Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le relazioni tra la musica colta europea (prevalentemente basata sulla scrittura) e le tradizioni musicali “altre” (basate soprattutto sull’oralità) hanno sempre caratterizzato la storia della musica occidentale. Tuttavia è soprattutto nel corso del Novecento che la musica colta europea viene a contatto con realtà musicali altre in maniera assai profonda e diretta, grazie ai mezzi di registrazione.
All’interno del sistema di produzione e circolazione musicale che si può osservare nell’Occidente colto degli ultimi secoli, il compositore ha assunto un ruolo d’importanza centrale. Questa figura, che storicamente nasce con l’avvento della scrittura musicale nel tardo Medioevo, crea con essa opere che assumono una forma intenzionalmente definita nella partitura, e che in un secondo tempo, grazie all’interprete, trovano una realizzazione sonora. La musica colta in Occidente si configura in gran parte come una tradizione caratterizzata dalla presenza della scrittura; diversamente, in altri contesti culturali, un ruolo fondamentale viene ricoperto da altri sistemi di trasmissione, come quello orale/aurale.
Tuttavia i termini oppositivi di scrittura e oralità, così come quelli di colto e popolare, sono dei punti estremi e ideali, esistenti talvolta solo in linea teorica, di meccanismi assai complessi che si presentano fortemente intrecciati tra loro. Infatti la scrittura in sé non garantisce nessun tipo di tradizione se non è accompagnata comunque dalla trasmissione di un sapere che ne consente la decifrazione e che si diffonde prevalentemente da bocca a orecchio. Dall’altro lato, la musica tradizionale acquisisce al suo interno in continuazione elementi mutuati da fenomeni colti. Nel corso della storia della musica occidentale, i compositori colti hanno utilizzato costantemente, nella loro attività creativa, elementi musicali tradizionali extracolti; questi consistevano in eventi musicali provenienti dalle fasce folkloriche europee e dalle tradizioni extraeuropee, caratterizzati da una prevalenza dei meccanismi di trasmissione legati all’oralità.
L’etnomusicologo Diego Carpitella, in un ciclo di trasmissioni radiofoniche degli anni Sessanta, ha indicato due diverse modalità in cui i musicisti colti occidentali hanno utilizzato i repertori di altri contesti culturali.
La prima modalità è quella cosiddetta dell’esotismo. Con questo termine Carpitella indica l’utilizzo, in modo neutro e meccanico e con finalità di tipo evocativo-decorativo, di elementi musicali di altre culture, come scale, ritmi, melodie; il loro impiego avviene rigorosamente nel contesto di un linguaggio e di una sintassi musicale che restano quelli della musica colta occidentale. La fase dell’esotismo attraversa tutta la storia della musica e rappresenta una delle modalità di interazione più frequenti tra il colto/scritto e il popolare/orale; in esso si possono far rientrare le citazioni di melodie popolari delle composizioni tardomedievali e rinascimentali, la presenza di elementi esotici nei maestri classici (ad esempio le musiche “turche”) fino al recupero del popolare che si verifica in epoca romantica.
La seconda modalità (il primitivismo) indica una situazione assai più complessa: innanzitutto comporta l’utilizzo di materiali musicali dotati di una connotazione di tipo etnologico assai forte; vi è poi una diversa condizione psicologica del compositore, che fa sì che gli elementi “altri” non siano solo citazioni di facciata, ma implichino anche un’identificazione con la realtà sonora utilizzata.
È tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che si verifica il salto di qualità verso un utilizzo pienamente consapevole delle musiche “altre”. Questo è possibile soprattutto grazie al contatto reale con i fenomeni sonori; dunque non più una conoscenza mediata da trascrizioni (come la celebre melodia cinese trascritta da Du Halde, pubblicata nel Dictionnaire di Rousseau e usata da molti compositori) ma un contatto diretto con la realtà sonora di altri popoli e altre culture. Occasioni assai importanti per fare queste conoscenze, per i musicisti occidentali sono innanzitutto le esposizioni nelle grandi città europee (Parigi, Berlino) che prevedono la partecipazione di gruppi musicali da varie parti del mondo. Per quanto fondamentali (basti pensare all’influenza esercitata su Debussy), restano comunque situazioni episodiche. Un ruolo assai più importante e duraturo è quello svolto dai mezzi di registrazione del suono. Nel giro di pochi decenni dall’invenzione del fonografo nel 1877 (e soprattutto con quella del grammofono pochi anni dopo), si arriverà a una vera rivoluzione nella fruizione e nella conoscenza dei fenomeni musicali. I sistemi di registrazione, usati anche dagli etnomusicologi nelle loro esplorazioni, evolveranno in breve verso l’industria discografica, parte della quale è dedita anche alla valorizzazione di tradizioni etniche, rivolta principalmente, nei primi del Novecento, al nuovo mercato degli immigrati nei grandi Stati occidentali (come gli Stati Uniti). Inizia dunque una fase nuova del rapporto tra la musica colta e quella tradizionale, che passa attraverso l’ascolto diretto.
Un luogo importante dove si può riscontrare una forte presenza del primitivismo in musica è l’ambiente di Parigi, innanzitutto con l’impressionismo, e poi con l’esperienza fauve. Estampes di Claude Debussy (1862-1918), le Chansons madécasses di Maurice Ravel (1875-1937), e soprattutto le opere di Igor Stravinskij (1882-1971) del periodo russo sono lavori che ben illustrano questa situazione; la Sagra della primavera rappresenta indubbiamente la consacrazione di un primitivismo musicale consapevole, che si attua mediante l’utilizzo di meccanismi compositivi ricalcati su quelli modulari e ossessivi dei rituali folklorici.
Anche nell’altro importante luogo musicale del primo Novecento, la Vienna espressionista, si può individuare una componente di tipo primitivista, ben evidente ad esempio nel trattamento della voce (che si muove in zone di confine tra parlato e cantato) e nell’uso peculiare degli strumenti (che producono sonorità al confine con il rumore).
Un momento fondamentale, nella prima metà del Novecento, nell’incontro tra la musica colta e le tradizioni musicali, si verifica nell’opera di Béla Bartók (1881-1945). Compositore, pianista e ricercatore ungherese, Bartók è il massimo rappresentante di una tendenza assai diffusa nell’Est europeo: quella cioè di creare una musica nazionale colta basandosi su elementi musicali della tradizione popolare locale. Si tratta, come è noto, di un’operazione che affonda le radici nell’idea romantica di scoperta e valorizzazione del patrimonio culturale del popolo, anche se nel Novecento l’utilizzo dei mezzi di registrazione consente una conoscenza e uno studio diretto dei fenomeni tradizionali impensabile in passato. Per Bartók la musica “altra” è quella contadina dell’Est; nei suoi scritti traccia anche una casistica delle modalità con le quali si può utilizzare questa musica nell’ambito della pratica compositiva, che vanno dalle semplici trascrizioni armonizzate fino a un utilizzo consapevole dei principi strutturali.
Tra i compositori delle generazioni successive, non mancheranno riferimenti costanti, più o meno marcati, alle tradizioni popolari o extraeuropee. Certamente balza all’occhio Olivier Messiaen, soprattutto per il suo interesse verso strutture ritmiche “altre”; ma anche le sonorità del Marteau sans Maître di Pierre Boulez vengono giustamente inscritte in un filone che, risalendo a Debussy, recepisce certe raffinate suggestioni sonore orientali.
In ambito italiano, un compositore che ha largamente utilizzato materiali di provenienza extracolta è Luciano Berio (1925-2003). Nell’ambito di una grande versatilità e di un interesse verso fenomeni musicali assai eterogenei, Berio mostra un’attenzione particolare alla musica di tradizione orale (spesso conosciuta tramite l’amico Roberto Leydi). Ricordiamo in particolare Folk Songs (undici brani di varia provenienza cuciti su misura per la voce di Cathy Berberian) e Questo vuol dire che (collage di situazioni musicali popolari che si avvale anche della presenza di autentici folksinger come Sandra Mantovani). Significativa anche l’esperienza di Coro, dove vengono utilizzati procedimenti strutturali delle polifonie e poliritmie africane desunte dalle analisi dell’etnomusicologo Simha Arom.
Nell’ambito dello sviluppo della musica occidentale e nei suoi momenti di collisione con le tradizioni musicali extraeuropee, vanno menzionati almeno due fenomeni che contribuiscono a introdurre meccanismi creativi indipendenti dal percorso della scrittura, e dunque nuove modalità creative che in molti casi presentano un rapporto privilegiato con la dimensione dell’oralità.
