Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La pubblicazione degli Emblemata di Alciati, nel 153, porta alla nascita di un nuovo genere destinato a caratterizzare il gusto letterario e la cultura dei due secoli successivi. L’emblematica diventa una vera filosofia dell’espressione figurata su cui si innestano elementi delle teorie linguistiche neoplatoniche, supportate dalla riscoperta di testi della tradizione esoterica. L’impresa, che mette sempre più l’accento sul motto, si sviluppa in direzione del concettismo seicentesco.
La pubblicazione degli Emblemata (1531) del giurista e umanista Andrea Alciati porta in un breve giro di anni alla formazione di un nuovo genere letterario destinato a caratterizzare gusto, cultura e meditazione critica per circa due secoli. L’opera di Alciati (di cui escono quasi 170 edizioni) è composta da una serie di epigrammi di contenuto morale e di ispirazione mitologica a cui lo stampatore aggiunge piccole figure illustrative. Nelle intenzioni dell’autore l’emblema corrisponde al solo epigramma, ma l’immagine passa velocemente dal ruolo di semplice ornamento a quello sostanziale, sia per la nuova importanza che la cultura visiva assume a livello collettivo sia per i progressi tecnici favoriti dall’arte della stampa. Così l’emblematica, rapidamente diffusa in tutta Europa, diventa una vera filosofia dell’espressione figurata su cui si innestano elementi delle teorie linguistiche connesse al neoplatonismo, supportate dalla riscoperta di testi della tradizione misterica come gli Hieroglyphica di Orapollo, stampati da Aldo Manuzio già nel 1505 e poi tradotti in latino da Fasanini nel 1517.
Con i Symbolicarum quaestionum libri quinque di Achille Bocchi (1555) si arriva alla raccolta più rilevante, dove i testi latini vengono accompagnati dalle composizioni artistiche di Giulio Bonasone, spesso ispirate alla pittura coeva. Costante rimane l’uso del latino, adatto alle modalità di una conoscenza superiore che si ricollega alla lingua sacra degli Egizi. Nel 1556, Pietro Valeriano, ispirandosi alle epigrafi di Orapollo, tenta in 58 libri una spiegazione simbolica di entità naturali e artificiali (dagli animali alle piante, dai frutti alle pietre, dalle acque ai pianeti, dalle medaglie ai vestiti). Secondo questa logica, ogni aspetto figurato – dall’emblema alla decorazione – richiede un processo che permetta di riconnettere l’immagine al motto che l’accompagna, con un procedimento metaforico che porterà alle teorie seicentesche dell’ingegno.
L’arte delle imprese, a differenza dell’emblematica, sceglie spesso il volgare o le lingue straniere per i motti; è dedicata a un pubblico ampio e si pone un fine giocoso e divulgativo, come spesso si deduce dalla natura dialogica dei testi che ne parlano. Secondo Robert Klein, il termine impresa corrisponde al francese devise, e infatti francese è la prima raccolta, le Devises héroïques di Paradin, pubblicate a Lione nel 1551. Come testimonia Paolo Giovio in un passo del Dialogo dell’imprese militari et amorose (composto intorno al 1550), la moda della devise viene importata in Italia dagli ufficiali di Carlo VIII: un’origine militare, dunque, utile soprattutto per distinguere gli uomini in battaglia con armi e bandiere vistosamente dipinte.
Nella società lionese, dove circolano parecchie edizioni di Alciati, il letterato fiorentino Gabriello Simeoni cura nel 1559 un’edizione di Giovio, arricchita di nuove imprese. È il segno della fortuna di un’opera che possiamo considerare la più importante testimonianza del genere, anche per il carattere normativo in essa contenuto. Nel Ragionamento sopra i motti e disegni d’arme e d’amore che communemente chiamano imprese, Giovio stabilisce le cinque condizioni della perfetta impresa: la giusta proporzione di figura e motto, la non eccessiva oscurità del messaggio, la bellezza, l’esclusione della forma umana dalla figura, la presenza indispensabile del motto, “che è l’anima del corpo”. Tali regole, poi riprese e variate nei trattati seguenti, dimostrano il legame dell’impresa con l’arte mnemotecnica e la sua anticipazione della rappresentazione autobiografica. Le prime raccolte, infatti, contengono solo imprese legate al mondo militare, di cui si trovano tracce anche nella cultura quattrocentesca (per esempio nelle Stanze del Poliziano), ma quando l’arte raggiunge i salotti acquista un carattere esplicitamente mondano di confessione velata che unisce in un gioco astuto emittente e destinatario.
