Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Ottocento la geologia diventa una disciplina scientifica istituzionalmente riconosciuta. La paleontologia e la stratigrafia fanno grandi progressi, mentre i dibattiti tra nettunisti e vulcanisti, catastrofisti e uniformisti affrontano questioni cruciali sull’origine e le modalità di accadimento dei fenomeni geologici. La geologia entra nelle università e nascono i Servizi geologici che collegano la scienza geologica alle esigenze di sfruttamento del territorio.
All’inizio dell’Ottocento lo studio dei fossili, vertebrati e invertebrati, si intensifica e si specializza attraverso ricerche molto accurate in ambito regionale, particolarmente in Francia e Gran Bretagna. Pur continuando a contribuire significativamente alla formazione dei musei naturalistici e alla produzione di cataloghi descrittivi, la ricerca paleontologica si lega saldamente alla stratigrafia o geologia storica. L’esame dei resti fossili e la loro classificazione (tassonomia) diviene quindi parte integrante dell’indagine geologica sul terreno, poiché la differenziazione delle faune fossili caratterizza sempre più chiaramente agli occhi degli studiosi la successione degli strati rocciosi di origine sedimentaria.
L’osservazione degli strati e la distinzione delle rocce mediante i diversi fossili in esse contenuti costituiscono la base del metodo stratigrafico elaborato dall’inglese William Smith e dai francesi Georges Cuvier e Alexandre Brongniart. Secondo i risultati delle ricerche di Smith, pubblicati tra il 1815 e il 1819, ogni strato roccioso, anche su grandi estensioni, presenta fossili tipici che lo caratterizzano. Analogamente, le ricerche di Cuvier e Brongniart nel bacino di Parigi (1808) conducono alla differenziazione di oltre una decina di diverse formazioni costituite da stratificazioni rocciose calcaree morfologicamente simili, ma dal diverso contenuto fossilifero. In seguito a studi paleontologici che si avvalgono dell’anatomia comparata per analizzare fossili di vertebrati anche di grandi dimensioni (1812, 1817), Cuvier sostiene che faune diverse tra loro abbiano popolato la terra in epoche geologiche successive; questa teoria trova conferma, secondo Cuvier, negli improvvisi mutamenti delle sequenze fossilifere da uno strato all’altro e si lega alle sue concezioni geologiche catastrofiste.
Georges Cuvier e Alexandre Brongniart
Formazioni calcaree e mezzi per riconoscerle
Saggio sulla geografia mineralogica dei dintorni di Parigi
La formazione calcarea (...) è composta alternativamente di strati di calcare ordinario più o meno duro, di marna argillosa e anche di argilla che si sfoglia in strati sottili e di marna calcarea; ma non bisogna credere che questi diversi banchi siano qui posti a caso e senza regola: essi seguono sempre il medesimo ordine di sovrapposizione nella considerevole estensione di terreno che abbiamo percorso. A volte molti mancano o sono assai sottili, ma quello che era più in basso in un’area non si trova mai in posizione superiore in un’altra.
Questa costanza nell’ordine di sovrapposizione degli strati più sottili e in un’estensione di circa 12 miriametri è, secondo noi, uno dei fatti più notevoli che abbiamo constatato nel seguito delle nostre ricerche (...).
Il mezzo che abbiamo impiegato per riconoscere, in un così grande numero di letti calcarei, un letto già osservato in un’altra area molto lontana, è tratto dalla natura dei fossili racchiusi in ogni strato: questi fossili sono sempre generalmente gli stessi negli strati corrispondenti, e presentano, da un sistema di strati ad un altro, differenze di specie assai rimarchevoli. È un segno di riconoscimento che fino ad ora non ci ha ingannato. Non bisogna credere però che la differenza di uno strato dall’altro sia così spiccata come quella della creta dal calcare. Se fosse così, si avrebbero solamente formazioni particolari; ma i fossili caratteristici di uno strato diventano meno numerosi in quello superiore e scompaiono del tutto negli altri, dove sono sostituiti poco a poco da nuovi fossili che non erano ancora comparsi affatto (...).
