Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nato nel 1600 come velleitaria restaurazione del teatro dell’antichità, il melodramma si impone in breve tempo come magnifico spettacolo presso le maggiori corti d’Italia. Dopo una prima fortuna vissuta tra Firenze e Mantova, il nuovo genere di spettacolo trova a Roma una prima forma di istituzionalizzazione che ne favorirà, in seguito, una più ampia diffusione.
Secondo uno stereotipo storiografico di successo, la data di nascita del melodramma si fa risalire, con una precisione che ben pochi altri fenomeni nella storia della cultura europea possono vantare, alla sera del 6 ottobre 1600, quando in una saletta di palazzo Pitti a Firenze, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Maria de’Medici con Enrico IV di Francia, viene rappresentata l’Euridice, favola pastorale di Ottavio Rinuccini (fondata sul mito di Orfeo derivato dalle Metamorfosi di Ovidio) con musiche di Jacopo Peri e Giulio Caccini.
La realizzazione e la messa in scena dell’Euridice, lungi dall’essere un evento nato dalla collaborazione estemporanea di un poeta e due musicisti, rappresenta l’applicazione pratica di alcune conclusioni, relative a questioni teoriche letterarie e musicali, cui si era giunti nell’ultimo ventennio del secolo XVI in alcuni ambienti della cultura aristocratica fiorentina.
In particolare il dibattito sulla musica e sul teatro è animato a Firenze da quella che è stata chiamata la Camerata fiorentina, un circolo letterario solito radunarsi sulla fine del Cinquecento prima in casa del conte Giovanni de’ Bardi (dal 1579 al 1592 ca.), quindi, alla partenza di questi per Roma, in casa di Jacopo Corsi (dal 1592 ca.).
Quantunque della Camerata siano state enfatizzate, forse all’eccesso, tanto la carica innovativa e rivoluzionaria sul piano intellettuale e teorico, quanto, soprattutto, il carattere di unitarietà e di uniformità di opinioni, è nondimeno innegabile che molti protagonisti della prima stagione del melodramma orbitano (se proprio non ne fanno parte) attorno a essa (Rinuccini, Peri, Caccini) oppure ne prendono le distanze in un atteggiamento di tale patente rivalità artistica da tradire nei fatti più che una divergenza, una sostanziale identità di vedute (Emilio de’Cavalieri).
Nell’arco di un ventennio da parte di membri della Camerata dal punto di vista letterario-musicale si toccano questioni che, sia pur affrontate a partire da impostazioni critiche differenti, erano divenute anche altrove argomento di discussione.
Tra le questioni dibattute, capitali per lo sviluppo dell’idea di melodramma, quella relativa alla legittimazione estetica del canto monodico, in polemica e opposizione con l’ancora imperante stile polifonico-madrigalistico (in particolare negli anni in cui la Camerata si sarebbe ritrovata in casa Bardi), e quella relativa a una possibile restaurazione in tempi moderni del teatro classico grazie alle potenzialità espressive del canto monodico (soprattutto negli anni di casa Corsi).
Nel 1581 Vincenzo Galilei, padre di Galileo, musicista di professione, dà alle stampe un Dialogo della musica antica et della moderna, nel quale, con una certa animosità, la polifonia madrigalistica (giunta all’epoca al suo massimo livello di raffinatezza) è condannata senza appello, perché inespressiva rispetto alla monodia, che è invece in grado (come si diceva lo fosse presso gli antichi Greci) di “esprimere i concetti dell’animo”.
Secondo Galilei, se il canto deve esprimere un testo, ciò non dovrà più accadere, come si è fatto, attraverso la puntuale descrizione musicale della singola parola (grazie all’impiego di collaudati espedienti retorico-musicali), ma tramite l’evocazione del contenuto affettivo più generale implicito nel discorso. Galilei invita perciò, con molto senso pratico, allo studio e all’imitazione dell’eloquio degli attori contemporanei, comici o tragici che siano.
