Nanotecnologie
Verso l’infinitamente piccolo
Le nanotecnologie sono un campo di ricerca ancora agli inizi, ma da cui si attendono importanti sviluppi. L’obiettivo è costruire dispositivi con componenti piccolissimi, con dimensioni dell’ordine dei nanometri, ossia milionesimi di millimetro. Le possibili applicazioni vanno dalla produzione di nuovi materiali ultraleggeri e resistenti, a microprocessori e unità di memoria per computer più potenti di quelli attuali, fino a dispositivi medici in grado di rilasciare farmaci
nel nostro organismo in modo intelligente
Più che una vera e propria disciplina a sé stante, le nanotecnologie sono definite come tutto ciò che, in vari campi, riguarda la manipolazione di elementi con dimensioni inferiori al centinaio di nanometri (nm), dove un nanometro vale un milionesimo di millimetro. Tanto la chimica quanto la fisica, l’ingegneria e la medicina contribuiscono al campo delle nanotecnologie. Per farsi un’idea delle dimensioni di cui si parla, basti pensare che uno dei nostri capelli ha uno spessore di circa 70.000 nm. Un nanometro corrisponde più o meno allo spazio occupato da tre atomi messi in fila: quindi lavorare sulle nanotecnologie vuol dire imparare a manipolare la materia a livello dei singoli atomi. È qualcosa che per ora siamo in grado di fare molto limitatamente, ma che in futuro potrebbe completamente rivoluzionare i processi industriali e portare applicazioni al momento ancora impensabili nei campi più diversi. Per questo, tutti i paesi industrializzati stanno investendo somme molto consistenti nelle ricerche in questo campo.
L’idea delle nanotecnologie nasce nel 1959, quando il celebre fisico statunitense Richard Feynman, premio Nobel nel 1965, tenne alla riunione annuale dell’American physics society un discorso intitolato There’s plenty of room at the bottom («C’è un sacco di posto in fondo»). Con quel discorso, Feynman voleva portare all’attenzione dei suoi colleghi una semplice constatazione: le leggi della fisica non stabiliscono nessun limite inferiore per le dimensioni dei dispositivi che l’uomo può costruire. Quindi, secondo Feynman, era possibile realizzare dispositivi composti da pochi atomi. E lavorare su spazi così piccoli avrebbe avuto innumerevoli applicazioni, in particolare per l’immagazzinamento delle informazioni. Con gli strumenti adatti, diceva Feynman, sarebbe stato possibile trascrivere l’intera Enciclopedia Britannica su una capocchia di spillo. L’idea di Feynman era semplice e geniale: costruire una macchina in grado di produrre una copia di sé stessa, ma dieci volte più piccola. La nuova macchina ne avrebbe quindi prodotto un’altra che sarebbe risultata cento volte più piccola della prima, e così via, fino ad arrivare a una macchina composta da pochi atomi. Feynman sapeva benissimo che le cose non sarebbero state proprio così semplici. Man mano che le dimensioni si riducono, infatti, è necessario ridisegnare in parte la macchina, perché i rapporti tra le forze fondamentali cambiano: per esempio la forza di gravità diventa meno importante.
La sfida di Feynman venne raccolta da molti gruppi di ricerca, che iniziarono a lavorare per spingere la miniaturizzazione dei componenti informatici sempre più avanti, pur rimanendo ancora ben lontani dalla ‘nano’ dimensione. Fu negli anni Ottanta che venne coniato il termine nanotecnologia. Il primo a usarlo fu lo statunitense Kim Eric Drexler, un fisico formatosial prestigioso Massachusetts institute of technology (MIT), in un libro del 1986 intitolato Engines of creation («Le macchine della creazione»). Drexler qui spiegava che raggiungere la nanodimensione avrebbe aperto le porte ad applicazioni rivoluzionarie in molti campi diversi, dall’informatica alla medicina alla scienza dei materiali. Drexler ha fondato anche un istituto di ricerca, il Foresight institute, che è stato molto attivo nel far conoscere anche al grande pubblico le nanotecnologie.
È comunque solo a partire dagli anni Novanta che le nanotecnologie hanno iniziato, anche se molto lentamente, a diventare realtà. Un capitolo importante è stata la scoperta di una particolare molecola composta di atomi di carbonio, il fullerene.
Nel 1985 due chimici statunitensi, Richard E. Smalley e Robert F. Curl Jr (che per questa scoperta avrebbero vinto poi il Nobel nel 1996 insieme al chimico inglese Harold W. Kroto), scoprirono che se il carbonio viene vaporizzato, mescolato con un gas inerte e poi fatto condensare lentamente, i suoi atomi si dispongono a formare una molecola con la forma... di un pallone da calcio. Per la precisione, le molecole sferiche sono formate – nel caso più semplice e comune – da 60 atomi di carbonio disposti a formare pentagoni, ognuno dei quali è circondato da cinque esagoni. Questa molecola fu battezzata fullerene, dal nome dell’architetto Richard Buckminster Fuller, l’inventore delle cupole geodetiche, strutture architettoniche che presentano la stessa forma di queste molecole, e ben presto si scoprì che ha interessanti proprietà. Per esempio, si comporta come superconduttore (conduttori), ossia non oppone praticamente resistenza al passaggio di corrente elettrica. Nel corso degli anni i ricercatori hanno imparato a fabbricare fullereni sempre più grandi, arrivando anche a ‘palloni’ di 960 atomi.
Inoltre, se questa struttura viene allungata, in pratica aggiungendo altri esagoni di carbonio tra le due metà del pallone, si forma un cilindro detto nanotubo. I nanotubi sono in questo momento le strutture su cui si concentra la maggior parte della ricerca sulle nanotecnologie. Possono avere diverse proprietà elettriche in base al loro grado di torsione, alla loro purezza e al loro diametro e sono estremamente resistenti (molto più dell’acciaio) e leggeri (più dell’alluminio).
Le possibili applicazioni dei nanotubi sono in teoria sterminate. Prima di tutto, potrebbero essere usati per fabbricare chip (elettronica) di nuova generazione per l’industria dei computer, che potrebbero arrivare a velocità di calcolo anche 1.000 volte superiori a quella dei processori attuali. Inoltre, potrebbero servire a produrre materiali estremamente leggeri e resistenti, da utilizzare nella produzione di automobili o aerei. Oppure essere usati come sensori, visto che possono cambiare bruscamente le loro proprietà elettriche a contatto con determinate sostanze. O, ancora, diventare microscopici reattori, al cui interno far avvenire reazioni che sarebbero impossibili normalmente. Per fare uno degli esempi più interessanti, si pensa ai nanotubi come a uno strumento per immagazzinare l’idrogeno quando questo fosse usato come combustibile per le automobili. Due nanotubi associati a elettrodi su una sbarra di vetro potrebbero essere aperti e chiusi cambiando la tensione ed essere usati come ‘nanopinze’, per afferrare oggetti con dimensioni di poche centinaia di nanometri.
Più in generale, i nanotubi potrebbero diventare componenti di base di vere e proprie macchine molecolari, o NEMS (Nano electromechanical systems), dispositivi in grado di svolgere semplici lavori meccanici, in tutto e per tutto simili a macchine con cui abbiamo a che fare ogni giorno, come per esempio una pompa, tranne che per le dimensioni, che sarebbero, appunto, nanometriche.
Uno dei più interessanti campi di applicazione di queste nanomacchine potrebbe essere la medicina. Macchine di questo tipo permetterebbero di trasportare farmaci all’interno dell’organismo e di rilasciarli esattamente al posto giusto e nella quantità giusta, una molecola per volta. Un bel cambiamento rispetto al modo in cui usiamo i farmaci ora, cioè ingerendo una pillola il cui contenuto si disperde in tutto l’organismo e solo in parte raggiunge l’organo a cui è destinata. Per esempio, alcuni scienziati stanno sperimentando contenitori di dimensioni nanometriche in grado di entrare in circolo nel flusso sanguigno, raggiungere il sito di un tumore riconoscendo le cellule tumorali grazie a nanosensori – per esempio, in base al grado di acidità – e lì aprirsi per rilasciare con regolarità le molecole di farmaco.
Come avviene in molti campi della ricerca di frontiera, le nanotecnologie sono oggetto di grande attenzione da parte degli eserciti. Tra le idee a cui sta lavorando la ricerca militare ci sono polveri esplosive preparate manipolando gli elementi a livello atomico per aumentare la potenza delle armi; corazze protettive – leggere ma indistruttibili – per i soldati impegnati sul campo; nanosensori o minuscole microspie da spargere sul campo di battaglia per controllare ogni movimento del nemico.