Musica
di Stefano Catucci
Nei primi anni del 21° sec. la vita musicale non ha conosciuto novità di rilievo rispetto al periodo immediatamente precedente. Si è assistito, semmai, all'espandersi e al consolidarsi di elementi che già a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. avevano contribuito a modificare le modalità di produzione, le categorie interpretative e le forme di ascolto della nuova m.: la frammentazione dei linguaggi e delle poetiche, la messa in discussione della centralità della tradizione occidentale colta, il riconoscimento accademico tributato al jazz e alla popular music, gli esperimenti di ibridazione culturale, la diffusione capillare di mezzi tecnologici ad alta efficienza e a basso costo. Sopravvive, di fatto, la distinzione dei 'generi' musicali, dei quali era stato illusorio annunciare la fine imminente. Il loro persistere si deve essenzialmente a ragioni organizzative e di mercato il cui peso non è stato diminuito, ma accresciuto dai nuovi sistemi della fruizione musicale tramite Internet, tanto che sono state introdotte nuove dizioni passe-partout - come crossover - per classificare ciò che non rientrava, a rigore, in nessuna delle categorie già note (come nel caso del crossover rock o del crossover trash). Le funzioni di ricerca dei principali cataloghi di m. on-line (per es., iTunes, particolarmente diffuso nel primo scorcio del 21° sec.) sono appunto organizzate per generi, con una divisione inevitabilmente rigida ma che corrisponde al modo in cui l'universo della m. viene comunemente non solo percepito, ma anche praticato.
L'ambito nel quale le frontiere tra i generi appaiono maggiormente minacciate è quello della sperimentazione elettronica. Qui, lo sviluppo di software eccezionalmente flessibili e in continuo aggiornamento ha in pochi anni rivoluzionato il panorama: da un lato, la manipolazione elettronica del suono non è più una prerogativa di pochi centri di ricerca istituzionali, ma è accessibile potenzialmente a tutti con un buon personal computer; dall'altro, il controllo del materiale musicale, parametro su cui si basava la distinzione fra composizione ingenua e rigorosa, è affidato quasi più alla competenza informatica che non al bagaglio della preparazione accademica, cosicché in questo ambito sembra avverarsi l'idea (preconizzata da B. Eno) che gran parte della produzione musicale più avanzata sarà opera di non musicisti, cioè di artisti privi di preparazione classica e spesso incapaci anche di leggere il pentagramma. L'accresciuto controllo informatico del materiale musicale ha ridimensionato la diffidenza verso questo tipo di pratiche dei musicisti di formazione accademica, i più giovani dei quali guardano ormai con interesse a ciò che proviene da quest'area 'non educata', si potrebbe dire, della sperimentazione elettroacustica. Un progetto avviato nel 2004 dalla London Sinfonietta, una delle orchestre più accreditate per l'esecuzione di m. contemporanea colta, appare sintomatico: un medesimo programma alterna brani storici delle avanguardie (per es., autori come J. Cage, K. Sockhausen, G. Ligeti), performances di giovani virtuosi del suono informatizzato provenienti dall'area dell'etichetta indipendente Warp Records (autori spesso noti con nickname come Aphex Twin, Squarepusher, Mira Calix), videoproiezioni degli stessi giovani artisti e loro m. trascritta per orchestra. Al di là dell'impatto mediatico del progetto - uno dei suoi effetti è stato quello di portare nelle sale da concerto di tutta Europa un pubblico giovane che di solito non le frequenta -, l'idea di tracciare una linea di continuità fra i 'padri' della sperimentazione elettroacustica e alcuni dei più irrequieti protagonisti della scena informatica giovanile non è priva di legittimità e conferma, a ogni modo, l'impressione che sia questo il terreno più permeabile all'effettivo incontro di esperienze musicali provenienti da luoghi d'origine antipodici.
Sul piano della riflessione teorica, la frammentazione dell'odierna realtà musicale si riflette nella convinzione ormai diffusa secondo la quale "la musicologia non ha il diritto di escludere a priori alcun genere musicale" (J.-J. Nattiez, Unità della musica... unità della musicologia?, in Enciclopedia della musica, 5° vol., 2005, p. 1200), e deve porsi l'obiettivo di costruire una "musicologia generale" dotata di "un certo numero di principi e di metodi comuni indipendentemente dall'oggetto, dall'epoca o dalla cultura di riferimento" (p. 1206). Di questa prospettiva di ricerca esistono già numerosi esempi, il più ambizioso e sistematico dei quali finora è appunto l'Enciclopedia della musica diretta da J.J. Nattiez, tradotta in più lingue e diffusa anche in versione on-line. I metodi adottati da questa sorta di 'metamusicologia' sono per lo più ripresi dalle indagini musicologiche tradizionali ed estesi, oltre che opportunamente adattati, a campi rimasti a lungo sotto una soglia scientifica d'osservazione.
Per quello che concerne i principi, invece, vanno delineandosi problemi e temi per una nuova estetica musicale ancora tutta da pensare e da scrivere, e che da più parti viene indicata come l'ambito di ricerca più urgente per gli anni a venire.
I maestri delle avanguardie novecentesche ancora attivi non sono sfuggiti alla necessità di confrontarsi con i mutamenti del contesto in cui operano. L. Berio, per es., scomparso nel 2003, aveva insistito pionieristicamente fin dagli anni Sessanta sulla legittima pluralità delle musiche. K. Stockhausen, oggi isolato in un magistrale misticismo, pensa la sua opera come prototipo delle correnti new age. P. Boulez, tuttora il più intransigente custode delle prerogative di una pratica colta della m., concede sporadiche aperture verso artisti di area pop, come F. Zappa, ma ritiene indispensabile riaffermare che fra livelli di consapevolezza, elaborazione, tecnica e riflessione esiste una gerarchia di valori non solo estetici, ma costitutivi della persona, se è vero che la m. è uno dei luoghi privilegiati del pensiero attraverso il quale il soggetto moderno può arrivare a formare sé stesso in modo autonomo rispetto ai modelli imposti dall'omologazione sociale. Proprio un'istanza di 'autonomia' della m. - autonomia dal mercato, dalle mode, dalla diffusione industriale del prodotto musicale, dunque aderenza a un'idea di m. come pensiero e come ricerca - è ciò che Boulez riafferma come prerogativa e responsabilità del compositore 'colto' a fronte degli standard globali imposti attraverso imprese multinazionali come la catena televisiva MTV (Music Television).
