musical film
<mi̯ùuʃikl ...> locuz. sost. ingl., usata in it. al masch. – Nel corso del tempo il m. f. ha vissuto numerose mutazioni, sospinto da figure chiave quali Busby Berkeley, Stanley Donen, Fred Astaire, Gene Kelly, che hanno avuto il merito di applicare i loro talenti e intuizioni a un genere rivelatosi sempre più un contenitore in grado di accogliere suggestioni di ogni tipo, tanto da un punto di vista strettamente musicale quanto scenico o legato all’ambito del ballo. Il cinema contemporaneo, attento alle nuove forme espressive, ha a sua volta utilizzato il m. f. per contaminare forme e contenuti e proporre nuovi talenti postmoderni. Un esempio di questa tendenza è rappresentato dal regista australiano Baz Luhrman, autore di alcuni dei film di maggiore originalità dei primi due decenni del 21° sec., la gran parte dei quali costruiti rielaborando le regole del film musicale classico. In Moulin Rouge! (2001), dove coreografie alla B. Berkeley si fondono con i codici della videomusica, si è realizzato il momento più riuscito del cammino avanguardistico di Luhrman. Anche uno sperimentatore come Tim Burton ha compiuto una sortita nel campo del m. f. con Sweeney Todd - The demon barber of Fleet street (2007), in cui il suo gusto per il macabro si arricchisce di un’inedita quanto riuscita dimensione musicale. Interessanti sono stati anche i tentativi di portare sul grande schermo alcuni grandi successi di Broadway, come nel caso di Chicago (2002), Dreamgirls (2006) e Mamma Mia! (2008). Una delle operazioni più riuscite è stata inoltre quella di Across the universe (2007), melodramma musicale narrato attraverso le parole dei più grandi successi dei Beatles. Nello scenario musicale postmoderno, assume rilievo l’esperimento d’autore rappresentato da Dancer in the dark (2000), il crudo dramma musicale realizzato da Lars von Trier e interpretato dalla cantante islandese Bjork.