Ma ciò che caratterizza ancora di più questo sistema di strati è la prodigiosa quantità di conchiglie fossili che esso conserva. Per dare un’idea del numero di specie che questi strati contengono, sarà sufficiente ricordare che M. Defrance vi ha trovato più di seicento specie, descritte tutte da M. de Lamarck. Faremo notare che la maggior parte di queste conchiglie differiscono molto più dalle specie attuali, di quanto non differiscono quelle degli strati superiori (...).
Un’altra caratteristica particolare delle conchiglie di questo strato è che la maggior parte di esse sono integre e ben conservate, che si staccano facilmente dalla roccia e che, infine, molte di esse hanno conservato la lucentezza madreperlacea. (...) Abbiamo riconosciuto che gli strati calcarei sabbiosi che conservano queste conchiglie seguono immediatamente l’argilla plastica che ricopre la creta; è da queste ripetute osservazioni che abbiamo constatato la generalità della regola che abbiamo appena stabilito. (...)
Dalle osservazioni che abbiamo riferito risulta: 1° che i fossili del calcare ordinario si sono depositati lentamente e in un mare tranquillo, dato che questi fossili sono qui disposti in strati regolari e distinti; che essi non sono affatto indistintamente mescolati e che per lo più si trovano qui in stato di perfetta conservazione, per quanto delicata sia la loro struttura; e che anche le punte delle conchiglie dotate di aculei sono assai spesso integre; 2° che questi fossili sono completamente differenti da quelli degli strati di creta; 3° che mano a mano che gli strati di questa formazione si depositavano, il numero delle specie di testacei andava sempre diminuendo fino a che non se ne trovano più. Le acque che formavano questi strati non ne hanno più conservati o hanno perduto la proprietà di conservarli.
Certamente in questi mari le cose andavano diversamente da quanto accade nei mari attuali: in questi non si formano più strati; le specie di testacei sono sempre le stesse negli stessi paraggi. Non si osserva, ad esempio, che da quando si pescano le ostriche nella costa di Cancale, questi testacei siano scomparsi per essere sostituiti da altre specie. (...)
Riprendendo gli strati dopo la creta, si ripresenta dapprima un mare che deposita sul suo fondo una immensa quantità di creta e molluschi di specie particolari. Questa precipitazione di creta e delle conchiglie che l’accompagnano cessa di colpo. A essa succedono strati di tutt’altra natura e si depositano solamente argille e sabbia senza alcun organismo. Ritorna un altro mare: questo nutre una prodigiosa quantità di molluschi del tutto differenti da quelli della creta. Esso forma sul suo fondo banchi poderosi, in gran parte composti dalle conchiglie di questi molluschi; ma questa produzione di conchiglie a poco a poco diminuisce e cessa completamente. Allora il suolo si copre di acqua dolce; si formano strati alternati di gesso e marna che avvolgono e i resti di animali lacustri e le ossa di quelli che vivevano sulle rive dei laghi.
Il mare ritorna una terza volta e produce alcune specie di bivalvi e turbinati; ma ben presto questo mare è popolato solo da ostriche. Infine riappaiono le produzioni del secondo mare inferiore.
La macchina della Terra. Teorie geologiche dal Seicento all’ Ottocento, a cura di N. Morello, Torino, Loescher, 1979
Cuvier e Brongniart appartengono al mondo accademico dei naturalisti francesi attivi nel Museo di Storia Naturale di Parigi, mentre William Smith, un ingegnere esperto di miniere e canali, proviene da un ambiente di uomini “pratici” e provinciali parallelo alla comunità dei geologi britannici formatasi in circoli elitari come la Geological Society di Londra. Tuttavia, proprio la combinazione dei risultati provenienti da diversi ambiti di ricerca consente l’ampliarsi dell’indagine geologica, soprattutto nel primo ventennio del secolo: si realizzano sezioni e mappe geologiche, si discute l’uso di una nomenclatura comune e la storia della Terra viene ricostruita attraverso l’uso degli strati rocciosi e dei fossili in essi contenuti.
