Nani sulle spalle dei giganti, storia di un aforisma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’interno di un’appassionata apologia del pensiero antico Bernardo di Chartres, a cui tale aforisma è originariamente attribuito, definisce i contemporanei come coloro i quali, rispetto agli antichi, possono vedere più lontano solo perché possono sollevarsi alla loro altezza, in quanto seduti sulle spalle dei giganti (nos esse quasi nanos gigantum humeris insidientes). Il ricorrere dell’aforisma nella storia della filosofia, e in particolare in quella medievale, pone l’inevitabile questione se esso debba venir inteso come dichiarazione di umiltà dei contemporanei nei confronti degli antichi o, viceversa, esplicita dichiarazione di superiorità dei primi verso il pensiero loro trasmesso.
Se Maritain ha una volta affermato che solo con Descartes il filosofo si pone come “debuttante nell’assoluto”, e se con Francis Bacon il filosofo inizia a pensare solo dopo aver fatto giustizia degli idola dovuti alla tradizione, il Medioevo è noto per essere un’epoca in cui vige un’assoluta ossequenza sia ai testi sacri che al pensiero dei grandi filosofi del passato. Il problema del pensatore medievale parrebbe quello non di essere originale bensì di rimanere fedele al pensiero delle auctoritates precedenti, così che ogni trattato di teologia si propone sempre come commento.
Tuttavia circolano nell’ambito del pensiero scolastico alcuni detti, come per esempio non nova sed nove da cui traspare, se non la volontà di dire cose nuove, quella di dirle in modo nuovo: il che sarebbe già una forma pretestuosa per arrogarsi il diritto all’innovazione. Come l’innovazione possa andare di pari passo con il rispetto dell’autorità lo diceva un celeberrimo detto di Alano di Lilla – nel De fide catholica (I, 30): “auctoritas cereum habet nasum, id est in diversum potest flecti sensum” (“l’autorità è un naso di cera che può essere torto a proprio piacimento”). Era un modo abbastanza impudente di dire che l’ossequio all’auctoritas consiste nel rispettarne la lettera del discorso riservandosi il diritto di interpretarla secondo il proprio modo di vedere le cose.
Ma il detto che più ha avuto fortuna, tanto da sopravvivere anche in epoca moderna, e che più profondamente caratterizza lo spirito medievale, è il cosiddetto aforisma dei nani e dei giganti – secondo il quale coloro che ci hanno preceduto sono dei giganti e noi siamo solo dei nani che sediamo sulle loro spalle, ma proprio per questo noi riusciamo a vedere più lontano di loro.
L’aforisma viene comunemente attribuito a Bernardo di Chartres, citato da Giovanni di Salisbury nel Metalogicon (III, 4): “Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possim plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea” (“Bernardo sosteneva che noi siamo come nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere un maggior numero di cose e più lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti”). Tuttavia Bernardo non ne sarebbe il primo inventore, perché il concetto (se non la metafora dei nani) appare sei secoli prima in Prisciano. Ma un tramite interessante tra Prisciano e Bernardo sarebbe Guglielmo di Conches, che di nani e giganti parla nelle sue Glosse a Prisciano.
Il testo di Guglielmo è anteriore a quello di Giovanni di Salisbury e viene scritto negli anni in cui Bernardo è cancelliere a Chartres. Ma se la prima redazione delle Glosse di Guglielmo è anteriore al 1123 (e il Metalogicon di Giovanni è del 1159) troviamo l’aforisma nel 1160 in un testo della scuola di Laon, e dopo, nel 1185 circa, nello storico danese Sven Aggesen, nonché in Alessandro Neckham, Pietro di Blois e Alano di Lilla. Nel XIII secolo l’aforisma apparirà anche in Gerardo di Cambrai, Raoul de Longchamp, Egidio di Corbeil, Gerardo d’Alvernia, e nel XIV in Alexandre Ricat, medico dei re d’Aragona.
