GHERARDINI, Naldo
Nacque a Firenze, presumibilmente nella seconda metà del sec. XIII, da messer Lotto di messer Filippo, da antica famiglia consolare annoverata poi fra quelle di origine magnatizia.
Filippo fu fratello di Pegolotto, a sua volta nonno di Andrea di Filippo Gherardini. Al pari di Andrea, il G. risiedeva nel sestiere di S. Piero Scheraggio. Il 18 giugno 1297 è attestata la sua presenza a Firenze come fideiussore di Gentile da Linari nell'impegno a rifondere un mutuo ricevuto da Bianciardo da Torrita. L'atto è rogato alla presenza di altri due appartenenti a una famiglia magnatizia, Berto e Baldinaccio degli Adimari. Come per Andrea Gherardini, suo cugino alla lontana, il nome del G. è legato soprattutto al conflitto che oppose le due fazioni dei Cerchi e dei Donati, dette in seguito dei guelfi bianchi e guelfi neri, dopo l'attuazione degli ordinamenti di giustizia compiuta da Giano Della Bella, negli anni a cavallo fra il Due e il Trecento.
Il giorno di calendimaggio del 1300 - stando a Giovanni Villani - nel corso di un famoso episodio, due gruppi di armati appartenenti alle opposte fazioni, incrociatisi gli uni con gli altri intorno a un ballo che si teneva in piazza S. Trinita, vennero alle armi, e nel corso della zuffa fu tagliato il naso a Ricoverino de' Cerchi da un seguace dei Donati. Secondo il Villani fu questo l'episodio che dette il via alla divisione fra le due fazioni, mentre è oggi evidente, anche stando alla testimonianza di Dino Compagni, testimone più vicino ai fatti e più attendibile, che la polarizzazione si era già verificata negli anni precedenti. Mentre il Compagni non nomina il G. fra i partecipanti allo scontro, secondo il Villani egli faceva parte della trentina di giovani a cavallo che rappresentavano nella circostanza i Cerchi. In seguito all'episodio, come afferma il Compagni (I, 23), la città si divise per la seconda volta, considerando la divisione che era già avvenuta nel 1296 in occasione dell'emanazione degli ordinamenti di giustizia, in un modo che attraversava le varie categorie sociali e basato, secondo il cronista, su motivazioni diverse. Con i Cerchi si schierarono dunque i ghibellini, contrari ai Donati che parteggiavano per il pontefice; nella stessa fazione dei bianchi si schierò il poeta amico di Dante, Guido Cavalcanti, perché nemico di Corso Donati e, per motivi personali, si schierò anche il G.: "perché era nimico de' Manieri, parenti di messer Corso" (ibid.). Alla zuffa del calendimaggio del 1300 fecero seguito una serie di condanne pecuniarie da parte del podestà, Gherardino da Gambara di Brescia, e fu probabilmente a causa di queste che poco dopo il G. fu protagonista di un attentato contro il Gambara al momento in cui questi terminò l'ufficio.
Per gli episodi a cui avrebbe preso parte il G. non è possibile seguire la cronologia fornita dal Villani, in generale macroscopicamente errata. Non nel 1300 dopo la partenza del legato pontificio Matteo di Acquasparta sarebbe avvenuta, per esempio, la zuffa iniziata al funerale di una Frescobaldi, ma alla fine del 1296. Poco attendibili sarebbero comunque (anche se più vicine al vero) anche le informazioni fornite dal Compagni sugli avvenimenti immediatamente successivi all'episodio del calendimaggio (sulla cui critica cfr. Davidsohn, IV, pp. 150-152). Per cui è poco chiaro da quale confino sia rientrata la fazione dei Cerchi immediatamente dopo, e in relazione al quale sarebbe stato, secondo il Compagni, "chetamente" (I, 23) in attesa degli sviluppi, anche il Gherardini.
È certo che le due fazioni si stavano approntando alla lotta, come dimostrano il convegno di S. Trinita dei maggiori responsabili della parte dei Donati, tenutosi una settimana dopo il calendimaggio, e i preparativi reciprocamente aggressivi di entrambi i gruppi. Secondo il Compagni sarebbe stato meno di due mesi dopo il calendimaggio, alla vigilia della festa del patrono della città, S. Giovanni, che il G. e altri "grandi" assalirono, nel corso di una delle cerimonie di festeggiamento, una processione delle arti, malmenandone e picchiandone i consoli e accusandoli di essere coloro che avevano privato i magnati della possibilità di partecipare alla vita politica, nonostante il fatto che proprio a loro la città dovesse la vittoria sugli Aretini a Campaldino (1289). E sarebbe a causa di questo episodio, di somma ingiuria nei confronti del potere del popolo e delle arti e dei loro rappresentanti, che la Signoria allora in carica, di cui faceva parte anche Dante Alighieri, decise di confinare alcuni appartenenti a entrambe le fazioni dei Cerchi e dei Donati, fra cui Corso Donati, Guido Cavalcanti e lo stesso G., che fu inviato al confino a Sarzana. In effetti il confino, decretato in maggio, fu la conseguenza del complesso dell'attività di sovversione armata delle due fazioni.
Secondo la ricostruzione del Davidsohn (IV, p. 156), i bianchi poterono rientrare dal confino già nel luglio: è da intendere in questo senso allora il rientro in città della "parte de' Cerchi" di cui parla il Compagni (p. 56) e a cui avrebbe partecipato anche il Gherardini.
