PEGOLOTTI, Nanni
PEGOLOTTI Nanni (Nanino, Giovanni). – Figlio di Reguccio (Arriguccio) di Lotto Pegolotti, nacque a Verona attorno al 1345. Le generalità della madre, citata nelle fonti veronesi di metà Trecento come «uxor Regutii de Florentia» (Varanini 2006, p. 57), sono ignote.
L’intero clan dei Pegolotti aveva trovato riparo nella città scaligera, rifugio di molti fuorusciti ghibellini, già durante la dominazione di Cangrande I della Scala (e dunque entro il 1329, data della prima comparsa di Reguccio nella documentazione locale). Questo dato cronologico combacia con quanto si sa delle vicende politiche dei Pegolotti in Firenze: dopo una lunga successione di bandi e di rientri – che già nel 1314 avevano portato peraltro alcuni esponenti della famiglia in Tirolo, a gestire casane e banchi di prestito – nel 1325 essi non accettarono un provvedimento di confino e se ne andarono dalla città. Durante il reggimento di Mastino II e Alberto II della Scala, nipoti e successori di Cangrande I (1329-1351), i Pegolotti si misero in luce nell’entourage signorile, ottenendo cariche civili ed ecclesiastiche di un qualche rilievo a Verona e a Vicenza. Ubertino Pegolotti, fratello di Reguccio, nel 1348 è infatti vicario del Pedemonte vicentino ed è investito delle decime di S. Pietro di Leguzzano; negli stessi anni Francesco Pegolotti è arciprete di Barbarano Vicentino e vicario generale della diocesi. Radicato a Vicenza è anche un mercante, Filippo del fu Neri di Lotto Pegolotti, che si imparenta con la famiglia Ghellini e riceve a sua volta investiture decimali (1362; Kohl, p. 145). Ma è soprattutto Reguccio – che nel 1351 risulta pur sempre definito «de Florentia» ed è «habitator Verone in guaita S. Cecilie» (Archivio di Stato di Roma, Collezione Pergamene, b. 224, perg. 18) – a percorrere una brillante carriera sulle rive dell’Adige. Già tra 1336 e 1339 fu destinatario – con Taddeo Uberti, Azzo da Correggio, Spinetta Malaspina – degli appelli e delle richieste che gli anziani del comune di Lucca indirizzano a Mastino II (Dorini, p. 208), e non per caso nel 1341 trattò la cessione di Lucca per conto del signore veronese. Di Mastino II, poi, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, fu «familiaris», e «factor generalis» (una funzione che da quella di amministratore del privato patrimonio si stava trasformando in quella di “ministro delle finanze”). Successivamente è menzionato come «collateralis» di Cangrande II (1357), ed è ancora ai vertici nel 1359.
Lo stretto controllo esercitato dal potere signorile sulle istituzioni ecclesiastiche portò ai Pegolotti, in quegli anni, pingui rendite. Oltre a quanto sopra ricordato per la diocesi di Vicenza, non stupisce che a un fratello di Pegolotti, Taddeo, fosse assegnato in giovanissima età, nel 1351, un beneficio ecclesiastico nella pieve di S. Floriano in Valpolicella (Varanini, 1985, p. 170) e un canonicato in aspettativa nella cattedrale di Verona (poi conservato anche durante la prigionia del padre: Archivio di Stato di Verona, Mensa vesc., reg. 4, c. 2r); e nel maggio 1364 Cansignorio e Paolo Alboino della Scala, allora al potere, fecero assegnare a Reguccio rendite fondiarie del monastero di S. Zeno, regolarizzando forse una situazione risalente, visto che una più tarda annotazione dell’archivio abbaziale ricorda che egli «iniuste multum tempus ea possedit». Ma nello stesso anno 1364, pochi mesi dopo, per motivi imprecisati Reguccio Pegolotti cadde in disgrazia, e fu incarcerato insieme con i figli. A nulla valse la mobilitazione diplomatica a suo favore – di livello e intensità davvero fuori del comune, a prova dei legami che i Pegolotti mantenevano in patria – da parte del comune di Firenze: non ebbero esito un’ambasciata a Ferrara e poi a Verona (presso Cansignorio e la moglie, Agnese di Durazzo) nei primi mesi del 1365, un’altra nel luglio al cardinale Androino de la Roche legato papale a Bologna, una terza a Milano presso Bernabò Visconti e Regina della Scala, sorella di Cansignorio. Alla fine, Reguccio Pegolotti «mortuus est miserabiliter in carceribus Verone» tra il 1370 e il 1374, come ricordò con viva soddisfazione, qualche anno più tardi (1386), un notaio del monastero di S. Zeno.
Pegolotti, che fu probabilmente l’ultimo dei cinque figli di Reguccio (Lotto, Pietro, Iacopo, Taddeo e appunto Giovanni), subì ovviamente le conseguenze della disgrazia paterna, e risale probabilmente alla prigionia veronese la sua prima prova poetica, un sonetto indirizzato ad Alberto d’Este (allora associato al potere con Niccolò II) nel quale lamenta il proprio coinvolgimento di figlio incolpevole. Sta di fatto che la sua prima comparsa certa nella vita pubblica risale al 1379. Nella pace tra Bartolomeo e Antonio della Scala e Bernabò Visconti, insieme col consanguineo Pietro Simone è infatti menzionato «Nannes Pegolotus» (dunque, con l’ipocoristico) tra i rappresentanti di parte scaligera (senza che si chiarisca il ruolo da lui svolto, se di carattere militare o politico-diplomatico). I Pegolotti ripresero pertanto una posizione di influenza a corte, forse dopo la morte di Cansignorio (1375).
È compatibile con questo dato anche un accenno autobiografico ricavabile dalla “canzone morale” scritta contro Venezia nel 1405 circa, nella quale Pegolotti biasimò con parole durissime la città lagunare per l’assassinio dei Carraresi dopo la conquista di Padova. Egli auspica infatti, nella chiusa, che l’odiata laguna «fussi secca, sì chom io vidi a Chioggia /quando ne fecion loggia / e’ franchi Genovesi! Et questo basti,/ ch’allor per fame tutta ti pelasti». Ciò lascia pensare che Pegolotti sia stato testimone diretto, nello stesso 1379 o nel 1380, di alcuni eventi della guerra tra Genova e Venezia, combattuta in Adriatico e in particolare, per l’appunto, a Chioggia.
Successivamente, Pegolotti rientrò forse a Firenze, ove nel 1384 risulta residente nel popolo di S. Cecilia (non è certo in realtà che fosse fisicamente presente). Va collocato probabilmente in questo torno di tempo il suo matrimonio con Angela Baldini da Montepulciano. Che egli si sia allontanato per qualche anno dal Veneto (e dai rischiosi difficili anni dell’ultima crisi scaligera, dominante Antonio della Scala), è suggerito dal fatto che egli ricompare nella regione giusto nel 1388 (l’anno successivo alla caduta del dominio scaligero); quanto meno, Pegolotti ottenne in quell’anno, insieme al fratello Taddeo, la conferma dell’investitura decimale di S. Vito di Leguzzano da Pietro Filargo, il vescovo filovisconteo di Vicenza (Mantese, p. 162). Più incerti sono i suoi rapporti con la corte carrarese di Padova, che il Treves – nella sua monografia del 1913 che resta un riferimento bibliografico imprescindibile – ipotizza. Si può solo segnalare che nel codice Magliabechiano Strozziano II, IV, 250 (che tramanda la canzone morale sopra citata) la didascalia dichiara che l’autore (appellato «Giovanni Pegholotti») era «servidore di mesere Francesco da Charara, per adrieto signore di Padova». Tuttavia la non scarsa documentazione concernente la corte carrarese di fine Trecento (il Francesco da Carrara cui si fa cenno dovrebbe essere il Novello, al potere tra il 1390 e il 1405) non lo menziona mai, e l’unica attestazione di contatti tra i da Carrara e i Pegolotti resta quella, sopra ricordata, del 1362.
Non si sa nulla dell’attività di Pegolotti negli anni successivi, se non quanto si ricava dal suo canzoniere: egli spostò il suo campo d’azione nell’Italia centrale, e a Roma si legò al cardinale Baldassarre Cossa (dal 1410, Giovanni XXIII). Nel 1414 per conto di costui svolse le funzioni di tesoriere della Marca di Ancona, e in tale contesto maturò quel profondo rancore nei confronti dei Malatesta, che espresse nella sua Opera in terzine dantesche, scritta con tutta probabilità nel 1417 subito dopo il suo ritorno a Firenze (anche se il vescovo Benedetto, che lo accompagna nell’aldilà, scomparve ante 1413; e dunque il testo va idealmente collocato in un momento precedente).
La sua ultima comparsa attiva sulla scena politica fu la partecipazione a una commissione di 100 cittadini incaricati di predisporre una lega tra Firenze e Siena (1416). Era ancora vivo nel 1431, quando cedette a Jacopo Bardi alcuni diritti sulla chiesa di S. Martino all’Impruneta, ma dovette scomparire di lì a poco, senza lasciare eredi.
La produzione letteraria di Pegolotti, che come si è accennato si distribuisce cronologicamente in diversi momenti della sua esperienza biografica e politica, comprende in tutto nove sonetti, tre canzoni morali, due capitoli e l’Opera in terzine. Di mediocrissima qualità, è tradita quasi tutta dal codice Marucelliano C 155. Note già all’erudizione settecentesca (Crescimbeni, Lami), le composizioni di Pegolotti furono tutte edite in appendice allo studio tuttora fondamentale di Eugenio Treves (1913). Le rime di soggetto amoroso riguardano in buona parte la relazione omosessuale con Andrea Ferrantini, di famiglia fiorentina (da collocarsi probabilmente nell’ultima fase della vita di Pegolotti). Nella finzione letteraria para-dantesca dell’Opera in terzine, con la guida di Benedetto vescovo di Montefeltro (e in precedenza, con Bonifacio IX e i successori, funzionario pontificio in Romagna e nella Massa Trabaria) Pegolotti descrive con compiacimento le pene infernali cui sono condannati diversi esponenti dei Malatesta, da lui accusati di inimicizia nei confronti della Chiesa: si tratta di Galeotto di Pandolfo († 1385), di Carlo di Galeotto (1368-1429), di Andrea di Galeotto (1373-1416) e di Malatesta di Pandolfo signore di Pesaro (1370-1429). Si menziona nel testo anche Pasquino Capelli, il celebre cancelliere visconteo giustiziato nel 1398 per aver tramato con Carlo Malatesta contro Giangaleazzo.
Fonti e Bibl.: F. Flamini, La lirica toscana nel Rinascimento, Pisa 1891, p. 527; C. Cipolla, F. Pellegrini, Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, in Bullettino dell'Istituto Storico Italiano, XXIV (1902), pp. 200, 203 s.; E. Levi, Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del secolo XIV, Firenze 1908, pp. 115-122, 480-484; E. Treves, L’ ‘Opera’ di N. P. e in appendice il Canzoniere, Città di Castello 1913 (attraverso il quale si recupera tutta la precedente bibliografia); V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933, p. 493; F. Torrefranca, Il segreto del Quattrocento: musiche amorose e poesia popolaresca, Milano 1939, p. 291; U. Dorini, Un grande feudatario del Trecento. Spinetta Malaspina, Firenze 1940, p. 208 (Reguccio); D. Neri, I commercianti fiorentini in Alto Adige nei secoli XIII e XIV, in Archivio per l’Alto Adige, XLII (1948), pp. 141, 145 s.; G. Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, III (Il Trecento), Vicenza 1958, p. 162; G.M. Varanini, La classe dirigente veronese e la congiura di Fregnano della Scala (1354), in Studi storici veronesi Luigi Simeoni, XXXIV (1984), pp. 19 s., nota 23; G.M. Varanini, La Valpolicella dal Duecento al Quattrocento, Verona 1985, pp. 152 s., 170, 271 (Reguccio e Taddeo); G.M. Varanini, Vicenza nel Trecento. Istituzioni, classe dirigente, economia (1312-1404), in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a cura di G. Cracco, Vicenza 1988, pp. 165 s., 174; A. Morsoletto, Castelli, città murate, torri e fortificazioni scaligere del territorio vicentino, in Gli Scaligeri 1277-1387, a cura di G.M. Varanini, Verona 1988, pp. 303, 315; B.J. Kohl, Padua under the Carrara, 1318-1405, Baltimore-London 1998, p. 145; A. Lanza, Freschi e minii del due, tre e quattrocento: saggi di letteratura italiana antica, Firenze 2002, pp. 141, 144 ss.; G.M. Varanini, La chiesa e i frati di S. Maria della Scala nel contesto urbanistico e socio-religioso della Verona scaligera, in Santa Maria della Scala. La grande ‘fabrica’ dei Servi di Maria in Verona. Storia, trasformazioni, conservazione, a cura di A. Sandrini, Verona 2006, p. 57; G.M. Varanini, Toscani a Verona nel Trecento. Schede d’archivio vecchie e nuove, in Studi in onore di Sergio Gensini, a cura di F. Ciappi, O. Muzzi, Colle Val d’Elsa 2013, pp. 187-190, 192, 196.