Imprese
Dialogo dell’imprese militari e amorose
Non mancarò di ridurmi a mente tutte queste cose che voi domandate, parendomi di tornare un’altra volta giovane nel favellarne, delle quali tanto mi dilettava già, che ben pareva vero pronostico ch’io avessi a scriver l’istoria loro. Ma prima ch’io venga a questi particolari, è necessario ch’io vi dica le condizioni universali che si ricercano a fare una perfetta impresa, il che forse è la più difficile che possa essere ben colta da un ingegno perspicace e ricco d’invenzioni, la quale nasce dalla notizia delle cose scritte dagli antichi. Sappiate adunque, messer Lodovico mio, che l’invenzione o vero impresa, s’ella debbe avere del buono, bisogna ch’abbia cinque condizioni. Prima, giusta proporzione d’anima e di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura di sorte ch’abbia mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere, né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda. Terza, che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastici. Quarta, non ricerca alcuna forma umana. Quinta, richiede il motto che è l’anima del corpo e vuole essere communemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa perché il sentimento sia alquanto più coperto. Vuole anco essere breve, ma non tanto che si faccia dubbioso, di sorte che di due o tre parole quadra benissimo, eccetto se fusse in forma di verso o integro o spezzato. E per dichiarare queste condizioni diremo che la sopradetta anima e corpo s’intende per il motto e per il soggetto; e si stima che mancando o il soggetto all’anima o l’anima al soggetto, l’impresa non riesca perfetta. Verbi gratia, Cesare Borgia, Duca di Valentinois usò un’anima senza corpo, dicendo Aut Caesar aut nihil, volendo dire che si voleva cavar la maschera o far pruova della sua fortuna. Onde, essendo capitato male e ammazzato in Navarra, Fausto Maddalena romano disse ch’il motto si verificò per l’ultima parte alternativa con questo distico:
Borgia Caesar erat factis et nomine Caesar
Aut nihil aut Caesar dixit, utrumque fuit.
E certamente in quella sua grande e prospera fortuna il motto fu argutissimo e da generoso s’egli avesse applicato un proporzionato soggetto, come fece suo fratello don Francesco, Duca di Candia, il quale aveva per impresa la montagna della Chimera, o vero Acrocerauni, fulminata dal cielo, con le parole ad imitazione d’Orazio Feriunt summos fulmina montes, sì come verificò con l’infelice sua fine, essendo scannato e gittato in Tevere da Cesare suo fratello.
Per lo contrario disdice eziandio un bel soggetto senza motto, come potrò Carlo di Borbone, Conestabile di Francia, che pinse di ricamo nella sopravesta della sua compagnia un cervo con l’ali - e io lo vidi nella giornata di Ghiaradadda - volendo dire che, non bastando il correr suo naturale velocissimo, sarebbe volato in ogni difficile e grave pericolo senza freno. La quale impresa, per la bellezza del vago animale, riuscì (ancor che pomposa) come cieca, non avendo motto alcuno che gli desse lume, il che diede materia di varia interpretazione, come acutissimamente interpretò un gentiluomo francese chiamato La Motta Augrugno, che andò in Roma appresso il Papa quando venne l’acerba nuova del Re Cristianissimo sotto Pavia, e ragionandosi della perfidia di Borbone, disse a papa Clemente: - Borbone, ancora che paia essere stato traditore del suo Re e della patria, merita qualche scusa per aver detto molto avanti quel ch’ei pensava di fare, poiché portava nella sopraveste il cervo con l’ali, volendo chiaramente dire che aveva animo di fuggire in Borgogna, al che fare non gli bastavano le gambe se non avesse avuto anco l’ali; e perciò gli fu aggiunto il motto Cursum intendimus alis -. Ebbe ancora questo medesimo difetto la bellissima impresa che portò la signora Ippolita Fioramonda, Marchesana di Scaldasole in Pavia, la quale all’età nostra avanzò di gran lunga ogn’altra donna di bellezza, leggiadria e creanza amorosa, che spesso portava una gran veste di raso di color celeste, seminata a farfalle di ricamo d’oro, ma senza motto, volendo dire e avvertire gli amanti che non si appressassero molto al suo fuoco, acciò che talora non intervenisse loro quel che sempre interviene alla farfalla, la quale per appressarsi all’ardente fiamma da se stessa si abbrucia. Ed essendo dimandata da Monsignor di Lescù, bellissimo e valorosissimo cavaliere, il quale era allora scolare, che gli esponesse questo significato: - e’ mi conviene (diss’ella) usare la medesima cortesia, con quei gentiluomini che mi vengono a vedere, che solete usar voi con coloro che cavalcano in vostra compagnia, perché solete mettere un sonaglio alla coda del vostro corsiero, che per morbidezza e fierezza trae de’ calci, come uno avvertimento che non si accostino per lo pericolo delle gambe -. Ma per questo non si ritirò Monsignor di Lescù perché molt’anni perseverò nell’amor suo e al fine, sendo ferito a morte nella giornata di Pavia e riportato in casa della signora Marchesana, passò di questa vita non poco consolato poiché lasciò lo spirito estremo suo nelle braccia della sua cara (come diceva) signora e padrona.