Vincenzo Galilei
Musica antica e musica odierna
Si maravigliano poi [i moderni contrappuntisti] che la musica de’ tempi loro non faccia alcuno di quelli notabili effetti che l’antica faceva; dove per l’opposito, essendo questa nata da quella così lontana et disforme, anzi contraria et mortal sua nemica, come si è detto et mostrato et maggiormente mostrerassi, averebbono più tosto a stupire quando alcuno ne facesse (...). Non s’intende appresso alcuno di giuditio esprimere i concetti dell’animo col mezzo delle parole, in quella siffatta ridicola maniera, ma in altra da essa molto lontana et diversa. (...) et se di ciò vogliano intendere il modo, mi contento mostrargli dove et da chi lo potranno senza molta fatica et noia, anzi, con grandissimo gusto loro imparare, et sarà questo. Quando per loro diporto vanno alle tragedie et commedie che recitano i Zanni, lascino alcuna volta da parte le immoderate risa, et in lor vece osservino di gratia in qual maniera parla, con qual voce circa l’acutezza et gravità, con che quantità di suono, con qual sorte d’accenti et di gesti, come profferite quanto alla velocità et tardità del moto, l’uno con l’altro quieto gentiluomo. Attendino un poco la differenza che occorre tra tutte quelle cose, quando uno di essi parla con un servo, overo l’uno con l’altro di questi; considerino quando ciò accade ciò accade al principe discorrendo con un suo suddito et vassallo, quando al supplicante nel raccomandarsi; come ciò faccia l’infuriato o concitato, come la donna maritata, coma la fanciulla, come il semplice putto, come l’astuta meretrice, come l’innamorato nel parlare con la sua amata mentre cerca disporla alle sue voglie, come quelli che si lamenta, come quelli che grida, come il timoroso e come quelli che esulta d’allegrezza. Da’ quali diversi accidenti, essendo da essi con attentione avvertiti et con diligenza essaminati, potranno pigliar norma di quello che convenga per l’espressione di qual si voglia altro concetto che venire gli potesse tra mano. (...) Nel cantare l’antico musico qual si voglia poema, essaminava prima diligentissimamente la qualità della persona che parlava, l’età, il sesso, con chi, et quello che per tal mezzo cercava operare; i quali concetti, vestiti prima dal poeta di scelte parole a bisogno tale opportune, gli esprimeva poscia il musico in quel tuono, con quelli accenti et gesti, con quelle quantità et qualità di suono, et con quel ritmo che conveniva in quell’attione a quel personaggio.
V. Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, Firenze, 1581
Lontana dall’essere un’originale elaborazione programmatica degli sviluppi a venire, l’argomentazione di Galilei offre nondimeno un’idea dei termini nei quali a Firenze si dibatte sui caratteri della musica monodica.
Galilei non solo echeggia quanto sulla musica dei Greci avevano già espresso in precedenza illustri teorici, ma riflette sul versante dell’espressione musicale quell’atteggiamento di ostilità che la Chiesa della Controriforma da tempo nutriva nei confronti della polifonia applicata alla musica liturgica, colpevole di rendere assolutamente incomprensibile il senso del testo sacro, divenuto mero supporto e stimolo verbale di una musica rivolta ai sensi prima che all’intelletto.
Quanto al progetto, di chiara impronta umanistica, di ricreare in tempi moderni la perfetta unione di canto e azione drammatica della tragedia classica, già altrove in Italia si erano fatti dei tentativi in tal senso. A Vicenza quell’ideale di restaurazione aveva originato la rappresentazione dell’Edipo tiranno di Sofocle, con i cori musicati da Andrea Gabrieli, con la quale si era inaugurato nel 1585 il teatro Olimpico di Andrea Palladio.
Quando nei primi anni Novanta del Cinquecento l’idea di ricreare qualcosa di simile alla tragedia antica contagia a Firenze Corsi e Rinuccini, la scelta dello stile monodico, che nel frattempo si era praticato con successo, appare scontata.
L’idea di una classicità fondamentalmente “semplice” e l’istanza di una completa intelligibilità del testo cantato (a cui si aggiunge un’insofferenza verso la polifonia che sta ormai divenendo sempre più manierata) sono tra le motivazioni che inducono a privilegiare, per la restaurazione dell’antica tragedia, il canto monodico rispetto a quello polifonico.