Di fronte a questo quadro, la voce musica si è fatta carico di compiti per così dire 'locali', non proiettati cioè su tendenze di ordine generale, ma rivolti a singoli settori che negli ultimi anni si sono consolidati e hanno acquisito un diritto di cittadinanza non episodico nel mondo della musica. Si è voluto dare spazio a pratiche e saperi ormai perfezionati (v. filologia musicale e prassi esecutive; paleografia musicale); aprire a parole chiave che guardano già a una nuova, incipiente estetica musicale (v. oltre: Improvvisazione); esaminare un fenomeno come l'hip hop (v. oltre), nato negli Stati Uniti ma esploso nell'ultimo decennio con innumerevoli varianti locali; restituire quasi una cronaca di quanto è avvenuto nel jazz, ambito che ha registrato negli ultimi anni una crescita proporzionale alla mobilità dei suoi confini di 'genere'; rilevare l'impatto concettuale e pratico che sulla m. hanno le nuove tecnologie (v. oltre: Musica elettroacustica, digitale e informatica, e Musica spettrale). Quanto all'area tradizionalmente definita colta, l'impossibilità di individuare poetiche unificanti costringe a seguire i compositori nei loro percorsi individuali, trattati nelle singole voci biografiche alle quali si rimanda.
di Luca Conti
Si definisce musica elettroacustica quella ottenuta con il ricorso alla tecnologia elettronica per riprendere, registrare, elaborare, riprodurre e diffondere il suono. Per definirne i tipi ci si basa anzitutto sulle macchine impiegate e si distinguono, di conseguenza, m. elettroacustica analogica e digitale. Nel primo caso, i segnali possono assumere, in un dato intervallo, infiniti valori, come quelli segnati dalla lancetta dei secondi di un orologio che si muove senza scatti; nel digitale, invece, i segnali possono assumere un numero finito di valori discreti, come indica una lancetta dei secondi che si muove a scatti.
La storia della m. elettroacustica è andata di pari passo con i progressi tecnologici che, a partire dagli anni Trenta del Novecento, hanno riguardato la produzione e la registrazione elettronica del suono, inizialmente analogica poi, a partire dagli anni Settanta, sempre più digitalizzata. Un'altra impostazione suddivide la m. elettroacustica in acusmatica - in greco akusmatikós indicava la consuetudine, propria di Pitagora, di fare lezione occultato dietro una tenda per non distrarre gli allievi con la sua presenza fisica -, fissata una volta per tutte su disparati supporti digitali o analogici, e in live electronics (elettronica dal vivo), nella quale i suoni sono generati, trasformati e spazializzati al momento dell'esecuzione da un computer, opzione resa possibile da macchine sufficientemente rapide da rendere trascurabili i tempi di elaborazione del suono.
La m. elettroacustica si sviluppò negli anni Cinquanta del Novecento grazie alla realizzazione del magnetofono a nastro magnetico (1935), un mezzo versatile e di buona qualità per effettuare registrazioni, riprodurle a diversa velocità ed effettuare montaggi. Attraverso il microfono fu possibile esplorare le sorgenti sonore più impercettibili e inconsuete (oggetti d'uso quotidiano) o tradizionali (strumenti musicali, musica preesistente ecc.). Nel 1948, P. Schaeffer concettualizzò la musique concrète: registrando il suono lo si astrae dal contesto di provenienza, lo si rende autonomo e lo si trasforma in un 'oggetto musicale' da trattare in vari modi, come montaggio, variazioni di velocità del nastro, chiusura del nastro ad anelli, registrazione su più macchine e spostamento da un altoparlante all'altro attraverso pan-pot (potenziometri panoramici) eccetera. Il 5 ottobre 1948 venne radiotrasmesso il Concert de bruits di Schaeffer; due anni dopo, lo stesso Schaeffer e P. Henry presentarono la Symphonie pour un homme seul. A Colonia, nel 1951 fu inaugurato lo Studio für Elektronische Musik della Westdeutscher Rundfunk. I compositori ivi operanti - tra gli altri, K. Stockhausen, H. Eimert, H. Pousseur, P. Gredinger - adottarono un approccio prettamente elettronico (elektronische Musik): lo Studie ii (1954) di Stockhausen, per es., è realizzato unicamente con la sovrapposizione di onde sinusoidali generate da oscillatori. Se per alcuni l'espressione musica elettronica viene a volte impiegata impropriamente per tutta la produzione elettroacustica, è pur vero che anche il suono 'concreto', trasformato in corrente elettrica dal microfono e registrato su un magnetofono, diviene in qualche modo elettronico. Non a caso, negli Stati Uniti, venne adottato un termine più generico, tape music, per designare qualsiasi musica registrata su nastro: a New York, dopo lo studio privato di L. e B. Barron (1948), presso la Columbia University venne aperto il Tape Music Studio (1951). In Italia, nel 1955, si inaugurò lo Studio di fonologia musicale della RAI di Milano, diretto da L. Berio e B. Maderna.