La paleontologia riceve grande impulso da studiosi come l’italiano Giovanni Battista Brocchi, l’inglese James Sowerby (1757-1822) e il francese Alcide-Charles-Victor D’Orbigny (1802-1857) che studiano i molluschi fossili, lo svizzero Jean-Louis-Rodolphe Agassiz che si specializza sui pesci fossili; riceve inoltre importanti contributi anche dal tedesco Heinrich Georg Bronn, autore di alcune opere di sintesi intorno alla metà del secolo. Lo studio dei resti fossili dei grandi rettili diventa presto un tema dominante che impegna a fondo figure significative della geologia britannica, quali William Buckland, Henry Thomas de La Beche, William Daniel Conybeare (1787-1857), Richard Owen e Gideon Algernon Mantell (1790-1852). Nella seconda metà del secolo lo statunitense Othniel Charles Marsh scopre vari nuovi esemplari di dinosauri.
Le prime colonne stratigrafiche su scala europea vengono proposte già negli anni Venti da geologi francesi come Alexandre Brongniart, che tenta di generalizzare il modello costruito sui terreni terziari del bacino parigino; negli anni successivi il lavoro sul campo, soprattutto sulle stratificazioni della Gran Bretagna e della Francia, pone le basi della definizione fondamentale dei periodi geologici.
Jean-Baptiste Julien d’Omalius d’Halloy e Brongniart individuano rispettivamente il cretacico (1822) e il giurassico (1829), Conybeare il carbonifero (1822). Nel 1835 Adam Sedgwick denomina il cambriano mentre tra 1833 e 1839 Roderick Impey Murchison definisce il siluriano e nel 1841 il permiano: entrambi sono quindi coinvolti, con De La Beche e altri, nell’aspra controversia sul devoniano. Nel 1841 John Phillips (1800-1874) introduce al posto della distinzione crono-stratigrafica settecentesca (primario, secondario e terziario) la moderna tripartizione delle ere geologiche più antiche (paleozoico, mesozoico e cenozoico).
Il nettunismo è una teoria geologica tardo settecentesca, elaborata dal mineralista tedesco Abraham Gottlob Werner, che considera la crosta terrestre come il prodotto di una precipitazione avvenuta in un fluido acqueo. Di conseguenza, secondo i nettunisti, tutte le rocce, a parte le lave eruttate dai vulcani, vanno considerate di origine sedimentaria. All’inizio dell’Ottocento la teoria nettunista influenza molti geologi europei, anche a causa dell’opera di diffusione attuata dagli allievi più autorevoli di Werner, formatisi presso l’Accademia Mineraria di Freiberg in Sassonia. A Edimburgo lo scozzese Robert Jameson (1774-1854) fonda la Wernerian Natural History Society (1808), alla quale aderiscono geologi europei e americani. La nomenclatura “geognostica” werneriana continua a essere comunemente adottata dai geologi, che spesso anche in Italia usano termini tedeschi per identificare rocce e minerali.
Tuttavia, l’acquisita consapevolezza dell’importanza dei fossili per individuare e datare le diverse formazioni rocciose, oscura in misura sempre maggiore il ruolo assegnato da Werner alla mineralogia, considerata lo strumento per distinguere le formazioni rocciose in base ai minerali contenuti al loro interno.
La fortuna della teoria nettunista inizia un lento ma inarrestabile declino tra 1810 e 1830.
L’importanza dell’attività vulcanica, del calore centrale della Terra e dell’intrusione plutonica – cioè l’introduzione di masse rocciose ignee incandescenti entro rocce preesistenti – emergono negli accesi dibattiti sull’origine di alcune rocce, come il basalto e il granito. I francesi Barthélemy Faujas de Saint-Fond e Pierre-Louis-Antoine Cordier, l’italiano Scipione Breislak (1748-1826) e lo scozzese James Hall attaccano il nettunismo e sostengono, anche con l’ausilio di prove di laboratorio, l’origine ignea di varie rocce e quindi di una parte considerevole della crosta terrestre.