Questa tendenza restaurativa della drammaturgia classica fatta di testo e musica, così come la si intende nei circoli umanistici, trova una sua prima attuazione verso la metà degli anni Novanta nella Dafne, favola pastorale di Rinuccini con musiche di Corsi e Peri. Alcuni anni più tardi Peri, nella prefazione all’edizione a stampa della sua Euridice, ricordando quell’esperienza, enuncia una prima poetica del melodramma.
Iacopo Peri
Prefazione
Le musiche di Iacopo Peri nobil fiorentino sopra l’Euridice del sig. Ottaviano Rinuccini
Onde, veduto che si trattava di poesia drammatica e che però si doveva imitar col canto chi parla (e senza dubbio non si parlò mai cantando), stimai che gli antichi greci e romani (i quali, secondo l’opinione di molti, cantavano sulle scene le tragedie intere, usassero un’armonia [canto] che, avanzando quella del parlar ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana. (...) E per ciò, tralasciata qualunque altra maniera di canto udita fin qui, mi diedi tutto a ricercare l’imitazione che si debbe a questi poemi; e considerai che quella sorte di voce che dagli antichi al cantare fu assegnata, la quale essi chiamano diastematica (quasi trattenuta e sospesa), potesse in parte affrettarsi e prender temperato corso tra i movimenti del canto sospesi e lenti e quegli della favella spediti e veloci, et accomodarsi al proposito mio (come l’accomodavano anch’essi, leggendo le poesie et i versi eroici), avvicinandosi all’altra del ragionare, la quale continuata appellavano; il che i nostri moderni (benché forse ad altro fine) hanno ancor fatto nelle musiche loro.
I. Peri, Le musiche di Iacopo Peri nobil fiorentino sopra l’Euridice del sig. Ottaviano Rinuccini, Firenze, 1600
La Dafne, tuttavia, appare come la prima sperimentazione di una nuova tendenza poetica destinata ad avere piena attuazione solo in seguito. Il canto nella sua continuità, oltre ad amplificare in modo più netto la carica espressiva della poesia, garantisce all’intera azione drammatica una coesione interna sconosciuta ai più vecchi intermezzi.
Creando l’Euridice, poeta e compositori sono ben coscienti di presentare qualcosa di assolutamente nuovo che ha ben poco dell’antica tragedia. Lo sa in particolare Rinuccini, che presenta, pur introducendo nel prologo un personaggio che è la personificazione della tragedia (il riferimento umanistico alla cultura classica legittimava ipso facto la novità dell’operazione di fronte a eventuali critiche), una favola pastorale ad alto tasso di patetismo, quale era il mito di Orfeo ed Euridice.
La scelta da parte di Rinuccini di un genere quale la favola pastorale si giustifica duplicemente. Da un lato, trattandosi di un genere teatrale assai in voga, la presentazione di uno spettacolo interamente messo in musica appare più accettabile (a cavallo tra Cinque e Seicento, sulla scia dell’Aminta di Torquato Tasso e del Pastor fido di Giovan Battista Guarini, la pastorale gode di un’enorme fortuna).
Dall’altro, l’ambientazione mitologica che essa comporta giustifica da un punto di vista razionale l’idea di un’azione drammatica in cui si dialoga cantando. Se è infatti arduo immaginare che uomini concreti e reali conversino ed esprimano le loro passioni attraverso il canto (abbia pur esso “la forma di cosa mezzana” tra canto e parlare ordinario), la cosa risulta assai più plausibile quando a esprimersi per mezzo della parola intonata siano le divinità, i semidei, gli eroi e i pastori della mitica felice età dell’oro, dei cui casi si narra nelle pastorali. E a maggior ragione, se tra i personaggi principali si possono annoverare cantori come Orfeo, al cui canto il mito attribuisce il potere di muovere a commozione gli uomini e gli animali, e di vincere la morte.
Ancora negli anni Trenta ne Il corago, un manuale pratico di messinscena teatrale stilato da un anonimo autore, forse fiorentino, si danno alcuni avvertimenti relativamente alla scelta dei personaggi.