Probabilmente, il primo computer a produrre musica fu l'australiano CSIR Mk i (poi ribattezzato CSIRAC), nel 1950 o nel 1951. Nel 1957 anche M. Mathews sintetizzò suoni con il computer presso i Bell Telephone Laboratories: i lunghi tempi di lavorazione per produrre ciascun suono lo spinsero a realizzare software specifici, tanto che nella prima metà degli anni Sessanta Mathews e alcuni collaboratori scrissero una serie di programmi denominata Music. Negli Stati Uniti, H. Olson portò a termine per conto della RCA l'Electronic Music Synthesizer (1955), e L.A. Hiller Jr realizzò brani per strumenti tradizionali con il computer (Illiac suite, per quartetto d'archi, 1957). Negli anni Cinquanta, in Francia, I. Xenakis impiegò il computer per generare sequenze casuali di numeri (musica stocastica) per le sue composizioni strumentali. Nel frattempo, altri autori utilizzavano il computer come sorgente sonora (Composition for synthesizer, 1961, ed Ensemble for synthesizer, 1964, di M. Babbitt). In questo modo, poté svilupparsi un particolare filone della m. elettroacustica denominato musica informatica, o computer music, che comprende tutte quelle composizioni realizzate con l'ausilio del computer o generate da esso mediante procedimenti di sintesi sonora; nella sfera della m. informatica rientrano anche l'analisi, l'elaborazione, la registrazione e la riproduzione attraverso il computer. Tra gli autori più importanti, J. Chowning, J.-C. Risset, B. Truax.
La realizzazione di registratori con un numero sempre maggiore di tracce - dalle due della stereofonia, già negli anni Cinquanta, alle quattro (quadrifonia) negli anni Sessanta, fino alle 32 e anche alle 64 piste attuali - resero possibile la registrazione e il missaggio di altrettanti canali indipendenti. Di questa possibilità si avvalsero tanto gli studi di registrazione di musica commerciale quanto gli istituti di ricerca sperimentali. Chowning ideò un programma per creare spazi virtuali al di fuori della proiezione quadrifonica, per es. in Turenas (1972). Negli anni Sessanta vennero realizzate le più disparate esperienze che combinavano strumenti tradizionali, anche trattati elettronicamente, musica registrata, concreta ed elettronica. D'altronde, per la popular music divennero indispensabili le tecniche di sovraincisione e gli effetti elettronici: riverberi, distorsori, delay (riproduzione di un suono registrato con un determinato ritardo temporale), compressori, wah-wah (modifica graduale di tono tra acuti e bassi), e così via. Vennero messi in commercio i primi sintetizzatori portatili, tra cui il Minimoog, adottati da interpreti e compositori di varia estrazione. Con l'invenzione del microprocessore (1971) ebbe inizio la sintesi digitale del suono. Nel 1977 apparve il Prophet 5, il primo sintetizzatore polifonico, e poco dopo vennero effettuate le prime registrazioni multitraccia digitali, che eliminavano il fruscio del nastro analogico: fu il primo passo di un inarrestabile processo di digitalizzazione. Vennero prodotti campionatori - macchine in grado di registrare un suono, elaborarlo e riprodurlo a diverse altezze - sequencers (registratori digitali) e multiprocessori di effetti: una tecnologia non più appannaggio di grandi centri di ricerca e sperimentazione, ma alla portata di tutti con lo sviluppo dei personal computer. Un ulteriore passo si ebbe con la nascita nel 1983 del protocollo di comunicazione MIDI (Musical Instrument Digital Interface), che permette di mettere in connessione strumenti musicali elettronici di varia specie. Durante gli anni Ottanta si rese possibile l'elaborazione informatica del suono in tempo reale e il computer fece la sua comparsa nei concerti. Nel 1983 la Yamaha mise in commercio il DX-7, il primo sintetizzatore a modulazione di frequenza. I supporti digitali hanno soppiantato gradualmente quelli analogici: il CD (Compact Disc, 1982), il DAT (Digital Audio Tape, metà anni Ottanta), l'ADAT a 8 tracce (Alesis Digital Audio Tape, 1991), la DCC (Digital Compact Cassette, 1992), il MD (MiniDisc, 1992), fino ai più recenti DVD-Audio (1998) e Hi-MiniDisc (2004), hanno sostituito le bobine di nastro magnetico e la meno fedele, ma diffusissima, CC (Compact Cassette, 1963). Negli ultimi anni è cresciuta la circolazione di materiale audio sul web, con file in formato standard MPEG (Motion Pictures Experts Group, per es. MP3). Agli inizi del 21° sec. la digitalizzazione cerca di soddisfare simultaneamente due esigenze: ottenere un suono di alta qualità e ridurre la quantità di memoria occupata da un brano musicale.
di Fabrizio Gianuario
Universo artistico-culturale di origini afroamericane la cui articolazione comprende le quattro forme di espressione artistica del djing (o turntablism), del rap (o MCing), della breakdance e del writing (realizzazione di graffiti attraverso la tecnica dell'aerosol art). Come cultura di strada, nata nei sobborghi newyorkesi negli anni Settanta del 20° sec., l'hip hop nella sua essenza, dal suo linguaggio alle sue mode, sfugge a facili classificazioni in quanto alimentato continuamente da un contesto culturale urbano per sua natura refrattario a generalizzazioni (Bazin 1995).
In ambito musicale hip hop e rap hanno in pratica lo stesso significato, dal momento che i due termini sono comunemente usati come sinonimi. Ma mentre il termine hip hop include all'interno della sua definizione il rap, da intendersi come sottogenere di un movimento artistico più ampio, con il termine rap si definisce esclusivamente quella declinazione musicale dell'hip hop che prevede la presenza della voce all'interno di un determinato brano musicale. La caratteristica identificativa del rap è l'espressione di rime enunciate in uno stile di parlato marcatamente ritmico (denominato freestyle in ambito improvvisativo) su basi musicali costituite principalmente da breakbeats di basso e batteria (elementi ritmici isolati da un contesto sonoro originale o creati attraverso campionatori e batterie elettroniche) cui vengono spesso interpolati campioni estratti da motivi noti o già esistenti (da J. Brown ai Led Zeppelin, dalla musica pop alle sigle televisive). Gli attori principali di questo genere musicale sono i djs, cui si deve la nascita dell'hip hop, e gli MC (Masters of Ceremonies), anche noti come rappers.