Robert Merton nel suo On the shoulders of giants (1956, tr. it. Sulle spalle dei giganti, 1991), ha ricostruito la fortuna dell’aforisma nei tempi moderni, a partire da Newton – “If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants” (“Se ho visto più lontano è perché sono salito sulle spalle di giganti”, lettera a Hooke, 1675) –, e attraverso una serie di dotte esplorazioni lo ha ritrovato in innumerevoli altri autori – vedendolo come idea risolutoria nei dibattiti moderni sull’influenza, la collaborazione, il prestito e il plagio. Tullio Gregory ha individuato l’aforisma in Gassendi (v. Scetticismo e empirismo. Studio su Gassendi, 1961) e nel Ventesimo secolo Ortega y Gasset, parlando del susseguirsi delle generazioni, diceva che gli uomini stanno “gli uni sulle spalle degli altri, e colui il quale sta in alto gode dell’impressione di dominare gli altri, ma dovrebbe avvertire nello stesso tempo che è prigioniero di essi” (v. “Entorno a Galileo” in Obras completas,V, 1947).
Ma in questa sede ci interessa ovviamente il senso e il peso che l’aforisma assumeva nel mondo medievale, e la prima domanda che ci si deve porre è se (come ne discute ampiamente Édouard Jeauneau in “Nani gigantum humeris insidentes - Essai d’interpretation de Bernard de Chartres”, Vivarium, V, 1967, tr. it. Nani sulle spalle di giganti, 1969) l’aforisma fosse “umile” o “superbo”. Infatti può essere inteso nel senso che conosciamo, sia pure meglio, quello che gli antichi ci hanno insegnato, o che conosciamo, sia pure grazie al debito con gli antichi, ben più di loro. Se un aforisma analogo che appare in San Bernardo, il quale parla degli spigolatori che vanno dietro ai mietitori, non lascia adito a dubbi, perché gli spigolatori colgono solo gli avanzi dei grandi mietitori, ambigua rimaneva la posizione di Prisciano e del suo glossatore di Conches, il quale dice che i moderni sono “più perspicaci” degli antichi, ma non “più sapienti”. Rimane pertanto dubbio se e in quale misura il medievale che usava l’aforisma stesse sostenendo la primalità dei moderni o addirittura la continuità della storia. Per leggere l’aforisma in senso hegeliano non bisogna attendere Hegel, ma neppure pensare che Bernardo pensasse come Newton. Newton sapeva benissimo che da Copernico in poi si era messa in atto una rivoluzione dell’universo, Bernardo non sapeva neppure che potessero esistere delle rivoluzioni del sapere.
Anzi, poiché uno dei temi ricorrenti della cultura medievale è la progressiva senescenza del mondo, si potrebbe interpretare l’aforisma di Bernardo nel senso che, visto che mundus senescit, e inesorabilmente, si possono al massimo elogiare alcuni vantaggi di questa tragedia.
D’altra parte Bernardo, seguendo Prisciano, usava l’aforisma nell’ambito di un dibattito sulla grammatica, dove è in gioco il concetto di conoscenza e imitazione dello stile degli antichi. Niente a che fare con nozioni come cumulatività e progresso del sapere teologico e scientifico. Tuttavia Bernardo (teste sempre Giovanni di Salisbury) rimproverava gli allievi che copiavano servilmente gli antichi e diceva che il problema non era di scrivere come loro ma di imparare da loro a scrivere bene quanto loro, in modo che in seguito qualcuno si ispiri a noi come noi ci ispiriamo a loro. Quindi, seppure non nei termini in cui lo leggiamo oggi, un appello all’autonomia e al coraggio innovativo nel suo aforisma c’era. E non sarà indizio da poco che Giovanni di Salisbury riprenda l’aforisma non nel contesto della grammatica ma in un capitolo in cui parla del De interpretatione di Aristotele. Pochi anni prima Adelardo di Bath si era scagliato contro una generazione che riteneva accettabili solo le scoperte fatte dagli antichi e nel secolo dopo Sigieri di Brabante dirà che la sola auctoritas non basta, perché noi siamo uomini esattamente come coloro a cui ci ispiriamo, e dunque “perché allora non dovremmo impegnarci nella ricerca razionale come loro?” (cfr. Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, “L’intellettuale”, in L’uomo medievale, 1987).
Nello stesso spirito si può intendere l’invito di Agostino – nel De doctrina christiana (II, 40) –, poi ripreso da Roger Bacon, quando si dice che se si trovano delle buone idee presso gli infedeli bisogna appropriarsene tamquam ab iniustis possessoribus, perché se queste idee sono vere appartengono di diritto alla cultura cristiana. Per cui si ammette e incoraggia l’introduzione nel dibattito teologico e filosofico di idee nuove.