Va quindi ridimensionata, se non del tutto sfatata, la pretesa inconsapevolezza con la quale si sarebbe inventato il melodramma invece di restaurare la tragedia antica. Quella di Rinuccini, Peri e Caccini non è la fortuita scoperta dell’America avvenuta mentre si tentava una nuova via per le Indie, ma la conseguenza di una sempre più cosciente nuova concezione del canto inteso come mezzo efficacemente espressivo delle umane passioni.
Quantunque l’Euridice non sia l’evento di maggior rilievo nel corso dei festeggiamenti per le nozze medicee, v’è coscienza da parte dei suoi autori della portata dell’operazione: la pubblicazione verso la fine di quel 1600 da parte di Caccini della sua versione dell’Euridice, seguita a pochi mesi di distanza da quella di Peri, dà il via a una gara combattuta a suon di prefazioni per rivendicare la paternità musicale del nuovo stile.
Già Cavalieri, grande escluso dai festeggiamenti medicei, mentre a Firenze si stava provando l’Euridice, era entrato in lizza pubblicando la partitura della sua Rappresentazione di anima e di corpo nella quale rivendica, però, più l’ideazione di un nuovo genere di spettacolo cantato da cima a fondo, che del nuovo stile rappresentativo a metà tra il canto e l’eloquio ordinario.
A prescindere da rischiose e fuorvianti attribuzioni di priorità dell’uno sull’altro, nell’affermazione del nuovo stile, saranno le Euridici di Peri e Caccini a costituire i prototipi ai quali si ispireranno gli autori dei primissimi melodrammi, tanto dal punto di vista poetico quanto da quello musicale (alle loro partiture, pubblicate tra il 1600 e il 1601, nel giro di pochi anni viene reso l’onore della ristampa).
In quanto spettacolo cortigiano, il melodramma non tarda a divenire la forma spettacolare con la quale, a imitazione della ricca corte medicea, in occasione di particolari eventi il potere si celebra, nell’eccezionalità della rappresentazione, di fronte a se stesso e a uno scelto pubblico di invitati.
È proprio in seguito alla funzione primaria di spettacolo magnifico nato per festeggiare un evento memorabile e irripetibile, che i melodrammi delle origini sono stampati e consegnati alla posterità. Non perché possano venire ripresi in altra sede, ma in quanto eventi da immortalare nella loro occasionale ragion d’essere, così come i resoconti dei magnifici banchetti e delle magnifiche feste o tornei.
È infatti come intrattenimento occasionato da feste o solenni celebrazioni dinastiche, politiche o diplomatiche che nei primi trent’anni del secolo il melodramma fa la sua comparsa a Firenze, a Mantova, a Roma e dove – come a Bologna – vi risiedano piccole corti signorili.
A Mantova, in particolare, il melodramma riceve una revisione nella sua statutaria unione di canto e recitazione ad opera di Claudio Monteverdi, che in quegli anni sta portando alle estreme conseguenze la maturazione del madrigale, sempre più piegato verso le potenzialità espressive del canto monodico, senza la quale forse la novità del secolo si sarebbe in breve estinta.
Nell’arco di due anni, tra il 1607 e il 1608, Monteverdi compone Orfeo, che similmente all’Euridice fiorentina si ispira alle vicende del mitico cantore tracio, su libretto di Alessandro Striggio jr., e Arianna, il primo tentativo operistico di affrontare realmente il tragico umano, su libretto ancora una volta di Rinuccini. In Orfeo (della partitura di Arianna sopravvive solo un famosissimo lamento) la regolarità, non di rado monotona, dello stile rappresentativo fiorentino cede, nei momenti di maggior tensione emotiva, alle risorse che il canto può offrire nell’espressione drammaticamente efficace dell’affetto portato in scena.
Per quanto l’interesse per il nuovo tipo di spettacolo vada sempre più prendendo piede nella penisola, nei primi decenni del secolo il melodramma rimane fortemente ancorato ai suoi tratti originari, sia dal punto di vista organizzativo-produttivo (l’occasionalità, l’estemporaneità, l’irripetibilità e l’amplissimo dispiego di mezzi, a onta della mancanza di veri e propri teatri destinati alle rappresentazioni, che contraddistinguono gli allestimenti), sia da quello tematico e stilistico (l’ambientazione mitologico-pastorale e la ricerca di un equilibrio, o compromesso,tra canto e recitazione che caratterizzano libretti e partiture).
