'apprende che il D. è a Roma ove Aleandro s'augura che, "restando" nella o suspension d'animo" provocata dalla minaccia d'un severo "processo", non osi compiere "alcuna sceleraggine". Ad ogni modo è per lui un grosso sollievo che lo sciagurato non sia più in terra veneta. Certo (così in una lettera del 20 giugno ove per l'ultima volta nomina il D.) è ben disgraziata la Chiesa di Veglia in fatto di vescovi dopo quel "mostro" del D., "qui vultu morbum incessuque fatetur", c'è stato quello "sfratato simoniaco" d'Eusebio Priuli (cui anche di recente s'è attribuito "zelo pastorale"), mentre il vescovo "presente", lo zaratino Giovanni Rosa, non è di loro "molto miglior", ma solo "più coperto", al punto che Aleandro sospetta che o si beffi della "fede" o, addirittura, ne sia privo. Quanto al D., le sue tracce si perdono a Roma.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, ad vocem nei volumi, usciti a Venezia nel 1888-1902, XXII, XXIII (ma, essendo errata la correzione nell'indice a col. 725, i rinvii di questo valgono per Giorgio Della Torre), XXIX (ma il rinvio a col. 161 spetta al fratello Donato, non al D., come vuole, errando, l'indice a col. 793), XLI, XLIX, LVI (dei rinvii dell'indice a col. 1200 spetta con sicurezza al D. solo quello alla col. 144, dove il diarista lo nomina esplicitamente; gli altri sono incerti, mentre non riguarda il D., ma lo zaratino Giovanni Rosa quello di col. 165 ché Sanuto dice "lo episcopo di Vegia dalmatino"), LVII (incerta la pertinenza al D. dei rinvii nell'indice di col. 793, eccezion fatta per quello a col. 183 che spetta senz'altro a Giovanni Rosa scrivendo il diarista "lo episcopo di Vegia domino Zuan ...); Vetera mon. Slavorum merid...., a cura di A. Theiner, Romae 1863, pp. 575, 581 e, pel fratello Donato, 519 s.; Nunziature di Venezia, I, a cura di F. Gaeta, Roma 1958, ad vocem; D. Farlati, Myricum sacrum, V, Venetiis 1775, pp. 308 s.; G. B. Cubich, ... Veglia...,II, Trieste 1875, p. 147; F. Gaeta, Un nunzio Pontificio ... (G. Aleandro),Venezia-Roma 1960, pp. 109 s. e n.; V. Meneghin, S. Michele in Isola..., I, Venezia 1962, p. 396 (alle pp. 394-97 il profilo in positivo di Eusebio Priuli); G. Moroni, Diz. di erud. storico-eccles., LXVIII, p. 44 (pel fratello); LXXXVIII, p. 288; P. B. Gams, Serìes ePisc., p. 425; C. Eubel, Hierarchia catholica...,II, Monasterii 1901, p.289 (per Donato); III, ibid. 1910, p. 348.