Cadde nel contrario difetto il motto del clarissimo iurisconsulto messer Giason del Maino, il quale pose il suo bellissimo motto sopra la porta del suo palazzo (che ancor si vede senza corpo) che dice Virtuti fortuna comes, volendo significare che la sua virtù aveva avuta bonissima sorte.
Può molto bene essere ancor una impresa vaga in vista, per le figure e per li colori, che abbia corpo e anima, ma che per la debile proporzione del motto al soggetto diventi oscura e ridicola, come fu quella del duca Lorenzo de’ Medici, il quale finse ne’ saioni delle lancie spezzate e stendardi delle genti d’arme (come si vede oggi in pittura per tutta la casa) un albero di lauro in mezzo a due leoni, col motto che dice Ita et virtus, per significare che la virtù come il lauro è sempre verde. Ma nessuno poteva intendere quel che importassero quei due leoni; chi diceva che significavano la fortezza e la clemenza, che favellano insieme così accozzati con le teste, e chi l’interpretava in altro modo, di sorte che un messer Domizio da Cagli, cappellano del Cardinal de’ Medici, che fu poi papa Clemente VII, il qual Cardinale era venuto a Fiorenza per visitare il duca Lorenza ammalato di quel male del quale poi fra pochi mesi si morì, s’assicurò, come desideroso d’intender l’impresa, di dimandarne messer Filippo Strozzi, invitato a l’umanità sua, dicendo: - Signor Filippo, voi che sapete tante lettere e oltre l’esser cognato sete anco comes omnium horarum et particeps consiliorum del Duca, dichiaratemi, vi prego, che fanno quei due leoni sotto questo albero -. Guatò sott’occhi messer Filippo e squadrò il ceffo del cappellano, il quale, ancor che ben togato, non sapeva lettere se non per le feste e come acuto, falso e pronto ch’egli era: - Non vi avvedete - disse - che fanno la guardia al lauro per difenderlo dalla furia di questi poeti che corrono al rumore, avendo udita la coronazione dell’Abbate di Gaeta fatta in Roma, acciò che non vengano a spogliarlo di tutte le fronde per farsi laureati? -. Replicò il cappellano come uomo che si dilettava di far qualche sonetto, che andava in zoccoli per le rime: - Questa è malignità invidiosa -; soggiungendo: - Che domine importa al duca Lorenzo che ’l buon papa Leone abbia cortesemente laureato l’abbate Baraballo e fattolo trionfare su l’elefante? -. Di maniera che la cosa andò a l’orecchia del Cardinale e si prese un gran festa di messer Domizio come di poeta magro e cappellano di piccola levatura.
È inoltre da osservare che non ci sia intelletto di molta superbia e presunzione, benché abbia bel corpo e bell’anima, perch’ella rende vano l’autore, come fu quella che portò il gran Cardinale di San Giorgio, Rafael Riario, il qual mise in mille luoghi del suo palazzo un timone di galea con un motto di sopra che dice Hoc opus, quasi volesse dire - per fare questi magnificentissimi edificii e gloriose opere m’è di bisogno esser Papa e governare il mondo -; la quale impresa riuscì vanissima quando fu creato Leone e dopo che essend’egli consapevole della congiura del Cardinale Alfonso Petrucci restò preso, convinto e spogliato delle facultà e confinato a Napoli dove finì sua vita.
Non lascierò di dirvi che sarebbe troppo gran cantafavola il voler tassar i difetti dell’imprese che son comparse a questo secolo, composte da sciocchi e portate da cervelli busi, come fu quella di quel fiero soldato (per non dir ruffiano) Bastiano del Mancino, ancor che a quel tempo fusse nome onorato fra spadaccini, che usò di portare nella berretta una picciola suola di scarpa, con la lettera T in mezzo, e una perla grossa in punta di detta suola, volendo che s’intendesse il nome della sua dama a questo modo: Margherita te sola di cor amo.
