Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sulla fine del XVI secolo l’Europa incontra, per la prima volta, la musica dei popoli delle terre lontane che gli esploratori, i viaggiatori, i missionari, gli agenti commerciali, i naturalisti già avevano visitato e incominciato a far conoscere. Fino allora era stato il vicino Oriente, dalla Turchia alla Persia, ad alimentare il sentimento “esotico”: ora è la volta dei “selvaggi” delle Americhe. I missionari iberici, importando la musica colta religiosa europea, contribuiscono alla formazione di una musica coloniale in America centrale e meridionale.
Naturalmente gli Europei non ascoltano direttamente quelle musiche, ma le “traducono” dalle poche e sommarie notazioni che vengono pubblicate, le trovano “descritte” nelle cronache di feste e di riti, osservano i musicisti e i danzatori sulle incisioni, tutt’altro che antropologicamente fedeli, che accompagnano i resoconti di viaggi.
Le “trascrizioni” di musiche “esotiche” che appaiono in Europa nel Seicento sono, pur nella loro scarsa attendibilità, importanti testimonianze storiche e la loro pubblicazione costituisce il primo segno di un’attenzione che va formandosi per la musica di Paesi lontani e di popoli così “diversi”. Un’attenzione che via via andrà crescendo e approfondendosi nel secolo successivo.
Sono gli Indiani del Sud America i primi a vedere documentata la loro musica presso il pubblico europeo con cinque brevi canti, pubblicati dal missionario calvinista Jean de Léry (Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil), reduce, nel 1585, da una permanenza fra gli indiani Tupynambá del Brasile nord-occidentale.
Queste “trascrizioni” sono, naturalmente, sommarie e approssimative se giudicate secondo i principi della moderna etnomusicologia, ma certamente derivano da un buon ascolto diretto da parte di Jean de Léry, come ha dimostrato uno studio di Luiz Héitor Corrêa de Azevedo. Anche le illustrazioni che accompagnano la relazione di Jean de Léry offrono notevole ragione di interesse.
Il materiale brasiliano pubblicato da de Léry viene ripreso (e rimaneggiato), mezzo secolo dopo, da Marin Mersenne nella sua Harmonie universelle e lo riprenderà poi, 130 anni dopo, nel 1768, Jean-Jacques Rousseau, nel suo Dictionnaire de musique, alla tavola N, dedicata a esempi di musica popolare ed esotica.
Mersenne, nell’Harmonie universelle, pubblica anche una musica originale, ancora americana, ma questa volta del Nord America: una Danse des Sauvages du Canada, a lui riferita da un capitano del re che era stato nelle colonie francesi dell’America settentrionale. Ancora Rousseau ripubblicherà, nel suo Dictionnaire de musique, questa melodia.
Nel 1686 è Jean Chardin (o Sir John Chardin), un altro calvinista, prima commerciante di diamanti poi agente inglese, a pubblicare (Journal du voyage du Chevalier Chardin au Perse et aux Indes Orientales) una Chanson persane. Nel 1691, Simon de la Loubère inserisce una canzone siamese nella sua relazione d’un viaggio nel Siam (Du royaume de Siam).
Nell’opera di Simon de la Loubère troviamo anche interessanti e attendibili figure di strumenti musicali siamesi.
Questi primi, frammentari e occasionali incontri con la musica di altri continenti non producono conseguenze sulla musica europea. Nel secolo seguente, infatti, si svilupperà, nel teatro musicale, un diffuso gusto per situazioni e personaggi “esotici”, ma senza alcun riferimento nello stile musicale.
La diffusione della musica europea, colta e popolare, inizia nelle terre americane sotto il dominio spagnolo e portoghese quasi immediatamente dopo la conquista. A portare nelle colonie la musica popolare iberica sono gli stessi soldati prima, poi i primi coloni; la musica colta si diffonde, invece, con lo stabilirsi della Chiesa cattolica. Infatti, fin dal 1493, papa Alessandro VI aveva conferito alla Corona spagnola il diritto di fondare una Chiesa cattolica nelle nuove terre al di là dell’oceano.
Il clero e i monaci che pongono le loro sedi in America e avviano la conversione dei nativi utilizzano in modo intenso e sistematico la musica quale strumento di evangelizzazione. Le cronache ci dicono che sia gli indios, sia gli schiavi portati dall’Africa aderiscono con ardore alle pratiche musicali, dando vita a numerosi cori, operanti sia nelle missioni e nelle chiese di villaggio che presso le cattedrali delle città.