Le origini dell'hip hop risalgono ai primi anni Settanta del 20° sec., quando alcuni djs iniziarono a suonare in feste improvvisate nei parchi, nelle scuole, in edifici abbandonati del Bronx e in alcuni locali di New York, sfidandosi attraverso la sperimentazione di nuove tecniche di missaggio dei dischi e l'emissione del volume sonoro generato dai propri sound systems (sistemi di amplificazione del suono trasportabili), introducendo inserti vocali sopra la musica per incitare i presenti. Attraverso l'impiego prima di uno e poi di due piatti (o turntable, giradischi, da cui turntablism), ripetevano soltanto il break di batteria di un brano musicale, in genere funky, assecondando così l'entusiasmo dei presenti nel ballare su frammenti sonori caratterizzati ritmicamente. Contestuale allo sviluppo musicale dell'hip hop è infatti la nascita della breakdance, danza acrobatica praticata dai b-boys (break boys), il cui stile è il frutto del sincretismo tra diverse forme di danza e alcune discipline atletiche e marziali, come la capoeira. Allo stesso tempo è stato proprio nei primi anni Settanta che il fenomeno del writing (o tagging, da tag, firma) si è sviluppato a opera di giovani precursori, come, per es., Taki 183, che hanno iniziato a segnare con le proprie firme stilizzate i muri e i vagoni della metropolitana newyorkese, sfidandosi in un confronto a distanza fondato sulla propria abilità artistica e sulla implicita capacità di conquista e trasformazione dello spazio urbano.
È a Kool Dj Herc (n. 1955), dj di origini giamaicane influenzato dal toasting (un modo di recitare parole su una base musicale), che viene riconosciuto il merito di aver tracciato la strada dei più importanti aspetti stilistici dell'hip hop, dall'uso dei breaks musicali al ruolo dato alla voce. Altri protagonisti degli inizi sono stati Grand Wizard Theodore, che ha scoperto lo scratch (suono-rumore che si ottiene facendo scorrere sul piatto, avanti e indietro, il disco con le mani), Grandmaster Flash (n. 1958), che ha perfezionato l'arte del djing attraverso l'impiego di diverse tecniche di missaggio dei dischi, e Afrika Bambaataa (n. 1957), cui si deve la fondazione nel 1974 della Zulu Nation, organizzazione impegnata nella diffusione su scala mondiale della cultura hip hop.
Come indicato da D. Toop (1991), risale al 1979 l'emergere con forza dell'hip hop a livello discografico mediante la pubblicazione del primo singolo rap dal titolo Rapper's delight, realizzato da The Sugarhill Gang, un progetto ideato dall'etichetta Sugarhill. Rapper's delight, brano costruito sulla base del break ritmico di Good times degli Chic, segnò la nascita del rap a livello commerciale e la presa di coscienza da parte del mondo dell'hip hop (che fino ad allora aveva diffuso la propria musica attraverso la distribuzione di mixtapes artigianali) della possibilità di avere accesso a un vasto mercato discografico. Sempre nel 1979 K. Blow (n. 1959) pubblicò per la major Mercury prima il brano Christmas rappin' e poi The breaks, il primo singolo rap a essere premiato con il disco d'oro per le vendite.
La prima metà degli anni Ottanta fu quindi guidata dai protagonisti della old school, che svilupparono le potenzialità dell'hip hop sia a livello musicale sia testuale. Come nel caso di The message di Grandmaster Flash & the Furious Five, il cui testo esprime il malessere sociale dei sobborghi newyorkesi, conferendo per la prima volta una dimensione politica a un brano rap in grado di imporsi nelle classifiche di vendita. Un evento di una certa rilevanza dal momento che, come indicato da D.F. Wallace e M. Costello (1990), gran parte dei testi del rap sono condizionati dalla natura competitiva e spesso autocelebrativa dell'hip hop. Come dimostrano i numerosi brani in cui i rappers cantano ed esaltano la propria bravura e il proprio successo, celebrando la ricchezza raggiunta con la propria musica.
Alla fine degli anni Ottanta il rap risultava ormai svincolato dalla sua originaria funzione di musica destinata ai parties per assolvere, come nel caso dei Public Enemy e poi di Krs-One (n. 1965), quella di strumento di espressione di istanze politiche, anche se coltivate all'interno della grande industria discografica. Un ruolo decisivo per l'evoluzione del rap spetta quindi ai Run DMC, duo newyorkese protagonista di una fusione tra rap e rock che, grazie alla collaborazione con gli Aerosmith per il brano Walk this way, nel 1986 ha permesso all'hip hop di entrare nel circuito televisivo di MTV. Oltre a LL Cool J (n. 1968), altro esponente del rap degli anni Ottanta, sono stati i Beastie Boys a imprimere una svolta irreversibile al genere: il gruppo newyorkese è infatti composto da tre bianchi che, fondendo rap, punk e rock con un forte atteggiamento ironico, hanno catapultato l'hip hop oltre i confini della cultura afroamericana e in testa alle classifiche di vendita della musica pop statunitense.