Un altro suo concorrente chiamato Pan Molena fece il medesimo ponendo oro di martello in cambio di cuoio perché s’intendesse: Margherita te sola adoro, stimando che fusse maggiore efficacia d’amore l’adorare che di cuore amare.
In questi simili trovati passò il segno messer Agostin Porro da Pavia, innamorato di madonna Bianca Paltiniera, il quale, per dimostrar d’esser suo fedel servo, portò una piccola candela di cera bianca, insertata nel frontale del suo berrettone di scarlatto, per significare, spezzando il nome della candela in tre sillabe: Can, cioè servo fedele, de la Bianca.
in G. Savarese, A. Gareffi, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Roma, Mario Bulzoni Editore, 1980
Secondo Scipione Bargagli, l’Accademia degli Intronati di Siena intorno al 1580 diventa centro di elaborazione di questo genere di “opere belle e ingegnose”, e la discussione mondana si complica spesso di elementi filosofici e letterari che riutilizzano elementi della cultura misteriosa legata al linguaggio primitivo e cabalistico, nell’illusione di forme espressive più intense. Nel 1556 il poligrafo Girolamo Ruscelli parla delle imprese come “ritrovamenti o invenzioni nostre proprie per accennare o additare al mondo qualche nostro particolar pensiero”, e sottolinea il mutuo rapporto tra figure e sentenza, anche se per lui, come poi per Domenichi, la figura può prescindere dalle parole. In questo modo, ogni immagine dotata di significato all’interno di un contesto può diventare impresa, anche se l’espressione fatta di figura e scrittura risulta essere la più complessa e completa: l’impresa congiunge infatti il linguaggio innato dell’imitazione con il linguaggio articolato appreso. Facendo un passo in avanti, Francesco Caburacci, nel Trattato dove si dimostra il vero e novo modo di fare le imprese (Bologna 1580), sottolinea che nell’attività espressiva dell’impresa il concetto viene manifestato indirettamente attraverso un altro concetto. L’impresa, in quanto figura, cioè metafora, condivide le capacità rappresentative della poesia.
L’immagine al centro dell’impresa nasce per illustrare una metafora: con il passaggio dalla figura retorica alla rappresentazione figurata ci si avvicina a uno dei procedimenti centrali del concettismo secentesco. Nel 1562 con il Rota overo dell’imprese, Scipione Ammirato insiste sulla dipendenza reciproca di parole e cose. Se l’anima dell’impresa sono le parole e il corpo coincide con la cosa rappresentata, bisogna che nessuno dei due elementi assuma una posizione strumentale rispetto all’altro: “dall’anima e dal corpo insieme giunti si interpreta da colui che vede e che legge l’occulto pensiero dell’autore”.
Il parallellismo tra impresa e poesia continua poi, nel ragionamento di Ammirato, con le formule di “filosofia del cavaliere” per la prima e “filosofia del filosofo” per la seconda. Il rapporto si andrà approfondendo sulla scorta dell’effetto di meraviglia che nasce appunto dall’“accoppiamento di due cose intelligibili”, per cui ne deriva una terza, mista. Già nel 1575 infatti Giovanni Andrea Palazzi può arrivare alla dichiarazione che “l’impresa è un poema”, ed enumerare gli elementi che caratterizzano insieme le due forme di espressione. Secondo le recenti interpretazioni, si apre una seconda fase della storia dell’impresa, nel momento in cui la componente verbale acquista preponderanza per l’effetto meraviglioso che produce, essendo il motto, secondo la definizione del Tasso, “quasi divino intelletto”. Nel 1586 Stefano Guazzo, nel quinto dei suoi Dialoghi piacevoli, può sostenere la modernità dell’impresa e la sua superiorità sull’emblema, indicandone ancora una volta le caratteristiche di preziosismo intellettuale: “E per tanto essendosi avveduti con successo di tempo i pellegrini ingegni che questi emblemi sono o troppo aperti o troppo umili, si sono rivolti ad adombrare i suoi secreti pensieri col finissimo velo delle imprese, le quali sono assai più regolate, più difficili e più eccellenti di quel che siano gli emblemi”. Successivamente Scipione Bargagli (1594) parla dell’impresa come prodotto dell’ingegno, in cui si uniscono similitudine e acutezza.
Insistendo sul gioco intellettuale, sulla realizzazione artificiosa di un’idea concepita anteriormente (elementi che ritorneranno nel dialogo Il conte del Tasso), la teoria platonica del simbolo ha portato a una teoria aristotelica sulla quale può prendere avvio la speculazione barocca della poesia.