A Roma il melodramma conosce fino a tutto il terzo decennio una fortuna sporadica e occasionale. Apparso in poche rare occasioni presso le piccole corti di principi della Chiesa e membri dell’aristocrazia, il melodramma deve attendere lo straordinario impulso ricevuto dalla famiglia Barberini, che dal 1623 può contare sulla copertura politica (ed eventualmente economica) garantita dall’elezione al soglio pontificio di un membro della famiglia (Urbano VIII), per affermarsi con una certa stabilità nella vita spettacolare romana.
A partire dal 1632 e fino alla fine del papato di Urbano VIII, i tre cardinali Antonio, Francesco e Taddeo Barberini, nipoti del pontefice regnante, danno vita a una serie di rappresentazioni operistiche, allestite nelle residenze di famiglia, destinate a imporre allo scelto pubblico di nobili, alti prelati e ambasciatori di stanza a Roma e viaggiatori stranieri, un’immagine del potere e della ricchezza della famiglia.
Messi in scena con una quasi rigorosa scadenza annuale durante il carnevale (e perciò privi della concreta circostanza celebrativa che aveva occasionato la quasi totalità delle opere allestite tra Firenze, Mantova e Roma nei primi decenni del secolo), gli spettacoli barberiniani divengono un appuntamento fisso tra i più importanti nella vita politico-mondana romana degli anni Trenta.
Alla loro realizzazione partecipano alcuni tra i più notevoli musicisti attivi nella Roma del tempo: da Stefano Landi ai fratelli Domenico e Virgilio Mazzocchi, da Luigi Rossi a Marco Marazzoli a Michel Angelo Rossi.
Al fine di ottenere il massimo effetto da quell’operazione destinata alla loro pubblicizzazione e celebrazione, per gli spettacoli i Barberini predispongono nelle adiacenze del palazzo Barberini alle Quattro Fontane un enorme capannone (il teatro Barberini) capace di oltre 3.500 posti. Gli spettatori accedono allo spettacolo dietro invito, e v’è da supporre (per ragioni di buona politica cittadina) che le porte del teatro fossero aperte, sia pur in misura limitata, anche a spettatori di estrazione non aristocratica.
Concepiti con una funzionalità eminentemente celebrativa, gli spettacoli promossi dai Barberini sono memorabili anzitutto sul piano visivo. In essi l’aspetto scenografico riceve un’attenzione straordinaria, tanto dal punto di vista puramente scenografico, quanto da quello macchinistico e illuminotecnico (per il progetto e la realizzazione delle scenografie i nipoti di papa Urbano VIII potranno valersi di un architetto del calibro di Gian Lorenzo Bernini).
Per la parte letteraria, le produzioni barberiniane sono affidate a un giovane prelato dalla solida formazione umanistica al servizio della famiglia, Giulio Rospigliosi (destinato a divenire poi papa col nome di Clemente IX). Rospigliosi abbandona l’ormai canonico soggetto mitologico per volgersi a soggetti più vicini alla realtà umana, siano essi tratti dall’agiografia cristiana (Rospigliosi esordisce come librettista nel 1631 con il Sant’Alessio messo in musica da Landi) o dalle grandiose epopee dell’Ariosto e del Tasso, fino a portare in scena personaggi buffi, non di rado ai limiti del grottesco, come servi e nutrici.
Le preferenze tematiche di Rospigliosi oltre a modificare l’ambientazione narrativa del melodramma, ne condizionano anche l’organizzazione morfologico-musicale. La scelta di personaggi sempre più vicini al reale, umani a tutti gli effetti (Alessio è uomo prima e durante l’esperienza mistica che ne farà un santo; e lo sono anche Ruggero e Tancredi, e donna è Erminia) spiana la strada a una sempre maggiore accettazione del canto come linguaggio convenzionale dell’opera.
Rospigliosi ha coscienza dello slittamento funzionale che compie il canto, da plausibile lingua di un’epoca mitica e felice (la pastorale età dell’oro) a convenzionale lingua ordinaria di persone concrete, e cerca in qualche modo di attenuarne i momenti in cui la carica antirazionalistica si accentua.