Gli anni Novanta hanno visto invece delinearsi una netta contrapposizione, a tratti conflittuale fino a diventare violenta, tra la East coast, con il suo epicentro a New York, e la West coast, con centro a Los Angeles. A Los Angeles in particolare si è imposto il gangsta-rap, un rap che ha trasportato in musica i violenti rapporti sociali che dominano la realtà urbana, in cui imperano le bande locali. NWA (autori del brano Fuck da police), Ice-T (n. 1958), Ice Cube (n. 1969), 2Pac (1971-1996), Dr. Dre (n. 1965), Snoop Dogg (n. 1972) sono stati tra i maggiori esponenti di questo filone dell'hip hop, caratterizzato dall'esplicita crudezza dei testi e da una straordinaria risposta commerciale, cui New York ha replicato con The Notorius B.I.G. (1972-1997) e con gruppi di diversa impostazione artistica, come i De La Soul e gli A Tribe Called Quest.
Tra le realtà più importanti degli anni Novanta figura il collettivo del Wu-Tang Clan che, dal disco di esordio Enter the Wu-Tang (1993), ha dominato la scena alternando a progetti solisti dei suoi membri grandi reunions del gruppo. E se da Los Angeles si è imposta la formazione latina dei Cypress Hill, Dj Shadow (n. 1973) si è invece reso protagonista di una rivalutazione dell'arte del djing, dell'hip hop musicale svincolato dalla dimensione vocale del rap. Ma gli anni Novanta sono stati anche il decennio della fusione tra jazz e hip hop (tra le realizzazioni spicca Jazzmatazz Vol. 1, 1993,di Guru) e del rap commerciale dei Fugees.
Il passaggio al 21° sec., caratterizzato da pop star come Eminem (n. 1972), ha poi consolidato il rap come uno dei generi maggiormente in grado di alimentare il mercato discografico statunitense e mondiale. Anche se proprio in questi anni sono emerse derive meno note dell'hip hop (tra le quali si è distinto l'Antipop Consortium), che si sono confrontate con settori minimalisti e glitch dell'elettronica. Dall'originario nucleo statunitense, l'hip hop si è inoltre esteso negli anni su scala mondiale, dando vita a realizzazioni alimentate da peculiari contesti culturali, sociali e politici. Come in Italia, dove il rap si è diffuso nei primi anni Novanta legandosi in modo particolare alla cultura e alla politica dei centri sociali, o in Francia, dove è diventato portavoce delle condizioni di eterogeneità e marginalità socioculturale delle banlieues.bibliografia
D.F. Wallace, M. Costello, Signifying rappers. Rap and race in the urban present, New York 1990 (trad. it. Il rap spiegato ai bianchi, Roma 2000).
D. Toop, Rap attack 2. African rap to global hip hop, London 1991 (trad. it. Rap. Storia di una musica nera, Torino 1992).
B. Cross, It's not about a salary…rap, race + resistance in Los Angeles, London 1993 (trad. it. Hip hop a Los Angeles, Milano 1998).
H. Bazin, La culture hip-hop, Paris 1995 (trad. it. Nardò-Lecce 1995).
P. Pacoda, Hip hop italiano, Torino 2000.
Improvvisazione
di Davide Sparti
Molte improvvisazioni musicali?
In epoca barocca, chi eseguiva musica lavorava raramente con una partitura codificata, ma si affidava per lo più a un repertorio di brani memorizzati integrati da un'improvvisazione intesa come capacità di arricchire lavori preesistenti, i cui temi e moduli metrici e armonici forniscono la struttura intorno alla quale si costruisce l'attività di variazione (v. filologia musicale e prassi esecutive). A partire dalla fine del Settecento, la partitura si fece più articolata, esplicita e direttiva per rispondere al concetto emergente di un'opera fissata in forma scritta ai fini della riproduzione: dato che l'esecuzione può aver luogo in assenza del suo compositore, occorre essere fedeli alla volontà di quest'ultimo (Dalhaus 1979). Sullo sfondo di questa nuova concezione, la composizione musicale di un testo annotato è stata separata da quella di improvvisazione, la quale viene ricondotta alla mera capacità di esibire destrezza tecnica e fantasia. L'improvvisazione, d'altra parte, rinvia a ciò che non si può vedere in anticipo e l'imprevisto rappresenta il tabù dominante di una cultura che, come quella occidentale, esalta il controllo, la previsione e la durata dei suoi prodotti: di qui anche il legame fra improvvisato e sprovveduto, nonché il giudizio negativo sulle attività svolte improvvisando (poco meditate, approssimative).
A partire dagli anni Cinquanta del Novecento una parte non trascurabile dei compositori d'avanguardia ha adottato un nuovo atteggiamento nei confronti della composizione (da premeditata a indeterminata e aleatoria), trasformando il ruolo dell'esecutore da impeccabile interprete di una partitura a performer, complice creativo del compositore. Ma più che di improvvisazione, in questi casi si è trattato di un ripensamento dello statuto irrevocabile dell'opera d'arte (e di una messa in discussione del ruolo univoco della partitura nel processo di riproduzione musicale), che ha assunto forma 'aperta'. Un accenno in questo contesto meritano le pratiche musicali 'improvvisate' non occidentali, studiate soprattutto dagli etnomusicologi (L'improvisation dans les musiques, 1987; In the corse of the performance, 1998). È noto il caso del gamelan, la musica per orchestra di percussioni dell'Indonesia, soprattutto quello di derivazione cortigiana diffuso nella parte centrale di Giava, il cui punto di partenza è dato dal balungan, ossatura di una melodia su cui si esercita il garap, ossia un trattamento variabile. Tuttavia, poiché non mirano all'originalità, ma al trattamento variato di un tema - ornamenti e abbellimenti sono peraltro rigidamente codificati -, si può concludere che nel caso del gamelan, o del rāga indiano, i musicisti implementano un complesso di pratiche per personalizzare un repertorio soggetto a essere espanso, condensato o riarrangiato sul momento, ma che tale musica non è generata dall'improvvisazione. È piuttosto il jazz a rappresentare il sito privilegiato per praticare l'improvvisazione nella sua forma più radicale.
L'improvvisazione nel jazz
Si può stabilire fino a che punto un materiale musicale è improvvisato in base al grado con cui le due funzioni della composizione e dell'esecuzione convergono nel tempo. Seguendo questo criterio, maggiore la prossimità e l'interdipendenza (ossia minore l'intervallo temporale), maggiore la giustificazione nel parlare di improvvisazione. Nel caso limite si ha coincidenza: si compone in tempo reale. Nella musica cosiddetta classica, invece, il momento della creazione e l'evento dell'esecuzione sono strutturalmente distinti, come anche, assai spesso, le due figure del compositore e dell'interprete. Più analiticamente, si ha improvvisazione quando vengono soddisfatte le seguenti condizioni.
Inseparabilità. - A differenza della creatività compositiva, che implica un lavoro mirato alla realizzazione di un prodotto, nell'improvvisazione il processo creativo e il prodotto occorrono contemporaneamente. Si crea musica 'in movimento', ossia mentre la si porta a termine, a differenza della creazione 'in riposo' della composizione. La traiettoria melodica di un assolo non è predeterminata, e se nell'analizzarlo ex post vi si riscontra una configurazione, questa non era già presente nella mente del jazzista come ideale in attesa di essere dispiegato o attualizzato. Il jazzista scopre dove andare attraverso l'assolo.
Originalità. - Ogni improvvisazione è (più o meno) differente dalle improvvisazioni precedenti. Il criterio dell'originalità comporta che tale differenza dipenda da un grado di indeterminatezza (se si desse l'opportunità di ripetere l'improvvisazione, il decorso potrebbe essere diverso) nonché dal potere di sorprendere, dalla capacità di spingersi al di là del già noto. La sorpresa, nel jazz, è solitamente definita attraverso caratteri che ne precludono l'effetto di paura: si tratta di un inatteso gradevole, ma talvolta le innovazioni possono risultare perturbanti. In definitiva, originalità significa non conoscere in anticipo l'esito dell'improvvisazione.
Situazionalità. - L'improvvisazione è un'attività estemporanea, che ha luogo qui e ora, senza avvalersi del beneficio delle prescrizioni della notazione come guida per la collocazione delle note.
Irreversibilità. - Chi compone, si è detto, crea 'in riposo', cosicché il tempo trova una propria reversibilità nei ripensamenti creativi (si può tornare indietro, rileggere e correggere, cancellare un passaggio non riuscito) e nell'elaborazione lenta. Chi improvvisa ha solo one go at it, senza possibilità di riscrittura o cancellazione; può solo agire e reagire alla luce di quello che suona, e ogni tentativo di revisione diventa esso stesso parte della musica. In sintesi, a differenza di un'opera composta, che si manifesta in una pluralità di esecuzioni, un'i. è un atto unico non iterabile. Da un punto di vista diacronico, in relazione alla sua storia di produzione, l'i. è una pratica a fase unica.
Creazione spontanea e creatività secondaria
Se la struttura sonora di una i. jazzistica non è progettata in anticipo, ma scoperta nel corso della performance, non bisogna trascurare il fatto che ogni jazzista rinvia, almeno implicitamente, a un insieme di presupposti, competenze, materiali e vincoli assunti nell'itinerario che lo ha reso capace di improvvisare (Berliner 1994). Per poter improvvisare, il jazzista solitamente impara un repertorio che comprende brani tradizionali di patrimonio pubblico, blues, songs o ballate scritte da songwriters di professione fra gli anni Venti e i primi anni Cinquanta del 20° sec., pezzi di jazz divenuti standards. Per ogni brano si ha poi una grammatica di base, data dalla definizione della tonalità e della scala di riferimento, dalla melodia, dalla sua struttura ritmica o dalla sequenza di accordi su cui è basato. Nell'improvvisare, il jazzista riprende, evoca e sviluppa un motivo esposto nel brano (improvvisazione motivica). E poiché il materiale comprende anche determinate formule e licks, frasi o segmenti di frasi elaborati in performances precedenti, non è improprio sostenere che, in aggiunta al motivo, l'improvvisazione si appoggia a formule memorizzate (improvvisazione formulare) che possono essere impiegate in modo ricorrente nel corso di differenti assoli. La prima tappa nella formazione di chi impara a improvvisare è centrata perciò sull'abilità pratico-imitativa di sfruttamento di un materiale tradizionale (di qui il termine creatività secondaria). La spontaneità dell'improvvisazione è paradossalmente il frutto di un lungo tirocinio e apprendistato.
D'altra parte, improvvisare significa anche fare qualcosa di nuovo o di unico (condizione di originalità). Se un jazzista che pretendesse di improvvisare ripetesse un suo assolo, per quanto riuscito e gradevole, sarebbe sanzionato. Ma quale rapporto intercorre fra originalità da un lato e ruolo della tradizione, dell'apprendimento dall'altro? In effetti non ci si limita ad adottare e adattare un idioma comune affinché diventi proprio. Ci si impegna in un esercizio riflessivo: si valuta dove ci si situa nella comunità degli improvvisatori, una comunità immaginaria che comprende non solo i musicisti con cui interagisco direttamente, ma anche i miei contemporanei e i miei predecessori. Rilevante, in definitiva, è la trasformazione e ricontestualizzazione di un corpo di testi sonori, la maniera in cui essi, mediante l'improvvisazione, vengono ripresi e 'fatti significare'.
La logica dell'improvvisazione
Mentre il compositore pianifica in ogni dettaglio la sua opera, il jazzista può cercare di guardare in avanti concentrandosi sulla battuta a venire, ma raramente sarà in grado di sapere esattamente cosa suonerà. E tuttavia il jazzista non procede alla cieca: può infatti guardare indietro a quello che ha suonato, e reagirvi, risituandolo e dandogli una forma nelle frasi successive. Sotto questo profilo chi improvvisa ha un atteggiamento non prospettivo, come quello del compositore, ma retrospettivo: suona su quello che ha appena suonato, lo connota e lo sviluppa, scoprendo il futuro via via che si delineano le conseguenze di quello che fa. Essendo l'improvvisazione irreversibile, lo sviluppo di un assolo può essere seguito, ricostruito a posteriori da chi suona o ascolta, non anticipato.
Si trova qui un'ulteriore caratteristica della condotta improvvisata, che si può denominare responsività: l'improvvisazione implica infatti qualità di ascolto, attenzione e capacità di esporsi alla musica in modo tale da rispondere creativamente a quello che accade o si fa accadere. Un calo di attenzione compromette non la capacità di suonare, ma la possibilità di improvvisare in modo generativo, reagendo con sensibilità e prontezza a quanto suonato. Oltre a quest'attenzione diffusa, un secondo presupposto dell'improvvisazione ha a che fare con la capacità di trarre implicazioni. Per improvvisare bisogna saper ascoltare quanto proposto dagli altri musicisti, ma anche elaborare quella sollecitazione in modo originale e distintivo, creando novità e tensione, senza collocarla all'interno di una serie paragonabile a un copione prestabilito (ogni suono abilita uno sviluppo, ma non lo predetermina come unica possibile mossa). Poiché il jazz è una musica praticata quasi sempre in gruppo, quanto detto può essere riferito a una unità collettiva (Monson 1996). Improvvisando, un musicista Ego, vincolato da quanto emerso musicalmente fino a quel momento, produce un atto musicale A che suscita delle sollecitazioni A1, A2…An; gli altri musicisti Alter1 e Alter2 (o lo stesso musicista Ego, che si sdoppia, rispondendo a quel suo atto) ne traggono una delle possibili implicazioni, determinando così un nuovo esito musicale. Se Ego ha espresso una certa frase, Alter può ripeterla a una maggiore velocità, estenderla, completarla (o meglio: completa ed estende la sua interpretazione di quella frase). Chi risponde al primo atto non lo fa perché quanto suonato sia stato necessariamente rivolto a un musicista in particolare, e nemmeno perché quell'atto musicale viene eseguito in modo da imporre una determinata reazione, ma risponde secondo un processo circolare che può essere chiamato di emergenza collaborativa, poiché scaturisce dall'interazione e conduce l'improvvisazione a un esito complessivo non prevedibile a partire dalle componenti individuali del gruppo. L'improvvisazione si dispiega così in modo endogeno e in direzioni che nessun singolo musicista è in grado di controllare integralmente. In questa logica, è la musica stessa, offrendo la materia prima attorno a cui la sensibilità del musicista si rivolge, a generare un'opportunità per estrarre la capacità di improvvisare.
bibliografia
C. Dalhaus, Was heisst Improvisation, in Improvisation und neue musik, hrsg. R. Brinkmann, Mainz 1979, pp. 9-23.
L'improvisation dans les musiques de tradition oral, éd. B. Lortat-Jacob, Paris 1987.
P. Berliner, Thinking in jazz: the infinite art of improvisation, Chicago 1994.
I. Monson, Saying something. Jazz improvisation and interaction, Chicago 1996.
In the course of the performance: studies in the world of musical improvisation, ed. B. Nettl, M. Russell, Chicago 1998.
D. Sparti, Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, Bologna 2005.
Musica spettrale
di Luca Conti
I primi a dedicarsi a questo tipo di ricerche con l'esplicita intenzione di farne uso per un approccio compositivo innovativo furono, negli anni Settanta del Novecento, alcuni autori francesi: oltre a Dufourt (n. 1943), G. Grisey (1946-1998), M. Lévinas (n. 1949) e T. Murail (n. 1947), i quali unirono le proprie esperienze nel gruppo L'Itinéraire, fondato nel 1973. In seguito, Dufourt, A. Bancquart (n. 1934) e Murail formarono il CRISS (Collectif de Recherche Instrumentale et de Synthèse Sonore, 1977-1980). Tra le opere più rappresentative di questi autori va ricordato il vasto ciclo Espaces acoustiques (1975-1985), sei brani per vari organici, e Vortex temporum (1994-1996), per orchestra da camera, di Grisey; Gondwana (1980) e Désintégrations (1983), per orchestra, di Murail; La Tempesta d'aprés Giorgione (1977), per otto strumentisti, di Dufourt.
Un'altra tendenza compositiva, che pure prese le mosse dall'analisi acustica del suono negli studi di musica elettronica, è rappresentata dal gruppo Feedback, fondato a Colonia nel 1970 da J. Fritsch (n. 1941), R. Gehlhaar (n. 1943) e D. Johnson (n. 1940), e costituito in prevalenza da ex allievi di K. Stockhausen (n. 1928), tra cui P. Eötvös (n. 1944) e M. Maiguashca (n. 1938). Tra le opere più rappresentative: Monodias e interludios (1984) di Maiguashca e Chinese opera (1986) di Eötvös. Gli spettralisti francesi hanno mostrato una particolare attenzione per lo studio del suono acustico, non priva di implicazioni socioculturali; nei loro scritti, infatti, essi rivendicano il perseguimento di una 'ecologia sonora' e di una politica della differenza timbrica - ciascun suono ha precipue qualità ed è pertanto insostituibile - che si vorrebbe estendere al contesto sociale. D'altronde, i componenti del gruppo Feedback hanno manifestato una preferenza per la produzione e l'imitazione di suoni elettronici.
Anche in Romania, nel corso degli anni Settanta, alcuni autori hanno posto al centro della loro riflessione l'analisi dello spettro sonoro. Alcuni di essi hanno tratto ispirazione dall'analisi acustica in etnomusicologia. Una tendenza più avanzata è rappresentata da I. Dumitrescu (n. 1944) e H. Radulescu (n. 1942). Quest'ultimo ha messo a punto, all'inizio degli anni Settanta, una teoria musicale imperniata sui 'plasmi sonori', complessi di frequenze generate sia elettronicamente sia con strumenti acustici: le altezze impiegate vengono considerate armonici di fondamentali teoriche (inudibili) estremamente basse. Una composizione emblematica di Radulescu è "infinite to be cannot be infinite, infinite anti-be could be infinite" (1976-1987), per quartetto d'archi e "viola da gamba immaginaria a 128 corde", come specifica l'autore stesso.
Nella m. spettrale, per utilizzare un suono come punto di partenza per la composizione, è necessario partire dalla teoria dei segnali e dall'uso di computer, con i quali è possibile indagare le caratteristiche fisiche del suono. Lo spettro, così analizzato e visualizzato attraverso spettrogrammi, può essere riprodotto su una scala più ampia attraverso strumenti musicali acustici e/o elettronici. Nel caso più semplice di quella che Grisey ha definito "sintesi strumentale", le principali componenti dello spettro vengono trascritte in notazione musicale tradizionale, anche con microtoni, e distribuite tra diversi strumenti: in tal modo, l'esecuzione dell'ensemble riproduce il profilo acustico del timbro preso inizialmente a campione. La distinzione fra timbro e armonia viene così quasi completamente a cadere, poiché l'analisi acustica mette in evidenza che ciascun timbro possiede già, di per sé, un contenuto armonico e viceversa. Più in generale, le ricerche degli spettralisti hanno posto l'accento sulla relatività dei tradizionali parametri sonori (timbro, altezza, intensità, armonia, ritmo ecc.), anche in rapporto all'ineludibile problema della percezione umana. Su questo punto Grisey è chiaro: "la percezione del timbro è una funzione della durata, dell'intensità, ecc. Si potrebbe proseguire all'infinito con l'elenco di queste interferenze. Ciò è dovuto al fatto che le nostre limitazioni percettive ci spingono a proiettare scale di parametri sulla continuità dei fenomeni" (1998, p. 294). Tra le altre opere merita di essere menzionato il ciclo Inner light (1973-1977) di J. Harvey (n. 1939), imperniato su una rigorosa scrittura seriale, ma che utilizza come materiale compositivo anche elementi sonori desunti dall'analisi acustica.
Per gli autori di m. spettrale, inoltre, l'analisi acustica costituisce una sorta di microscopio che permette di esaminare da vicino le caratteristiche fisiche del suono. Ciascun campione acustico viene scandagliato nelle sue componenti armoniche, per poi essere utilizzato come modello per una ricostruzione timbrica macroscopica distribuita tra più strumenti, oppure come materiale di partenza per ulteriori trasformazioni. Per es., la forma d'onda di un clarinetto, scomposta nelle sue componenti armoniche, può essere in qualche modo 'ricostruita' mediante un ensemble di strumenti ad arco, anche mediante l'uso di microtoni e tecniche esecutive particolari. Il concetto di m. spettrale non è stato applicato soltanto all'aspetto timbrico, ma l'analisi del suono ha portato in certi casi a ridefinire gli stessi aspetti formali della composizione.
Una delle più diffuse tecniche messe a punto dagli spettralisti è la già menzionata sintesi strumentale codificata da Grisey. Per es., in Périodes (1974), per sette strumenti, l'autore estrae il materiale armonico dell'accordo finale del brano dall'analisi timbrica di un Mi del trombone. È possibile anche, attraverso strumenti acustici, rievocare timbri realizzati elettronicamente. In alcune opere di Grisey e Murail vengono imitate, con gli strumenti, anche le modulazioni ad anello elettroniche, risolvendo il percorso sonoro in prolungate fasce cangianti.
Scrive Murail a proposito di Désintégrations (1983) per orchestra e nastro magnetico: "Tutto il materiale del pezzo (sia quello del nastro magnetico che quello dell'orchestra), le sue microforme, i suoi sistemi d'evoluzione, ha origine dalle analisi, dalle scomposizioni o dalle ricostruzioni artificiali degli spettri armonici o inarmonici. La maggior parte di questi spettri è di origine strumentale. In particolare, sono stati utilizzati i suoni gravi del pianoforte, degli ottoni e del violoncello" Murail indica quattro principali criteri di trattamento del materiale di partenza: 1) frazionamento (viene utilizzata soltanto una regione dello spettro); 2) filtraggio (alcune componenti dello spettro vengono enfatizzate o attenuate); 3) esplorazione spettrale (scomposizione di porzioni del campione sonoro e loro dislocazione temporale); 4) creazione di spettri inarmonici (mediante aggiunta o sottrazione di una frequenza o 'torsione' dello spettro).
L'influenza della m. spettrale sulle correnti musicali dell'ultimo scorcio del 20° sec. è stata notevole. Alle esperienze compiute a partire dagli anni Settanta hanno guardato autori di diverso orientamento, come K. Saariaho, F. Romitelli, M.-A. Dalbavie, M. Lindberg e P. Hurel.
bibliografia
T. Murail, La révolution des sons complexes, in Darmstädter Beiträge, 1980, pp. 77-92.
G. Grisey, Structuration des timbres dans la musique instrumentale, in Le timbre, métaphore pour la composition, éd. J.-B. Barrière, Ch.Borgois, Paris 1991, pp. 352-85.
G. Grisey, Musique: le devenir des sons, in Darmstäter Beiträger Neveu Musik, 1982, 19, pp. 16-23.
Vingt-cinq ans de création musicale contemporaine: l'itinéraire en temps réel, Paris 1998.
Quaderni della Civica Scuola di musica, giugno 2000, 15, 27, nr. monografico bilingue: Gérard Grisey.