Alcuni geologi formatisi alla scuola werneriana o da essa influenzati abbandonano le loro posizioni nettuniste in seguito allo studio di fenomeni di vulcanismo attivo e degli aspetti mineralogici a essi correlati. È il caso dei tedeschi Alexander Humboldt e Leopold von Buch che dopo essere stati allievi di Werner viaggiano moltissimo – a differenza del loro maestro – e studiano soprattutto i vulcani attivi in Europa, nell’America del Sud e nelle isole Canarie. In seguito alle proprie ricerche Von Buch elabora la fortunata teoria dei crateri di sollevamento, secondo cui i monti vulcanici si formano in seguito alla spinta dal basso verso l’alto di masse sotterranee incandescenti che sollevano il suolo alterando la deposizione originariamente orizzontale degli strati; quando un’esplosione fa saltare la cima di questi nuovi rilievi si forma il cratere con il tipico cono eruttivo nel mezzo. Gli studi di Humboldt, che collegano le ricerche geologiche a tutti gli altri aspetti della ricerca naturalistica, trovano espressione nell’opera Kosmos (1845-1858) e stimolano indagini successive sul magnetismo terrestre, sulla meteorologia e sugli oceani.
Contemporaneamente ai dibattiti tra nettunisti e vulcanisti sulle cause dei mutamenti geologici vengono formulate due opposte teorie, il catastrofismo e l’uniformismo, che interpretano invece le modalità di accadimento dei fenomeni succedutisi a modificare la superficie terrestre e conseguentemente gli esseri viventi. Secondo la teoria uniformista i fenomeni geologici osservabili nel presente sono gli stessi che agirono nel passato con la medesima attuale intensità. Il catastrofismo invece postula la successione di grandi catastrofi che in passato hanno sconvolto la Terra, distruggendo anche intere specie di esseri viventi.
Una concezione di mutamento biologico graduale – il trasformismo – è sostenuta già all’inizio del secolo da Jean-Baptiste Lamarck che rifiuta la possibilità di estinzioni delle specie per cause naturali. Il trasformismo lamarckiano è fondato su una teoria geologica uniformista, espressa nell’opera Idrogeologia (1802), che sostiene il ruolo fondamentale delle acque nelle modificazioni della crosta terrestre, un graduale passaggio di terre emerse a fondale marino e viceversa.
Jean-Baptiste Lamarck
Il fenomeno dell’erosione
Idrogeologia
(...) I movimenti naturali delle acque terrestri modificano continuamente le condizioni della terra nel modo seguente:
le acque correnti, con il contatto diretto e con l’azione congiunta dell’aria e del calore, continuamente degradano e distaccano le molecole aggregate o agglutinate dei materiali grezzi. Indi, attraverso la varia azione del dilavamento e dello scorrimento, esse trasportano lontano tutte le molecole e i corpi, non più parte di masse solide, trascinandoli, infine, nel bacino oceanico che tendono a riempire.
Con tale azione, le acque correnti distruggono gradatamente la superficie delle pianure, in particolare di quelle vicine al mare. Esse erodono le valli e parimenti i bacini idrografici e, infine, intagliano e foggiano le montagne.
Le acque marine, invece, perpetuamente agitate dalle oscillazioni e spinte in avanti da un generale, costante movimento verso occidente, continuamente riscavano e spostano il loro stesso bacino con un andamento trascurabilmente lento. (...)
L’azione delle acque correnti sulle parti scoperte della terra tende a degradare tutti i corpi solidi, staccando particelle che trasporta verso le pianure. Questo processo si concluderebbe con il riempimento del bacino oceanico che è costretto a ricevere i sedimenti del dilavamento della terra. Ma (...) tale riempimento è impossibile.