La lotta fra le due fazioni dei Cerchi e dei Donati vide in un primo momento prevalere i Cerchi e culminò poco dopo con la cacciata dei neri da Pistoia nel maggio 1301: in tale frangente il G., con lo spirito militante che evidentemente lo distingueva, assunse costantemente una parte attiva. Al momento in cui però i neri, in seguito all'ingresso in Firenze di Carlo di Valois e all'irruzione in città di Corso Donati nel novembre 1301, ripresero il potere, cominciarono le condanne contro i bianchi. Il G. inizialmente non fu colpito da sanzioni dirette, come quella inflitta nel gennaio 1302 contro il suo parente Andrea Gherardini. Ma il suo ruolo come capofazione è certo, come venne presto messo in luce dall'episodio di cui fu protagonista in quel periodo. In quei mesi si verificarono una serie di contatti fra i capi dei bianchi e uno dei cavalieri al seguito di Carlo di Valois, Pierre Ferrand d'Alvernia (il "barone Piero Ferrante di Linguadoca" secondo il Villani, p. 80). In seguito questi avrebbe affermato che i bianchi avevano cercato di indurlo a tradire Carlo in cambio di promesse di denaro e possessi terrieri, e consegnò al Valois delle lettere e il testo notarile di un trattato redatto a tale scopo. Tra i firmatari del trattato comparivano Baschiera Tosinghi, Baldinaccio Adimari e il Gherardini. Il trattato, che sarebbe stato stilato dal notaio ser Filippo Mariscotti, di famiglia ghibellina, e di cui si conserva una copia coeva (Arch. di Stato di Firenze, Capitoli, 144, cc. 188-189) è, secondo l'opinione corrente ripresa da tutti i cronisti e storici successivi, un falso redatto allo scopo di coinvolgere i bianchi in un'accusa di tradimento. Alla notizia del trattato, il 2 aprile, il Valois convocò con un pretesto i capi dei bianchi, i quali, avvertiti in tempo, abbandonarono la città. Il 4 apr. 1302 i responsabili furono citati ufficialmente e, poiché non si presentarono, il principe si servì della sua Balia per condannarli alla confisca dei beni e alla distruzione delle case, provvedimenti che colpirono anzitutto i presunti stipulatori del contratto, fra cui il Gherardini.
Nel tentativo di costituire un punto di appoggio per la rivolta contro il regime nero di Firenze, il G. e altri della sua famiglia si recarono a Montagliari, un villaggio posto a meridione di Firenze nel Chianti, dove si impadronirono del castello. Da lì avrebbero condotto nelle settimane successive una sorta di guerriglia, interrompendo le comunicazioni sulle strade che conducevano a Sud attraverso la Val di Greve e la Val di Pesa, assalendo e derubando i mercanti e i vetturali, impedendo il rifornimento di vettovaglie, anche con il ferimento delle bestie da soma. Lo scopo, parzialmente raggiunto, perché concomitante con altre azioni di disturbo nel contado da parte dei bianchi, era evidentemente quello di danneggiare Firenze isolandola dalle sue vie di approvvigionamento. Il 18 agosto, su proposta del capitano del Popolo, i Consigli deliberarono di inviare truppe ad assediare il castello e dichiararono i suoi occupanti ribelli a tutti gli effetti, condannando i figli e le famiglie di tali delinquenti in perpetuo al bando "pro crimine lese maiestatis". Fu deciso inoltre un apposito provvedimento nei confronti dei capi della ribellione ordinando che nel palazzo del Comune il podestà facesse dipingere, oltre al signore del castello di Montagliari, l'effigie del G. e dei suoi parenti sbanditi, "ita quod in perpetuum sint in exemplum" (Arch. di Stato di Firenze, Provvisioni, reg. 11, c. 149rv).
Il 10 settembre i Gherardini si arresero all'esercito fiorentino, a condizione di aver salva la vita e di essere lasciati andare, ciò che fu loro accordato; il castello fu però demolito. Il G. rimase quindi in giro libero di operare, e continuò ad agire quale capo dei fuorusciti bianchi. Nel corso del tentativo di pacificazione della città da parte del cardinale Niccolò da Prato, nel giugno 1304, il G. fu di nuovo per alcuni giorni a Firenze, convocato dal cardinale con permesso e salvacondotto insieme con altri undici (o tredici) rappresentanti dei bianchi e dei ghibellini (Compagni, III, 7). Ma, dato l'esito negativo delle trattative, ripartì con i suoi colleghi dalla città l'8 giugno. Poco dopo si verificarono gli scontri che avrebbero dato origine all'incendio della città in cui sarebbero rimaste distrutte anche alcune case dei Gherardini.
Il G. rimase probabilmente, al pari del suo parente Andrea, alla guida dei fuorusciti anche dopo questa data, ma mancano ulteriori fonti relative alla sua attività, per cui rimane ignota, al momento, anche la data della sua morte.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, S. Croce di Firenze, 18 giugno 1297; Firenze, Bibl. nazionale, Mss. Passerini, 188, 216; Poligrafo Gargani, 935, n. 153; 937, nn. 132, 133; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXX, pp. 83, 86; Cronica di Paolino Pieri fiorentino di cose d'Italia dall'anno1080 fino all'anno 1305, a cura di A.F. Adami, Roma 1755, pp. 65, 71, 73, 79; Consigli della Repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, I, Bologna 1921, pp. 63, 70; D. Compagni, Cronica, a cura di G. Luzzatto, Torino 1968, pp. 51, 54, 56, 108, 138; G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, II, Parma 1991, pp. 65, 68, 70, 80; S. Ammirato, Istorie fiorentine, I, 1, Firenze 1647, pp. 207, 211, 216; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-87, I, pp. 178, 560; II, p. 212; N. Zingarelli, Dante, Milano s.d., p. 169; R. Davidsohn, Storia di Firenze, IV, Firenze 1973, pp. 144, 149, 288, 292, 327 s., 384.