Per quanto ci è dato di sapere dai documenti del tempo l’adozione, da parte degli indios e dei neri della musica insegnata dai sacerdoti, dai monaci e dai maestri di coro spagnoli, e anche portoghesi, per la pratica religiosa produce effetti anche fuori dell’ambito propriamente rituale cattolico, con conseguenze interessanti di sincretismo fra i modi colti europei e le tradizioni musicali locali e africane.
Non c’è dubbio che la pratica musicale cattolica sia entrata, con i paralleli contatti con la musica popolare profana portata dai soldati e dai coloni e con la permanenza nativa, a connotare la nuova musica popolare coloniale.
Questa nuova produzione locale si sviluppa sia a opera di musicisti venuti dall’Europa che di musicisti locali. La “scoperta” della ricchezza di questo repertorio coloniale è relativamente recente e gli archivi ecclesiastici del Messico e del Perú in primo luogo, ma anche di altri Paesi latino-americani, potranno riservare altre interessanti sorprese.
Tra i musicisti americani o operanti in America nel XVII secolo, ad Antigua, Puebla, Città del Messico, e altrove sono da ricordare soprattutto Gaspar Fernandes, Juan Gutierréz de Padilla, Hernando Franco, Antonio de Salazar.
L’aspetto più interessante della musica iberico-coloniale che si sviluppa nel corso del Seicento è quello delle contaminazioni che si determinano fra i modelli musicali colti portati dall’Europa e le tradizioni locali e soprattutto africane. Abbiamo, infatti, composizioni religiose che, pur conservando i moduli propri della polifonia europea, utilizzano testi in lingua locale.
Scopo di queste composizioni, diffuse dai religiosi, non tanto nelle cattedrali quanto nelle missioni e nelle chiese di villaggio, era naturalmente quello di avvicinare le popolazioni indie al contenuto dei testi sacri, originariamente in latino.
A Hernando Franco, per esempio, è attribuita la composizione di un Salve Regina in lingua india: Dios itiazo nantizine. Il testo è una parafrasi dell’Ave Maria: “O Signora, amata genitrice, / sempre pura e vergine / intercedi per noi presso il tuo amato figlio Gesù Cristo / tu che se la più amata dall’Altissimo”.
Ancora più interessanti le contaminazioni fra i modelli europei e i modelli africani. Gli Africani portati nelle colonie sono stati, fin dai primi secoli della loro presenza nelle terre spagnole d’America, fra i più attivi musicisti, sia nei cori religiosi che nelle pratiche festive profane.
Sappiamo che a Città del Messico non soltanto i neri (giudicati migliori cantori degli indios) sono particolarmente richiesti nei cori della cattedrale, tanto da suscitare le proteste dei cori composti da indios, ma che numerose sono le piccole orchestre di ex schiavi, molto richieste in città per feste non religiose, anche dagli Spagnoli e dagli stessi indios inurbati.
Si forma, nelle colonie spagnole, un esteso repertorio, soprattutto di canti natalizi modellati sul villancico spagnolo, nel quale gli elementi africani sono evidenti, soprattutto per quanto riguarda i testi verbali. La musica, che naturalmente ci è pervenuta da fonti scritte, replica abbastanza fedelmente il modello del villancico iberico, cioè del canto natalizio popolare spagnolo, ma con alcuni tratti che fanno immaginare una realizzazione, nell’esecuzione a opera di cori neri, non proprio ortodossa secondo i canoni europei del tempo e con possibili caratteri africani. Si può anche immaginare la presenza, pur non prevista nella partitura, di strumenti a percussione.
Le composizioni natalizie coloniali per i neri sono definite, significativamente, guineos (da Guinea) e negritos. I testi ci ricordano subito gli spirituals che i neri creeranno, assai più tardi, nell’America settentrionale, in ambito culturale anglosassone.
Un Negrito a 4 voci composto da Gaspar Fernandez trasferisce in Guinea, cioè in Africa, la nascita di Gesù ed evoca, attorno alla sua culla, una vivace festa africana: “Felicitati con me, fratello Antonio,/ perché Gesù è nato in Guinea. / Chi lo ha generato? / Una giovane donna e un vecchio. / Corriamo tutti presso di lui, / portiamogli un abito e una cuffia. / Veglieremo su di lui / e tutti i neri danzeranno intorno”.