Innanzitutto il fenomeno del jazz – un universo sonoro già di per sé sincretico – che presenta situazioni originarie del continente nero con elaborazioni locali avvenute in America, e caratterizzato da una pratica fortemente segnata dall’improvvisazione; esso finirà per incontrarsi, in più casi, nelle sue punte più avanzate, con la sperimentazione compositiva d’avanguardia.
L’altro è rappresentato dall’utilizzo dei mezzi elettroacustici. Sviluppatisi a partire dagli anni Cinquanta, questi serviranno non solo – come evidenzia Karlheinz Stockhausen, compositore tedesco – per riprodurre e diffondere la musica preesistente, ma anche per crearne una ex novo. L’utilizzo della registrazione e della manipolazione del suono consente di recuperare meccanismi compositivi e comunicativi dell’oralità; si assiste infatti in più casi, grazie alle nuove tecnologie, al sorgere di un’oralità secondaria (o mediata) che utilizza valori sconosciuti al mondo della tradizione scritta.
Negli ultimi decenni del Novecento, soprattutto sotto la spinta dei fenomeni di globalizzazione, il quadro musicale conosce forti cambiamenti. Tutta l’ultima fase del secolo è caratterizzata da una perdita di centralità della tradizione colta occidentale a vantaggio di una situazione assai più articolata, dove emergono e prendono consistenza innumerevoli situazioni locali diffuse e conosciute tramite i media. Le nuove realtà musicali presentano non più un riferimento esplicito e antitetico a un asse privilegiato occidentale (come accadeva, ad esempio, nell’Ottocento durante lo sviluppo delle scuole nazionali, il cui riferimento era sempre la tradizione sinfonica tedesca), ma una propria e autonoma dignità, rispetto alla quale lo stesso Occidente colto finisce per diventare una tradizione “altra” ed esotica a suo modo. Basta menzionare certe pagine squisitamente “occidentali” di compositori come il giapponese Toru Takemitsu, o di nuovi compositori africani. La globalizzazione procede di pari passo con la contaminazione; l’idea di “confusione” di generi e stili (secondo la terminologia dell’antropologo Clifford Geertz) sostituisce quella dell’incontro e dell’interazione tra mondi dotati di una loro riconoscibile autonomia.
Nel frattempo il concetto stesso di opera musicale – già messo in discussione da tempo con l’apparizione di fenomeni come quello dell’alea – in molti casi si dissolve in approcci in cui si privilegia una prospettiva assai più larga e sfumata, in cui l’elemento sonoro “umanamente organizzato” si trova a interagire con elementi sonori animali e naturalistici. Basti pensare all’attenzione rivolta al paesaggio sonoro, inteso sia nell’accezione classica proposta da Raymond Murray Schafer (ovvero quella di un equivalente acustico del paesaggio visivo) sia nell’accezione di Kay Shelemay, che vede nel soundscape uno degli “etnorami” che compongono l’esperienza umana all’interno di un contesto culturale deterritorializzato.
Questa prospettiva genera dei rovesciamenti nel rapporto tra la musica colta e quella tradizionale. Da un lato, infatti, l’utilizzo di elementi di vari paesaggi sonori, oltre a creare situazioni “compositive” nuove (basti pensare al sound designer) riduce la centralità del ruolo del compositore. Dall’altro lato, sul fronte di chi si occupa scientificamente delle musiche “altre”, la nuova situazione ha fatto altresì cambiare di segno la concezione di ciò che significa documentare una tradizione etnica: si va sviluppando infatti la consapevolezza che qualunque registrazione o editing di una musica tradizionale comporti comunque un forte intervento di immaginazione creativa che non è più ascrivibile al livello neutro di una mera documentazione. Emblematica la posizione di un antropologo del suono come Steven Feld, per il quale la registrazione e la pubblicazione su disco di musica tradizionale (o di una soundscape documentation) in realtà è un lavoro vero e proprio di composizione musicale. In questo caso si vengono dunque a rovesciare i termini della questione e a considerare il mestiere creativo del compositore come funzionale a quello conoscitivo dell’etnomusicologo.