Quando i personaggi abbandonano il canto intonato dell’eloquio normale per cantare una melodia più “densa” e compiuta, il pretesto è fornito in genere da una situazione in cui è richiesto che il personaggio canti. In quei momenti il cantante-attore dell’opera intona una canzone così come farebbe un attore intento a recitare un dramma di parola.
L’espediente, già in uso nei primi anni del secolo (nell’Orfeo monteverdiano ricorre con una discreta frequenza: “Pastore: Sia testimon del core | qualche lieta canzon che detti amore. | Orfeo: Rosa del ciel, gemma del mondo e degna”), nelle opere barberiniane viene in un certo qual modo eretto a sistema.
Ancora nel 1647 a Parigi nell’Orfeo di Francesco Buti e Luigi Rossi, l’ultimo prodotto della concezione melodrammatica “barberiniana”, nonostante il soggetto sia desunto dalla mitologia, il dispositivo della canzone cantata “in quanto tale” è frequentissimo.
Luigi Rossi e Francesco Buti
Euridice ed Endimione
Orfeo
EURIDICE: Andiam, mio genitor,
ma tra noi cantandocanzone “Al fulgor”.
ENDIMIONE: Sì, ch’è verace.
EURIDICE: Al fulgor di due bei rai (...) (I, 1);
ENDIMIONE: Però, pria di partire,
voglio per allegrezzaquella canzone’a quell’altra “Al fulgor” proprio s’oppone.
Udite, amanti, udite (...) (I, 2);
ORFEO: È forse a voi [o Parche] nascoso
di questa ancorch’addolorata cetrapregio armonioso?, le mie voci uditedi lei suono unite;negatemi poi, dive inquiete, tutto ciò che potrete!
De la vita del mio bene (...) (III, 1)
L. Rossi e F. Buti, Orfeo, 1647
L’idea che la canzone (o l’aria, usando un termine che proprio a Roma comincia a imporsi) debba essere occasionata da una situazione per la quale si debba cantare, porta, a differenza di quanto era avvenuto nelle prime opere fiorentine e mantovane, a una maggior differenziazione tra i momenti in cui nel testo hanno luogo eventi e dialoghi rilevanti per il procedere dell’azione drammatica, e i momenti in cui il personaggio canta. Affinché il passaggio dalla recitazione al canto di una canzone sia avvertibile, i due momenti dovranno essere differenziati a livello morfologico. Più scorrevole, semplice, e privo di un profilo melodico veramente compiuto il primo (recitativo), più complesso, regolare, ritmato, e pregnante da un punto di vista melodico il secondo (aria).
Pur nella sua regolarità stagionale, l’opera barberiniana è assimilabile dal punto di vista produttivo e ideologico-propagandistico alle opere di corte, soggette agli alti e bassi della politica. Strettamente vincolata e dipendente dal favore di una famiglia dominante (nell’anomala accezione di una famiglia di principi della Chiesa), l’opera a Roma decade quando, morto Urbano VIII (1644), con l’ascesa al soglio pontificio di papa Innocenzo X Pamphili la famiglia Barberini cade in disgrazia ed è costretta all’esilio in Francia.
Tra coloro che fanno parte dell’entourage barberiniano, Rospigliosi finisce nunzio apostolico in Spagna; rientrerà a Roma e riprenderà la sua attività di drammaturgo solo con l’elezione a pontefice di Fabio Chigi (Alessandro VII), mentre Francesco Buti entra al servizio di Mazzarino, divenendo, grazie alla conoscenza del mestiere appreso negli anni romani, uno dei principali responsabili degli allestimenti operistici con i quali si tenterà di introdurre il gusto per il melodramma alla corte di Francia.
E quando al rientro in Roma di Rospigliosi si riproporranno i presupposti per un ritorno dello spettacolo operistico, il vecchio melodramma di tipo barberiniano, dopo l’“invenzione” a Venezia dell’opera impresariale (caratterizzata dal punto di vista produttivo da chiari intenti commerciali), risulterà, nei suoi caratteri di unicità, irripetibilità, dispendiosità, grandiosità e non esportabilità, assolutamente improponibile.