In primo luogo è impossibile perché le acque marine sono indotte dalla luna e anche dal sole a un perpetuo oscillamento, dilavando di conseguenza continuamente il loro bacino e gettando sulle coste tutto il materiale che tende a riempirlo.
In secondo luogo è impossibile perché le acque marine subiscono, durante la rotazione comune anche al resto della terra, ritardi dovuti all’azione combinata della luna e del sole, azione che imprime ad esse un continuo movimento verso ovest. Dunque, il bacino delle acque marine è disposto in modo tale che esso possa coprire, successivamente, tutti i punti della superficie della terra (...). È possibile individuare le ragioni del costante contenimento dell’oceano in un bacino che lo separa dalla terra asciutta, terra che sempre si protende in esso. Sappiamo anche che l’azione della luna è la principale causa di questi fattori (...).
Conosciamo un fattore capace di causare lo spostamento del bacino oceanico, spostamento dimostrato dagli indiscutibili resti che si trovano sull’intera superficie emersa della terra. Questi fossili rivelano che l’oceano era stato, per molto tempo, in luoghi dove ora non esiste più. Infine, possiamo concludere che se il mare si è allontanato dai luoghi che prima aveva a lungo coperto, il fattore che portò dapprima il mare su quelle zone è lo stesso che lo ha costretto ad allontanarsi e che ve lo riporterà ancora un giorno o l’altro (...).
Lo spostamento del bacino oceanico genera costantemente una mutevole ineguaglianza della massa dei raggi della terra e necessariamente induce un mutamento del centro di gravità e dei due poli della terra. Una tal variazione, sebbene notevolmente irregolare, non appare confinata entro qualche limite definito; perciò ogni punto della superficie terrestre può essere stato successivamente soggetto a tutti i differenti climi della terra.
È interessante vedere confermate queste deduzioni dallo studio della superficie e della crosta esterna della terra; di certi fossili abbondanti nelle regioni settentrionali, mentre i loro analoghi vivono ora in climi caldi, e infine dalle osservazioni astronomiche degli antichi egizi!
Oh, quanto è antica la terra! E quanto visibilmente ristrette sono le idee di quelli che reputano che l’età della terra sia di 6. 000 anni!
Il naturalista-fisico (filosofo della natura) e il geologo, comunque, si avvicinano a questo problema in modo del tutto differente da chiunque altro. Per esempio, il primo studia la natura dei molti fossili sparsi ovunque nella terra emersa, mentre il secondo considera il numero e la posizione degli strati o le componenti della crosta esterna della terra alle diverse profondità e altitudini. Entrambi perciò hanno molte opportunità di convincersi dell’alta antichità della terra, cosa che l’uomo comune non può valutare in alcun modo!
Effettivamente le nostre cronologie non si estendono molto indietro nel passato e sono state fatte solo attraverso relazioni o leggende. Tradizioni scritte od orali sono andate necessariamente perdute e ciò è nell’ordine della natura (...). Periodicamente, documenti storici e scientifici sono più o meno completamente distrutti dalle rivoluzioni causate dalle guerre, dai governi vandalici e dall’influenza di tiranni e capi religiosi che dipende sempre dall’ignoranza del genere umano. Queste ragioni sono effettivamente sufficienti perché gli uomini perdano le tracce delle cose passate e perciò essi non riescono a credere nell’immensità dell’età del nostro pianeta e neanche a concepirla.
La grande età della terra apparirà più grande all’uomo quando capirà l’origine degli organismi viventi e le ragioni del graduale sviluppo e perfezionamento della loro organizzazione. Questa antichità apparirà ancora più alta quando egli comprenderà l’estensione del tempo e le particolari condizioni che sono necessarie per portare alla vita tutte le specie viventi. Ciò è particolarmente vero dal momento che l’uomo è il più recente risultato e l’attuale punto culminante di questo sviluppo, l’estremo limite di ciò che, se mai è raggiunto, non può essere conosciuto (...).
L’importante azione degli organismi viventi sulle sostanze che si trovano sulla superficie della terra o dentro la sua crosta esterna (...) dipende dai resti di infinite generazioni di organismi differenziatisi indefinitamente, accumulati nelle aree in cui vissero. Essa appare anche maggiore se si comprende il fatto che i resti di organismi viventi e dei loro prodotti sono soggetti ad una continua decomposizione, sono profondamente modificati e, infine, non più riconoscibili. Da questi resti organici, inoltre, l’acqua piovana rimuove diverse molecole integranti che poi decompone, trasporta e infine deposita in un nuovo stato.
Quindi, le varie sostanze minerali composte che si trovano nella crosta esterna della Terra in ammassamenti isolati, vene, strati paralleli e così via, come le pianure, le colline, le valli e le montagne, sono esclusivamente i prodotti di animali e piante che vivevano in quelle zone.
Effettivamente, su vaste estensioni di terra, come il deserto africano, dove non vi sono stati sul terreno animali e piante per molti secoli, le sole sostanze presenti sono soprattutto quelle meramente vitree. In queste aree, il regno minerale manca di varietà ed è essenzialmente ridotto a una materia quarzosa di purezza variabile. L’opposta situazione si verifica in ogni area abbondantemente coperta, per lungo tempo. da piante e diversi animali. Lì, la parte superficiale del terreno consiste di un suolo spesso, di origine vegetale o vegeto-animale, ricco e fertile, che in quei luoghi copre sostanze minerali in diverso grado saline, bituminose, solforose, piritiche, metalliche o petrose.
In qualunque luogo un’area, coperta da una fitta vegetazione, sia aperta, in altre parole liberata da foreste, alberi e cespugli, con il suolo esposto alla coltivazione di piante erbacee utili all’uomo, si verifica la seguente evoluzione: il suolo, dapprima molto fertile, si sa che lentamente si impoverisce e diventa sterile. I suoi componenti gradatamente diventano silicei, a meno che l’emergente sterilità venga fermata con abbondanti fertilizzanti che altro non sono, più o meno, che resti decomposti di materiale che si era prodotto per via organica.
La macchina della Terra. Teorie geologiche dal Seicento all’ Ottocento, a cura di N. Morello, Torino, Loescher, 1979
Il catastrofismo trova un esponente di spicco in Georges Cuvier, che nel Discorso sui cambiamenti del globo terrestre (1812) espone un vero e proprio sistema geologico basato su un susseguirsi di improvvise inondazioni che hanno mutato la morfologia della superficie terrestre e distrutto intere popolazioni animali e vegetali: Cuvier richiama a sostegno della propria teoria i risultati delle osservazioni stratigrafiche nel bacino parigino che evidenziano bruschi mutamenti di faune e flore nel contenuto fossilifero degli strati. In seguito, alcuni scienziati inglesi, tra cui William Buckland, utilizzano il catastrofismo per riproporre il modello biblico del diluvio universale e quindi tentare di conciliare scienza geologica e religione. Il catastrofismo attira anche vulcanisti come Leopold von Buch, che naturalmente tende a considerare eventi catastrofici di natura eruttiva. Il francese Jean-Baptiste Elie de Beaumont, invece, nel tentativo di correlare la sua ipotesi orogenetica al supposto graduale raffreddamento della Terra, sostiene che le catene montuose si sono formate in epoche diverse a causa di alterazioni violente e improvvise.
Nonostante la fortuna europea della teoria di Cuvier, l’uniformismo viene rilanciato dal geologo scozzese Charles Lyell che nei suoi celebri Principi di geologia (1830-1833) sostiene la lenta e costante azione dei processi geologici, come ad esempio l’erosione o il sollevamento di parti della crosta terrestre, la cui intensità è rimasta immutata nel passato come nel presente. Di conseguenza, secondo Lyell, l’osservazione dei fenomeni geologici attualmente operanti e l’individuazione delle loro cause permettono di ricostruire interamente la storia della Terra, evidentemente ripetitiva e uniforme nel tempo.
Nonostante il grande successo dei Principi di geologia – di cui si pubblicano ben 12 edizioni – l’uniformismo di Lyell non viene adottato da molti geologi coevi. Le prime ipotesi tettoniche globali, come quella di Elie de Beaumont, dello statunitense James Dwight Dana e successivamente dell’austriaco Eduard Suess (1831-1914), suscitano maggiore interesse e costituiscono il fulcro delle ricerche geologiche del secondo Ottocento. In questo periodo progrediscono anche gli studi sui ghiacciai e sulle epoche glaciali, mentre a fine secolo (1899) il fisico inglese William Thomson Lord Kelvin afferma che l’età della Terra è di poco superiore ai 20 milioni di anni.
Nel primo trentennio dell’Ottocento si completa un processo formativo già iniziato nella seconda metà del secolo precedente e la geologia acquisisce lo status di disciplina scientifica a tutti gli effetti. Lo stesso termine “geologia” diventa d’uso comune e gode di una certa popolarità anche presso un pubblico di non specialisti, soprattutto in Gran Bretagna e Francia.
Le prime cattedre universitarie per l’insegnamento della geologia sono istituite in Germania, in Inghilterra e in Francia, mentre veri e propri istituti di geologia e mineralogia, con un corpo docente e un programma di corsi specifici, sono fondati in tutta Europa e nell’America del Nord a partire dal 1840. Contemporaneamente vengono pubblicati i primi manuali di geologia destinati all’insegnamento della disciplina, tra questi si segnalano gli Elementi di geologia (Londra, 1838) di Charles Lyell, la Géologie (Parigi, 1841) di François-Sulpice Beudant, il Lehrbuch der Geologie (Brunswich, 1846-1847) di Karl Vogt, il Cours élémentaire de paléontologie et de géologie stratigraphiques (Parigi, 1849-1852) di Alcide d’Orbigny e il Lehrbuch der Geognosie (Lipsia, 1850-1854) di Karl Friedrich Naumann.
La ricerca geologica inizia a essere promossa dai governi che intravedono nuovi possibili benefici economici legati allo sfruttamento delle risorse ambientali: nascono i servizi geologici e la realizzazione di carte geologiche viene fortemente incentivata dall’attività di queste istituzioni, soprattutto a partire dagli anni Trenta. I primi Servizi geologici nazionali vengono istituiti in vari Stati dell’America del Nord (tra 1830 e 1850), in Inghilterra (1835), Canada (1842), Irlanda (1845) e successivamente in altri Stati europei, tra i quali l’Italia (1867).
Tra il 1800 ed il 1860 si costituiscono molte società geologiche, soprattutto nelle isole britanniche: sulla scia della Geological Society di Londra, fondata nel 1807, nascono analoghi sodalizi in Cornovaglia (1814), a Dublino (1831), a Edimburgo (1834), a Manchester (1848), ancora a Londra – la Geologists’ Association viene fondata nel 1858 – e a Glasgow (1858). La Société Géologique de France viene istituita nel 1830, mentre la tedesca Deutsche Geologische Gesellschaft e la società geologica ungherese nascono nel 1848; nel 1881 si forma la Società geologica italiana e nel 1888 la Geological Society of America.
Anche la stampa periodica specializzata inizia a comparire già nella prima metà del secolo: le “Transactions of the Geological Society of London”, pubblicate dal 1811 al 1856, sono considerate uno dei primi periodici incentrati sulle scienze geologiche insieme al tedesco “Taschenbuch für die gesamte Mineralogie”, stampato a Francoforte fin dal 1807. L’Unione internazionale delle scienze geologiche viene fondata nel 1878 e il primo Congresso geologico internazionale si svolge a Parigi nello stesso anno, richiamando partecipanti di ventitré nazionalità.
Nella seconda metà dell’Ottocento il geologo è quindi una figura pienamente riconosciuta in ambito scientifico, accademico e didattico, destinata a specializzarsi in specifiche branche disciplinari e a legarsi in misura sempre maggiore alle tecniche di sfruttamento delle risorse naturali della geologia applicata.