Musica
Il cinema è stato sempre in qualche misura 'sonoro', malgrado la diffusione dell'espressione 'cinema muto', che andrebbe propriamente riferita all'assenza del parlato. A dispetto della sua presunta asemanticità, infatti, la m. ha svolto nel cinema tutte le funzioni della comunicazione acustica. Come nella pantomima essa ha preso il posto dei dialoghi facendosi 'declamazione', sostenendo ed esaltando la gestualità degli attori; come nel teatro ha tessuto una trama drammaturgica di volta in volta meramente funzionale (i rumori di scena) o più sostanzialmente interpretativa; così, nel cinema, ha 'giustificato' la bidimensionalità delle immagini sullo schermo dando spessore all'immaterialità, mentre nella scansione di una duplice temporalità, quella visiva e quella sonora, ha reso plausibile ‒ non reale ‒ quel complesso processo fantasmagorico che si definisce cinema.
Le origini della presenza musicale rispecchiano puntualmente la multiformità di un fenomeno popolare nato nelle fiere e nei caffè-concerto, che all'inizio del Novecento aveva trovato il suo luogo deputato, ossia le sale. Già in questa fase e attraverso la duplice concezione primigenia dello spettacolo cinematografico ‒ quella 'documentaria' dei fratelli Lumière e di Thomas A. Edison e quella 'imaginifica' di Georges Méliès ‒ la m. assunse con disinvoltura i connotati del contesto occasionale, essendo la proiezione cinematografica ancora un breve episodio fra i tanti. La natura fortemente eterogenea delle presenze musicali non sarebbe venuta meno neppure nel periodo di definitiva affermazione e diffusione del cinema. Al contrario, la nascita del lungometraggio a soggetto, la prima organizzazione su larga scala delle case di produzione, i perfezionamenti tecnici, il raffinamento linguistico e la presenza di temi più elevati, tratti da eventi storici di ogni epoca oppure dalla letteratura e dal teatro, con l'intento di coinvolgere un pubblico più colto e abbiente, ampliarono smisuratamente il ventaglio delle appropriazioni musicali. La tradizionale figura del pianista factotum non scomparve ma fu sempre più relegata nelle sale di terzo e quart'ordine e nei piccoli centri. Ai gradi superiori operavano invece piccoli complessi strumentali (tipicamente un duo formato da pianoforte e flauto o violino, oppure un trio di pianoforte, violino e violoncello, ma tutte le combinazioni erano buone), mentre le sale di lusso, veri e propri templi della cinematografia edificati in ogni grande città, potevano vantare un organo, oppure un'orchestra di venticinque e più elementi e un direttore stabile. Rimaneva la presenza di m. legate al gusto popolare ‒ ballabili, canzoni, marcette, m. e danze tradizionali ‒ ma vi si alternavano ineffabilmente, senza alcuna preoccupazione di coerenza stilistica, frammenti tratti dal più ampio repertorio operistico e sinfonico, con una particolare predilezione per l'Ottocento. Era il trionfo degli stereotipi, programmati dai responsabili musicali delle case di produzione nei cue sheets, indicazioni musicali riferite a ciascun rullo e distribuite assieme alla pellicola. Quegli stessi responsabili (fra i quali Ernö Rapée in America, Giuseppe Becce in Europa) avrebbero prodotto in modo autonomo un'ampia e fortunata letteratura musicale di repertori e di manuali rivolti a pianisti, organisti e direttori d'orchestra, contribuendo a determinare in modo decisivo i rudimentali modelli di una drammaturgia filmico-musicale applicata ben oltre l'avvento del sonoro.
La scelta di affidare a un compositore la realizzazione di una partitura ad hoc segnò l'emancipazione parziale o totale da questa prassi. In Russia il fenomeno coincise con la nascita del lungometraggio a soggetto (Sten′ka Razin, 1908, di Vladimir Romachkov, prodotto da Aleksandr O. Drankov, con m. di Michail M. Ippolitov-Ivanov), ma furono due eventi verificatisi qualche anno dopo, in Italia e negli Stati Uniti, a segnare un'epoca. Il concetto tutto europeo di film d'arte ‒ portatore di non pochi equivoci, specie sul versante musicale ‒ aveva trovato in Francia una singolare anticipazione già nel 1908 con L'assassinat du duc de Guise di André Calmettes e Charles Le Bargy, per il quale si chiese e ottenne il contributo musicale di Camille Saint-Saëns (una partitura per archi, pianoforte e armonium formata da un'introduzione e cinque scene), ma si realizzò in pieno nel 1914 con Cabiria diretto da Giovanni Pastrone e il sofferto contributo originale elaborato da Ildebrando Pizzetti: la Sinfonia del fuoco per baritono, coro e orchestra, a cui si aggiunsero le m. di repertorio selezionate da Manlio Mazza. Il film, di fatto il primo kolossal della storia del cinema, ottenne uno straordinario successo in tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti, ma le m. della versione originale furono scartate ‒ secondo la consuetudine, propria del cinema muto, di adattare al gusto delle diverse platee i contributi musicali ‒ e una nuova compilazione venne affidata a Joseph Carl Breil. Il secondo evento fu la proiezione di The birth of a nation (Nascita di una nazione) di David W. Griffith, avvenuta a Los Angeles un anno più tardi; l'opera che inaugurava l'epoca delle grandi produzioni hollywoodiane, del cinema come grande spettacolo, aveva un commento musicale in parte originale e in parte compilato ‒ a cura dello stesso Breil, in questo caso con la supervisione del regista ‒ ma comunque organizzato secondo un sistema più unitario, con ricorrenze tematiche ispirate al leitmotiv wagneriano. Su questa linea e fino all'avvento del sonoro si sarebbero collocati film realizzati dallo stesso Griffith, come Intolerance (1916), con m. di Breil, e Broken blossoms (1919; Giglio infranto), con m. composte da Louis F. Gottschalk, The iron horse (1924; Il cavallo d'acciaio) di John Ford, con m. di Rapée, The Volga boatman (1926; Il barcaiuolo del Volga) e The King of kings (1927; Il Re dei re), entrambi diretti da Cecil B. DeMille con m. di Hugo Riesenfeld, The wedding march (1927; Sinfonia nuziale) di Erich von Stroheim, con m. scritte da John S. Zamecnik.
L'avvento del sonoro aprì un acceso dibattito sulla 'vera' essenza del cinema ‒ da alcuni considerato 'arte muta' (v. muto e sonoro) ‒ ma non spostò l'indirizzo musicale di fondo, che nel raffinamento degli stereotipi ereditati dal periodo del muto sarebbe rimasto vincolato ancora per un trentennio alla magniloquenza del sinfonismo di matrice ottocentesca e alle commistioni stilistiche. Il potenziamento del cinema come industria implicò piuttosto un progressivo slittamento di funzioni, con il ridimensionamento delle figure del regista e del compositore (o responsabile musicale) e la crescita smisurata del ruolo del produttore, posto a capo di una struttura piramidale basata su una netta suddivisione dei compiti.
Dopo i nomi già ricordati a proposito del muto, la seconda generazione della 'scuola' hollywoodiana nacque pressappoco con l'avvento del sonoro e si può identificare con la figura del viennese Max Steiner, le cui m. racchiudono, nel bene e nel male, l'intera concezione hollywoodiana, segnata da un esplicito spirito caratterizzante ‒ capace di polarizzare l'attenzione dello spettatore, di rassicurarlo con la presenza ricorrente di un tema riconoscibile ‒ ma anche da una magniloquenza che va ben oltre la mera ridondanza. Infatti si tratta di un'ubiquità musicale che anticipa, interpreta, sottolinea, commenta con una partecipazione così attenta e puntigliosa da ricordare, paradossalmente, l'impossibile rifugio nel silenzio che aveva caratterizzato il cinema muto. A questa tendenza, talvolta ingentilita e alleggerita dall'influsso delle m. nate a Broadway, jazz compreso, avrebbe soggiaciuto anche Alfred Newman, che proprio da Broadway aveva preso le mosse, mentre tra gli anni Trenta e Quaranta una distinzione emergeva tra la nutrita schiera dei compositori di origine mitteleuropea (che contava, tra gli altri, Erich Wolfgang Korngold, Dimitri Tiomkin, Adolph Deutsch, Hugo Friedhofer, Franz Waxman, Miklós Rózsa) e i compositori statunitensi (Herbert Stothart, Frank Skinner, Victor Young, George Duning e David Raksin). E a riprova di una professionalità e di una standardizzazione senza paragone con le altre cinematografie, se da una parte Korngold, ex suddito dell'Impero austro-ungarico e allievo di A. von Zemlinsky, trasportò e conservò nel cinema americano buona parte di un patrimonio musicale nascente da G. Mahler e R. Strauss (nei film di Michael Curtiz dal 1935 al 1941 e con altri registi fino al 1947), dall'altra l'ucraino Tiomkin riuscì ad assumere ed epicizzare da maestro i modi country and western.In Europa, dal 1915 al 1935, si assistette invece a una diversificazione di tendenze riconducibile grosso modo a un duplice filone: il primo, di carattere spettacolare, orientato verso le grandi platee ma progressivamente alla ricerca di un linguaggio filmico-musicale specifico, finalmente emancipato dai modi del teatro filmato; il secondo, di indirizzo sperimentale, legato direttamente o indirettamente ai movimenti delle avanguardie artistiche. In realtà, soprattutto in Francia e in Germania, la separazione tra i due filoni non fu sempre così netta. È in ogni caso significativo che i cinéastes ‒ Abel Gance, Louis Delluc, Germaine Dulac, Marcel L'Herbier, Jean Epstein, Jean Renoir ‒ alla ricerca di un registro nobile ma al tempo stesso spettacolare e quindi popolare seppero trovare la giusta misura tra solennità e levità di scrittura in compositori di area colta come Arthur Honegger e Darius Milhaud, mentre Georges Auric perseverò in un registro più ironico e disincantato, di cui avrebbero fatto tesoro i compositori delle generazioni successive. Ciò si spiega, almeno in parte, con il clima di possibilismo e di rottura con le tradizioni instaurato in ogni ambito artistico dalle manifestazioni futuriste, dadaiste e surrealiste a cui questi compositori, aderenti al gruppo dei Sei, si erano parzialmente adeguati sotto la spinta di Jean Cocteau, sebbene qualche più equilibrata anticipazione 'neoclassica' si trovi in quegli stessi anni nei raffinati contributi di Jacques Ibert.
Se numerosi furono gli esperimenti di arte cinetica sconfinati nel cinema, nella m. e in numerosi tentativi di sintesi dei diversi linguaggi ‒ a opera di Viking Eggeling, Hans Richter, Walther Ruttmann tra il 1920 e il 1925 ‒, le realizzazioni più emblematiche del rapporto musica-cinema nel clima delle avanguardie si trovano in Entr'acte di René Clair su scenario di Francis Picabia e con musica di Erik Satie (come intermezzo cinematografico del balletto Rêlache) e in Le ballet mécanique di Fernand Léger con musica di George Antheil, entrambi del 1924. Seppure con mezzi e risultati diversi, le due opere manifestano il rifiuto di un cinema 'narrativo' con la conseguente negazione degli stereotipi cinemusicali ormai sedimentati. La metafisica inespressività della m. di Satie e la barbara meccanicità della partitura esclusivamente percussiva del giovane compositore americano si pongono senza soluzione di continuità fra m. assoluta e m. applicata rappresentando, soprattutto in Satie, un caso forse insuperato di coesione 'astratta' e indissolubile fra immagine e suono.Nell'ottica delle relazioni fra evoluzione dello spettacolo borghese e sperimentazione d'élite, un processo analogo si sviluppò in Germania, dove Becce, Wolfgang Zeller (Melodie der Welt, 1929, La melodia del mondo, di Ruttmann; Vampyr, 1931, di Carl Th. Dreyer), Paul Hindemith (Im Kampf mit den Berge, 1921, di Arnold Fanck; Vormittagsspuk, 1928; Gioco di cappelli, di H. Richter) e Edmund Meisel applicarono dapprima un metodo di elaborazione consapevole di materiali musicali preesistenti, per passare infine alla composizione interamente originale. Le principali tappe cinemusicali nell'Unione Sovietica sono tutte all'insegna di un'ideale e solenne unione fra le arti, a partire da Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) di Sergej M. Ejzenštejn, con m. di Nikolaj Krjukov, ingiustamente oscurate da quelle composte da Meisel per la prima berlinese del 1926, mentre nel 1929 Dmitrij D. Šostakovič debuttò nel cinema in modo memorabile con Novyj Vavilon (La nuova Babilonia) di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg. La modernità delle soluzioni adottate ‒ rinuncia alla centralità del melodismo, contrappunto audiovisivo, trasfigurazione delle citazioni musicali, netta diversificazione tra m. di livello interno ed esterno ‒ contribuì forse all'insuccesso del film, ancora muto, ma preparò la strada, sia pure indirettamente, a una delle realizzazioni più emblematiche non solo del cinema sovietico ma dell'intera epoca del sonoro: Aleksandr Nevskij (1938) di Ejzenštejn, con m. di Sergej S. Prokof′ev. Estraneo a qualsiasi limitazione produttiva e, nell'intento propagandistico antinazista, votato a divulgare una complessa sinestesia, Aleksandr Nevskij fa ricorso a tutte le procedure consuete e ne inaugura di nuove, giacché la m. nasce prima, durante e dopo le tappe fondamentali della lavorazione. Essa mantiene così una propria singolare autonomia di linguaggio anche in sede concertistica e per questo è portata a modello, ma si tratta di un equivoco. Avendo dovuto soggiacere in modo molto parziale alla prassi produttiva, paradossalmente non è m. per film come s'intende di norma.Se è vero che la rigida impostazione hollywoodiana non permetteva deviazioni dai cliché ben collaudati, a maggior ragione la figura di Bernard Herrmann è degna della massima considerazione per la svolta che determinò a partire dagli anni Quaranta. Egli avviò un processo di attualizzazione del linguaggio musicale considerato ancora esemplare, soprattutto per la stretta interazione che stabilisce fra componenti visive e sonore. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la diffusione del rock ‒ che comportò anche un fenomeno underground o 'di nicchia', il rock movie ‒ contribuì, sia pure indirettamente, a detronizzare i modelli musicali ottocenteschi. La m. per film, specie quella americana, scoprì la m. contemporanea e divulgò quelle contaminazioni che il Novecento di area colta aveva già acquisito: ragtime, blues, jazz, ritmi afroamericani e stilemi orientali, il rumorismo e perfino l'uso espressivo del silenzio, per Hollywood forse la conquista più insperata. Ne derivò una sorta di linguaggio cosmopolita dal quale i caratteri distintivi affiorano a seconda del contesto narrativo o del genere cinematografico. La personalità di compositori come Alex North, Elmer Bernstein, Henry Mancini, Jerry Goldsmith, John Williams, John Barry spicca in alcune circostanze irripetibili (A streetcar named desire, 1951, Un tram che si chiama desiderio, di Elia Kazan e North; The man with the golden arm, 1955, L'uomo dal braccio d'oro, di Otto Preminger e Bernstein; Planet of the apes, 1968, Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner e Goldsmith; Dances with wolves, 1990, Balla coi lupi, di Kevin Costner e Barry) e soprattutto nelle collaborazioni ricorrenti (Mancini con Blake Edwards; Williams con Steven Spielberg e George Lucas).
In Francia la nascita dello specialismo e il periodo di più felice fusione tra stilemi colti e popolari, ancora riconoscibili nel loro insieme come tipicamente francesi, portano il nome di Maurice Jaubert, interprete sensibilissimo del cinema di poesia di Jean Vigo, nonché autore di colonne sonore ‒ come quelle per i film di Carné ‒ che inaugurarono un linguaggio essenziale e a tratti intimista, costruito comunque 'per sottrazione', sempre garbatamente aderente al narrato, che sarebbe stato riscoperto più o meno consapevolmente da molti compositori dell'ultimo trentennio e recuperato come 'musica preesistente' da François Truffaut nei suoi film degli anni Settanta. Di una scuola francese si può ancora parlare a proposito dell'ungherese Joseph Kosma come anche di Georges van Parys (a partire da Sous les toits de Paris, 1930, Sotto i tetti di Parigi, di Clair), autore di partiture in cui è avvertibile il rifugio in una gergalità tutta parigina, incline al couplet affidato al bandoneon e simili, mentre è evidente, sia pure in misura diversa, in Georges Delerue, Francis Lai, Michel Legrand e soprattutto in Maurice Jarre la tendenza a un progressivo e funzionale sdoppiamento di personalità: secondo una prassi ben nota oltreoceano, essi infatti nascondono i connotati d'origine rivelandosi adatti tanto a un film diretto da Jean-Luc Godard quanto a una grande produzione firmata da David Lean.
In Italia il coinvolgimento dei compositori di area colta, inaugurato in maniera deludente con Cabiria, ebbe un solo risultato d'eccezione nello straordinario contributo di Pietro Mascagni a Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia, per prolungarsi quindi, con esiti negativi, nel cinema fascista (Acciaio, 1933, di Ruttmann, con m. composte da Gian Francesco Malipiero). Il mancato sviluppo di una scuola specifica favorì, per oltre un decennio, l'invasione nel cinema di musicisti spesso mediocri, provenienti in prevalenza dall'area della m. leggera. I giovani Zavattini, Rossellini e De Sica crebbero al suono di un cinema che nulla pretendeva dalla m. e solo così si può spiegare l'inadeguatezza dei contributi musicali nei film più rappresentativi del Neorealismo. Né la situazione migliorò nell'immediato dopoguerra, quando la Lux Film decise di rivolgersi a compositori blasonati, poiché se si determinò, com'è ovvio, un enorme salto di qualità dal punto di vista strettamente musicale, nella maggior parte dei casi mancò, o risultò ancora più compromessa, una forte coerente drammaturgia filmico-musicale, essendo questa del tutto estranea alla formazione e agli interessi di compositori come Antonio Veretti, Valentino Bucchi, Mario Zafred e Goffredo Petrassi. In estrema sintesi, il cinema d'autore degli anni Cinquanta e Sessanta, di Luchino Visconti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e quello immediatamente successivo di Elio Petri, Pietro Germi, Gillo Pontecorvo, Sergio Leone, Pier Paolo Pasolini, tra gli altri, venne tutto affidato a una ristretta schiera di prolifici artigiani (ben rappresentata da Giovanni Fusco e Carlo Rustichelli), rispetto ai quali si distinsero Nino Rota ed Ennio Morricone. Soprattutto al secondo va il merito di avere determinato originali e specifiche modalità d'approccio ai bisogni del cinema, con un linguaggio musicale dotato di peculiarità timbriche, ritmiche e melodiche intese a recuperare e valorizzare la tradizione anche più arcaica, ma adeguato a quel generalizzato grado di sincretismo già ricordato a proposito di altre importanti cinematografie.
Le cifre stilistiche intese come grado di riconoscibilità individuale ‒ riferite tanto al regista quanto al compositore ‒ appaiono dagli anni Ottanta di sempre più ardua individuazione, tanto che un'indagine storica condotta secondo scuole o aree produttive non avrebbe più senso, semmai ne abbia avuto. Compositori come il giapponese Takemitsu Tōru, l'inglese Michael Nyman, il canadese Howard Shore, l'italiano Franco Piersanti, l'inglese Patrick Doyle, il tedesco Hans Zimmer, per citare solo alcuni fra i nomi più rappresentativi del cinema contemporaneo, hanno ben poco in comune, eppure molti di essi, lavorando in contesti produttivi i più differenziati, hanno portato alle estreme conseguenze quella tendenza al polimorfismo cosmopolita che probabilmente scaturisce da un livellamento linguistico di natura cinematografica prima ancora che musicale.
La m. per film era e resta un'attività creativo-produttiva sospesa tra artigianato e industria e, tranne alcune eccezioni riconducibili al regista più che al compositore, se non prescinde completamente dall'aspetto teorico quanto meno lo precede. Ciò nonostante, fin dagli anni Dieci del Novecento si iniziò a interrogarsi sulle ragioni stesse della sua esistenza. L'argomentazione più diffusa ‒ e più scontata ‒ verteva sulla necessità di coprire il rumore del proiettore, mentre a motivi più profondi, di natura psicopercettiva, si appellarono scrittori come M. Gor′kij e più tardi R. Musil, il quale nel suo capolavoro, Der Mann ohne Eigenschaften (1930-1943), sottolineò l'aspetto spettrale, e quindi insostenibile, del movimento privo della componente sonora; filosofi come E. Bloch, che nel 1913 attribuì alla m. il compito di compensare l'assenza delle percezioni sensoriali comunemente associate al movimento agendo in loro vece; psicologi come Hugo Münsterberg, che, nell'elaborare uno dei primi tentativi di estetica cinematografica (The photoplay: a psychological study, 1916; trad. it. 1980) attribuì alla m. una funzione di rafforzamento del contesto emotivo, oltre a quella di alleviare la tensione e mantenere viva l'attenzione. I contributi successivi vennero soprattutto da autorevoli studiosi di area non esclusivamente cinematografica, come Béla Balázs, