GOZZADINI, Nanne
Nacque a Bologna verso il 1340 da Gabione di Gozzadino e da Margherita di Nanne Sabatini, che Gabione aveva sposato in seconde nozze. Il suo nome era Giovanni, ma a somiglianza del nonno materno si preferì da tutti la variante Nanne.
Oltre al G., Gabione aveva avuto da Margherita anche Bonifacio, Gesia e Goliana; dalla prima moglie - Azzolina o Ursolina Spersonaldi - erano nati Gozzadino e Simonino; da una Francesca, della quale è ignoto il casato, ebbe Nicolosia.
Scarse sono le notizie della prima parte della vita del Gozzadini. Probabilmente venne avviato alla professione di banchiere dal padre, dedito a questa attività a Bologna e a Ferrara, ma sembra che abbia ricevuto anche una formazione di tecnica militare, al seguito di qualche capitano di ventura, forse Alberico da Barbiano.
Alla morte del padre, avvenuta poco prima del 1362, il patrimonio familiare fu gestito dai figli maggiori Gozzadino e Simonino e, morto Gozzadino nel 1369, fu Simonino a curare da Ferrara gli affari della famiglia. Anche il G. risiedette a Ferrara almeno fino al 1370, ma in seguito si trasferì a Bologna e qui fissò la sede principale dei propri affari. Sposò verso il 1370 Giovanna di Giovanni Negrisoli di Ferrara. Dal matrimonio nacquero numerosi figli, alcuni dei quali lasciarono significative tracce nelle successive vicende della famiglia e della città di Bologna: Gabione, Castellano, Giacomo, Delfino, Nicolò, Tommaso, Alessandro, Testa e le figlie Antonia, Minocia, Lucia, Camilla e Costanza.
Insieme con il fratello Bonifacio si dedicò in Bologna all'attività bancaria, con sede nella "cappella" di S. Cataldo e i risultati furono molto positivi. La denuncia d'estimo che i due fratelli presentarono congiuntamente nel 1385 riporta come valore delle sole proprietà immobiliari la cifra di 6637 lire di bolognini. Vi fanno spicco una grande casa acquistata l'anno precedente nella cappella di S. Michele dei Leprosetti, adibita a loro comune residenza, altri immobili in città e numerosi appezzamenti di terra a Le Caselle e, soprattutto, a Prunaro, per quasi 80 ettari. Nel 1386 i due fratelli incrementarono con altri acquisti le proprietà a Prunaro e vi ricostruirono un mulino, già appartenuto al loro nonno e in seguito distrutto.
All'attività bancaria il G. affiancò dal 1376 una progressiva attenzione per le vicende politiche della città.
In questo anno una rivolta, promossa da esponenti dell'oligarchia sostenuti da Firenze e appoggiati anche da numerosi elementi popolari, costrinse il cardinale Guglielmo di Noellet, vicario pontificio di Bologna, ad abbandonare la città. Ripresero vita le strutture dell'antica organizzazione comunale: podestà e capitano del Popolo con le relative curie e il Collegio degli anziani, quali titolari del potere di governo. Tra gli iscritti alle società d'arti gli Anziani scelsero i componenti del Consiglio generale detto dei cinquecento, cui fu devoluto il potere normativo. Fu l'inizio della signoria del popolo e delle arti, una ripresa dell'autonomia dopo che, per quasi mezzo secolo, sulla città si erano alternati vari signori e i legati pontifici. Si trattò tuttavia di una ripresa più formale che effettiva. L'autonomia politica era fortemente limitata da un lato dall'alta sovranità del papa, che non si poteva disconoscere, e dall'altro dalla necessità di conservare comunque l'appoggio di Firenze contro l'incombente minaccia di una riaffermazione del dominio visconteo. Nei rapporti interni il potere reale non era delle società d'arti alle quali il nuovo regime si richiamava, ma di una ristretta oligarchia. I suoi esponenti, pur divisi in fazioni, furono la vera classe dirigente della città, che impedì per almeno 25 anni l'affermazione di un potere signorile. Col secolo XV la signoria del popolo e delle arti cedette il campo, travolta dalle ambizioni di alcuni cittadini, strumenti della espansione viscontea e della riaffermazione della supremazia pontificia. In questo contesto, si snoda la vicenda politica del G., dalla sua iniziale partecipazione agli organi assembleari del 1376 al successivo coinvolgimento in ristrette Balie di governo, per concludersi con iniziative che potevano apparire - e forse erano - tentativi di affermazione di una personale signoria.
Per il primo decennio il coinvolgimento del G. nella signoria del popolo e delle arti si manifestò soprattutto nella sua partecipazione al Consiglio generale. È peraltro significativo che, nonostante il rapido alternarsi al potere delle diverse fazioni in cui era divisa l'oligarchia cittadina e che portò anche a mutare il numero dei membri di tale Consiglio, ampliandolo e restringendolo, il G. ne abbia costantemente fatto parte. Assunse anche, occasionalmente, qualche particolare incarico. Fu depositario delle entrate del Comune nel 1377 e, a partire dal 1378, ripetutamente impegnato in ambascerie, specie in città come Ferrara in cui poteva contare antiche e solide relazioni d'affari. Nel 1385 fu gonfaloniere di Giustizia, ossia presidente del Collegio degli anziani. Nel 1388 fece parte di una Balia straordinaria di 10 membri, che affiancò gli Anziani, un organo nuovo, non previsto nell'ordinamento istituzionale, nel quale concentrare per un certo periodo l'effettivo esercizio dei poteri di governo. La durata di questa Balia, prevista di nove mesi, venne ripetutamente prorogata.
Per oltre cinque anni l'attenzione della Balia fu rivolta soprattutto a contrastare le iniziative di Gian Galeazzo Visconti. Tra il dicembre 1388 e il novembre successivo l'autonomia della città fu posta in pericolo da una vasta congiura di elementi filoviscontei, tra i quali Alberto Galluzzi e Giovanni Isolani, il conte Ugolino da Panico e il famoso dottore dello Studio Bartolomeo da Saliceto, e che si concluse con il supplizio di molti congiurati e l'esilio degli altri. Nella primavera del 1390 la minaccia assunse l'aspetto di una vera guerra, mossa alla città da Gian Galeazzo Visconti, cui si erano alleati i signori di Ferrara e di Mantova, Alberto d'Este e Francesco Gonzaga. Bologna rispose assoldando le milizie di Giovanni da Barbiano e chiamando alle armi cittadini e abitanti del contado. Un forte contingente di queste milizie locali, posto al comando del G., combatté nel territorio a nord di Bologna, conquistando i castelli di Bazzano, Nonantola e Piumazzo, difesi da presidi del marchese d'Este. Fu uno dei tanti fatti d'arme - certo non dei maggiori - del lungo conflitto diplomatico e militare attraverso il quale, sullo scorcio del secolo XIV, Firenze e i suoi pochi alleati, tra i quali Bologna e i Carraresi, riuscirono a contrastare con efficacia il piano di egemonia italiana perseguito da Gian Galeazzo.
Questa guerra nella quale Bologna aveva sostenuto un ruolo di notevole rilievo e le concessioni che negli stessi anni papa Bonifacio IX aveva dovuto fare all'autonomia della città avevano dato all'oligarchia dominante e a larghi strati della cittadinanza la sensazione di aver riacquistato la capacità di incidere nella politica italiana. Dieci anni più tardi questa sensazione si rivelò del tutto illusoria, ma al momento ben pochi sembravano dubitare della soddisfacente congiuntura politica ed economica della città. Specchio di questa ritrovata fiducia fu la costruzione di un grande tempio dedicato al santo vescovo Petronio, simbolo della ortodossia religiosa e della leale adesione alla Chiesa di Roma, ma al tempo stesso evidente affermazione di orgoglio municipale e di forte autonomia. La decisione di costruire il tempio fu assunta alla fine del 1388; la prima pietra fu posta il 7 giugno 1390, quando da poco più di un mese Gian Galeazzo Visconti e i suoi alleati avevano iniziato le operazioni militari contro la città; il 4 ott. 1392, festività di S. Petronio, una messa solenne celebrata nella prima cappella della navata sinistra, dedicata a S. Giorgio, solennizzò il concreto inizio della grande costruzione.
Ai primi di ottobre 1392 il Consiglio generale del Comune confermava funzioni e poteri della Balia creata nel 1388 e via via prorogata; ma, scomparsi nel frattempo due degli iniziali componenti, ne mutò il titolo in quello di Otto alla pace. Questa ristretta Balia, della quale il G. faceva parte, aveva finito per agire quale effettivo organo di governo e il 15 apr. 1393, chiusa la fase cruenta dello scontro, il Consiglio generale del Comune, attestando la riconoscenza della città ai suoi componenti e nel rinnovare ancora il loro incarico, dispose che, a perpetuo ricordo dei loro meriti, ne fossero scolpite in marmo le effigi collocate nella cappella dedicata a S. Giorgio.
Le successive vicende indussero prima a ridurre, poi a sopprimere il ricordo che si era voluto tramandare di questi cittadini; ma la delibera del 15 aprile rivela che in quel momento essi costituivano la punta avanzata di quella oligarchia che dal 1376 aveva dato vita alla signoria del popolo e delle arti o, meglio, se ne era impadronita.
Il 26 dic. 1393 venne creata una nuova Balia ristretta di sedici membri, i Riformatori dello Stato di libertà, nominati per un anno con il compito di provvedere a una riforma dell'ordinamento cittadino. Come per i membri della precedente Balia, anche la loro nomina venne più volte rinnovata. La stabilità dell'incarico, di fatto così raggiunta, insieme con la indeterminata latitudine dei poteri conferiti, a fronte del continuo avvicendarsi di uomini nelle tradizionali magistrature comunali, chiuse da rigide norme a fissare le reciproche competenze, consentì al Collegio dei riformatori di accentrare in sé il reale potere decisionale nel governo della città. Anche di questo Collegio, sia al momento della sua istituzione, sia nei successivi rinnovi, il G. fu membro. Ne davano motivo non solo la sua ormai lunga esperienza di governo, ma anche la notevole ricchezza accumulata con l'attività di banchiere, cui non aveva mai cessato di attendere, grazie anche alla collaborazione del fratello Bonifacio e dei figli maggiori, inviati a dirigere le filiali di Genova e Venezia, e grazie altresì ai numerosi rapporti d'affari con le grandi banche toscane, come quelle di Francesco Datini e Francesco de' Medici.
In questo campo il G. raccolse allora i suoi più lusinghieri successi. Nel 1390 la società a stretta composizione familiare tra il G. e il fratello Bonifacio si aprì a un altro congiunto, Nicolò di Simone Gozzadini. Nello stesso anno Bonifacio fissò la propria residenza a Venezia per sovrintendere al banco ivi attivo. Da questo banco vennero avviate con il ferrarese Giovanni da Sala nel 1394 e con il bolognese Giovanni Monterenzoli nel 1398 due impegnative operazioni finanziarie, le cui conseguenze erano destinate a pesare a lungo sulle vicende patrimoniali della società.
La divisione della comunione ereditaria con il fratello Simonino nel maggio 1394 aveva portato al G. e a Bonifacio, che acquisirono in comune i beni loro spettanti, un incremento non particolarmente rilevante delle loro proprietà immobiliari, a parte un certo ampliamento nella località di Prunaro, sempre più chiaramente al centro dei loro investimenti terrieri. Ma la divisione, lasciando a Simonino tutti gli affari in Ferrara, sanciva che gli interessi e le ambizioni del G. facevano ormai perno solo su Bologna.
Nell'ottobre del 1397 il banco attivato in Roma iniziò un servizio di anticipi e riscossioni per la Camera apostolica e di prestiti e rimesse per numerosi prelati dell'Italia del Nord e delle province tedesche. Nel settembre 1398, quando il G. e Bonifacio decisero di sciogliere la loro comunione e la stessa società in cui era partecipe anche Nicolò di Simone, l'attivo del banco fu stimato pari a 20.000 lire di bolognini. Al G. fu attribuita la metà di detta somma, i rapporti d'affari che facevano capo al banco di Bologna, la casa in cappella di S. Michele dei Leprosetti con le relative masserizie, la metà di un vigneto di 26 tornature a Borgo Panigale e possessioni di terra per 58 tornature a Le Caselle e per 130 tornature con mulino, case e orti a Prunaro.
La divisione ebbe per i due fratelli esiti molto diversi. Bonifacio, cui erano stati attribuiti i rapporti in atto nelle sedi di Venezia e Roma, entrambe attive al momento della divisione, sembra si sia trovato ben presto in difficoltà, tanto che sia a Venezia sia a Roma furono inviati i figli del G. a sovrintendere ai due banchi. Ben più favorevole si rivelava invece la conduzione degli affari da parte del G. che si traduceva in un incremento delle proprietà immobiliari, di cui è un esempio l'acquisto di 358 tornature di terra, pari a circa 70 ettari, a Lovoleto, pagate in contanti 3200 lire di bolognini nel giugno del 1396, e un altrettanto evidente aumento del suo prestigio politico tramite una serie di prestiti coi quali copriva fino al 1400 gran parte del disavanzo di gestione del Comune di Bologna.
Ciò poneva il G. nella condizione di aspirare a una posizione di predominio in Bologna. Ma in questa aspirazione non era solo. A sbarrargli la strada, portatore di un proprio personale disegno di affermazione, fu anzitutto Carlo Zambeccari che, come il G., aveva fatto parte fin dall'inizio dei Dieci di balia, poi degli Otto alla pace, quindi dei Riformatori dello Stato di libertà. Attorno a C. Zambeccari era la fazione maltraversa, prevalente tra l'oligarchia cittadina.
Già nel 1393 si era verificato un primo scontro fra il G., che aveva trovato un prezioso alleato in Francesco Ramponi, prestigiosa figura di dottore dello Studio, e C. Zambeccari. Lo scontro si era concluso con un accordo, tra le cui conseguenze si può porre anche la creazione del Collegio dei riformatori dello Stato di libertà, che consentì di bloccare per qualche anno le iniziative eversive dei due contendenti.
Nel maggio del 1398, nel pieno della nuova guerra che la lega antiviscontea, di cui Bologna faceva parte, aveva iniziato per contrastare il tentativo di Gian Galeazzo di impadronirsi di Mantova, un tumulto di piazza fu abilmente sfruttato dallo Zambeccari e dai suoi fautori. Il G., al quale, come preposto alle finanze del Comune, veniva imputata l'esosità delle misure fiscali ultimamente adottate, si trovò alla mercé degli avversari. Ebbe salva la vita, ma fu forzato a una pubblica pacificazione, rafforzata da promesse di matrimonio di tre figli di propri congiunti con altrettanti figli dei propri avversari, che sanciva in realtà il predominio dello Zambeccari.
Lo smacco subito, il timore che il tempo agisse solo in favore dell'avversario, come provarono ben presto i provvedimenti di bando adottati nei confronti di F. Ramponi e di congiunti dello stesso G., lo indussero, trascorsi pochi mesi, a cercare di rovesciare la situazione con una prova di forza. Ebbe parte decisiva in tale scelta l'alleanza del G. con Giovanni Bentivoglio, cui non facevano difetto coraggio e determinazione, ma anche una scoperta intenzione di contrastare lo Zambeccari per prenderne il posto. L'11 marzo 1399 il G. e il Bentivoglio si impadronirono con le armi di una porta della città attraverso la quale avrebbe dovuto accorrere in loro aiuto Giovanni da Barbiano con le sue milizie; ma questi tardò e C. Zambeccari poté riprendere il pieno controllo della città. Ancora una volta il G. cadde prigioniero di C. Zambeccari, che tuttavia si limitò a farlo bandire e a farne confiscare i beni. Analoghi provvedimenti colpirono i suoi congiunti, il Bentivoglio e alcuni loro fautori.
La morte di C. Zambeccari il 9 sett. 1399 portò a un rapido mutamento nella situazione politica. A novembre, cassati i provvedimenti di bando, il G., il Bentivoglio, i loro congiunti e fautori fecero ritorno a Bologna. Prima della fine dell'anno si ebbe una nuova prova di forza. Il 27 dicembre il G. e il Bentivoglio occuparono con i loro seguaci la piazza, assalirono gli avversari che cercavano di opporsi, li costrinsero alla fuga e imposero propri partigiani negli organi di governo. Ne seguirono i soliti provvedimenti di bando e di confisca dei beni nei confronti degli avversari sconfitti.
L'accordo che aveva unito per qualche tempo il G. e il Bentivoglio mostrò presto tutti i suoi limiti. Entrambi nutrivano ambizioni che escludevano una condivisione del potere, ma mentre il G. era occupato anche nella gestione del proprio banco e dei numerosi rapporti che lo legavano alle altre piazze finanziarie, il Bentivoglio appariva molto più determinato in una azione che aveva come ristretto campo la città di Bologna e come unico scopo la sua signoria. Il 24 febbr. 1401 il Bentivoglio si impadronì con le armi del centro cittadino, arrestò il G. e il fratello Bonifacio e si oppose vittoriosamente al tentativo del loro nipote, Gozzadino di Simonino, di liberarli. Come Zambeccari anche il Bentivoglio cercò in un primo tempo l'alleanza del G., inserendolo in un nuovo Collegio dei riformatori dello Stato di libertà, parte di un progetto che doveva portarlo a essere acclamato "gonfaloniere perpetuo e conservatore della pace e della giustizia", vale a dire signore della città, come in effetti avvenne il 17 marzo.
L'iniziativa del Bentivoglio sconvolgeva profondamente non solo l'ordinamento istituzionale di Bologna, ma anche quel delicato sistema di compromessi in cui le reiterate affermazioni dell'autonomia cittadina si inserivano nel quadro della mai negata alta sovranità pontificia e portava per di più forti motivi di inquietudine a Firenze e nell'intera lega antiviscontea per le non celate profferte di G. Bentivoglio, in cerca di validi sostegni, verso Gian Galeazzo. Nei confronti del G. la signoria del Bentivoglio non solo ne deludeva le aspettative di un primato personale, ma rischiava anche di riflettersi negativamente sulle attività del suo banco, impegnato in questo stesso periodo a intensificare i propri rapporti con la Camera apostolica.
Il 16 giugno 1401 il G. lasciò la città col pretesto di recarsi per affari a Venezia; ma il fatto che tutti i suoi congiunti lo accompagnassero indica che egli intendeva troncare qualunque legame con le iniziative di G. Bentivoglio e questi si vendicò facendone saccheggiare la casa. Era una aperta sfida all'antico alleato e il G. la raccolse. Si recò a Pavia da Gian Galeazzo Visconti e gli offrì di contribuire con 14.000 ducati alle spese di una guerra contro il Bentivoglio. Gian Galeazzo, che aveva ormai rinunciato all'alleanza con questo ma non al disegno di controllare Bologna, non si fece sfuggire l'occasione e nel dicembre del 1401 un grande esercito, agli ordini di Francesco Gonzaga, si radunò a Mirandola per muovere contro Bologna.
Alle operazioni militari, che si protrassero per tutto l'inverno e la successiva primavera, presero parte il G. e il fratello Bonifacio. Alla testa di propri contingenti tra gennaio e febbraio del 1402 conquistarono a nome di Gian Galeazzo i castelli di Cento e Pieve di Cento e altri centri fortificati a nord di Bologna. Nella grande battaglia di Casalecchio di Reno del 26 giugno, che segnò la definitiva sconfitta del Bentivoglio, nelle file dell'esercito visconteo combatterono contingenti di montanari assoldati e guidati dal G. e dal fratello. Il 27 giugno i vincitori entrarono in Bologna e Francesco Gonzaga armò cavalieri il G. e alcuni dei fuorusciti bolognesi che avevano contribuito alla sua vittoria. Il giorno seguente un Consiglio generale ripristinò il Collegio degli anziani, simbolo e strumento dell'autonomia cittadina, e il G. ne fu membro. Ma il loro potere durò poche ore. Nella notte reparti delle milizie viscontee d'intesa con esponenti della oligarchia entrarono in città e ne acclamarono signore Gian Galeazzo. Cronache del tempo narrano della delusione manifestata dal G., che sembra avesse davvero sperato in un ripristino del governo della città secondo le antiche forme di autonomia comunale, seppure sotto la inevitabile, forte tutela del signore di Milano. Ma il piano di Gian Galeazzo era evidentemente diverso.
In questo contesto, segnato da un lato dal pieno inserimento di Bologna e del suo contado nei domini di Gian Galeazzo e dall'altro dalle notevoli somme che il G. aveva anticipato per la guerra, va inquadrata la richiesta da lui avanzata di avere in signoria per sé e per il fratello le terre di Cento e Pieve di Cento e il fortilizio di Torre di Canuli nei pressi di Nonantola. Gian Galeazzo non prese una decisione definitiva. Mentre faceva restituire al G. una parte, 4000 ducati, della somma da lui ricevuta, ordinava a Iacopo Dal Verme, suo capitano generale, di prendere il controllo dei vari castelli fino ad allora custoditi a nome dello stesso Gian Galeazzo dal G., ma di lasciargli il possesso di Cento, Pieve di Cento e Torre di Canuli. Il 12 agosto il G. ebbe un nuovo, infruttuoso colloquio con Gian Galeazzo a Melegnano. Sembra anzi che questi abbia minacciato il G. di dare ascolto a voci che lo accusavano di tradimento e al G. non restò che rientrare senza indugio nel sicuro castello di Cento.
Esito più favorevole ebbe invece la richiesta che il G., morto Gian Galeazzo il 3 sett. 1402, rinnovò a Giovanni Maria Visconti, succeduto al padre sotto la reggenza della madre Caterina Visconti, nel dominio di Bologna. La posizione del nuovo signore, contro il quale si stava armando una rinnovata lega, era molto più debole di quella del padre e accogliere la richiesta del G. era un modo per farselo alleato e soddisfarne contemporaneamente il residuo credito. Non è noto in quale data la richiesta del G. sia stata accolta, ma è probabile sia avvenuto all'inizio del 1403. Tra il 31 marzo e il 1° aprile successivi le assemblee di Pieve di Cento e di Cento acclamarono signori il G. e il fratello Bonifacio, sottoponendosi alla loro potestà e giurisdizione.
La concessione ottenuta dal duca di Milano non impedì tuttavia al G. un repentino cambio di alleanze. La sua adesione alla nuova lega antiviscontea, promossa da Firenze e alla quale aderiva anche Bonifacio IX, avvenne in tempi così ristretti da sopravvalutarne il ruolo nella sua costituzione. La pronta adesione del G. alla lega fu probabilmente dovuta alla partecipazione a essa di Niccolò (III) d'Este, i cui domini erano contigui ai territori di Cento e Pieve di Cento e con il quale era in atto da tempo una profonda intesa.
L'esercito della lega, posto agli ordini di Niccolò e del suo marescalco Uguccione Contrari, si radunò a Ferrara: chiaro indizio che il suo primo obiettivo era la conquista di Bologna. Le operazioni ebbero inizio nel mese di maggio e il G. vi partecipò occupando il castello di Massumatico. Ai primi di luglio il podestà di Bologna dichiarò banditi dalla città e passibili di morte per il loro tradimento il G., il fratello Bonifacio e una dozzina di loro congiunti. Ai primi di agosto Facino Cane, che aveva assunto il comando delle milizie viscontee in Bologna, si impadronì di Cento e Pieve di Cento riportandone bottino e prigionieri. Fu un successo, ma limitato e tale da non mutare le sorti della guerra. Vi riuscì invece Caterina Visconti, spezzando le forze della lega con una pace separata stipulata il 25 ag. 1403 con Baldassarre Cossa, legato pontificio e rappresentante del papa nella lega, a prezzo dell'abbandono dei territori rivendicati dal papa. Il 3 settembre B. Cossa entrava in Bologna e con lui era il G., alla testa di un proprio contingente di milizie. Il 29 settembre il legato concedeva al G., al fratello Bonifacio e ai loro discendenti il vicariato apostolico di Cento, Pieve di Cento e Torre di Canuli.
L'alleanza con il legato pontificio che aveva portato a questa nuova investitura non resse neppure un mese. Le cronache contemporanee narrano con dovizia di particolari il tentativo di Gabione, figlio del G., di assalire nella notte del 26 ottobre la cittadella di Bologna, tenuta dalle milizie di Carlo Malatesta e quello di Bonifacio, fratello del G., di impadronirsi il giorno seguente della porta di S. Stefano e di come il Cossa sventasse entrambi questi tentativi e ne rinchiudesse i colpevoli in carcere.
Resta invece difficile capire quali motivi avessero indotto il figlio e il fratello del G. a un'impresa che, considerate le scarse forze da essi poste in campo, avrebbe potuto avere successo solo con l'appoggio di altre forze all'interno della città e delle quali il legato poteva disporre. La spiegazione ufficiale, avanzata nel corso dei processi intentati contro Bonifacio e Gabione, cioè che fosse loro intenzione cacciare il legato da Bologna e farne signore il G., non appare del tutto convincente. Probabilmente Gabione e Bonifacio avevano pensato di giovare al G., ma le lettere di entrambi che sono rimaste, e in cui parlano di questi fatti, rivelano che vi era in loro la convinzione di agire anche nell'interesse e, forse, con la connivenza dello stesso legato.
Nei fatti il fallimento dei tentativi di Gabione e Bonifacio consentì a B. Cossa, che li aveva imprigionati, anzitutto di arrestare la marcia verso la città del G. alla testa di un forte nucleo di armati, quindi, processato e giustiziato il 3 nov. 1403 Bonifacio, di ordinare al G. di abbandonare Cento e Pieve di Cento con la minaccia di una eguale punizione nei confronti di Gabione e di altri suoi congiunti residenti a Roma che egli aveva fatto parimenti imprigionare.
Il G. non cedette, forte dell'appoggio di Niccolò d'Este, che - intenzionato a riprendere il controllo di Bazzano e Nonantola, cedute sei anni prima e la cui restituzione gli era stata promessa per indurlo alla lega contro i Visconti - nel novembre del 1403 iniziò il blocco degli approvvigionamenti di Bologna. B. Cossa rispose facendo decapitare il 26 novembre una decina di cittadini accusati di connivenza con il G. e inducendo quindi Gabione a indirizzare al padre una lettera per convincerlo a cedere. Alle minacce e alle invocazioni del figlio fece seguito il 3 genn. 1404 una sentenza del podestà di Bologna che poneva il G. e altri suoi seguaci al bando dalla città, ne confiscava i beni e ne pronunciava la condanna a morte, se catturati. Il 30 gennaio anche Gabione fu condannato a morte. L'esecuzione fu dilazionata e il giovane trascinato di fronte alle mura di Cento, ove il G. era asserragliato. Neppure questo lo indusse a cedere e il 9 febbraio la condanna venne eseguita. Ne seguirono scontri armati e assedi dei centri fortificati approntati dal G. che inoltre ricorreva per aiuti a Firenze, Venezia e soprattutto a Niccolò d'Este. Quest'ultimo non gli fece mancare il suo sostegno anche quando Bonifacio IX lo minacciò di scomunica e di privarlo del vicariato apostolico sulla città di Ferrara.
Lo scontro tra il G. e il Cossa minacciava di innescare un ben maggiore conflitto tra coloro che avevano appena combattuto i Visconti e quindi, su sollecitazione di Firenze e Venezia, venne imposto ai contendenti di addivenire a una tregua e di accettare un successivo lodo da emanarsi da Niccolò d'Este e dagli ambasciatori di Firenze e di Venezia a Bologna. Il 12 maggio essi stabilirono che il G. doveva rilasciare al legato i castelli di Cento e Pieve di Cento e, dal 1° maggio, recarsi al confino in un luogo distante almeno 100 miglia da Bologna. B. Cossa doveva pagare al G. 10.000 ducati d'oro a titolo di rimborso per la consegna dei castelli, 1877 lire di bolognini quale valore delle munizioni e degli arredi dei due castelli e 6000 fiorini se non avesse provveduto a liberare i congiunti del G. detenuti nelle carceri di Bologna e Roma.
Ulteriori clausole regolavano le pendenze tra la Camera apostolica e il banco di Roma del G., la riscossione dei crediti del defunto Gabione, le partite di debito e credito in Bologna e stabilivano l'annullamento dei provvedimenti di bando e condanna emessi contro il G. e i suoi.
Il G. lasciò Cento e Pieve di Cento e si ritirò con i suoi familiari a Ferrara sotto la protezione di Niccolò d'Este; ma B. Cossa si guardò bene dal dare corso ai pagamenti che il lodo poneva a suo carico. Una congiura, molto tempestivamente scoperta ai primi di maggio del 1404 e di cui furono accusati come mandanti il G. e Niccolò d'Este, offrì al Cossa la giustificazione per non adempiere e l'occasione per indirizzare contro il G. l'astio dei Bolognesi, colpiti dal perdurare del blocco dei vettovagliamenti. L'11 luglio una folla inferocita distrusse completamente la grande casa del G. e ne invocò la morte. Ma egli era lontano, né ebbe più occasione di rientrare in Bologna.
Nel novembre del 1404 ottenne un salvacondotto per recarsi a Genova, sede di un'importante filiale del suo banco, diretta dal figlio Castellano. L'anno seguente, protetto da un altro salvacondotto, fu a Carpi, accompagnato dalla moglie, dal figlio Delfino, già abate di Nonantola, e dai figli più piccoli. Intendeva recuperare il denaro che aveva prestato ai Pio, signori della città. Fu un viaggio inutile e che pose anzi a repentaglio la vita dei suoi congiunti che, su sobillazione di B. Cossa, i Pio fecero imprigionare per qualche tempo; né migliore esito ebbe un altro tentativo fatto agli inizi del 1407. Sicuro rifugio per il G. e per i suoi erano solo i territori del dominio estense.
Il 6 sett. 1407 da Rovigo, ove aveva incontrato alcuni suoi figli, il G. si pose in viaggio verso la sua residenza di Ferrara, ma nel corso del viaggio morì. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Francesco di Ferrara. Nel 1416, cessate le ostilità contro i suoi discendenti e consentitone il ritorno a Bologna, il corpo del G. fu traslato nell'arca di famiglia nella chiesa bolognese di S. Maria dei Servi, ove riposavano già le spoglie del fratello Bonifacio.
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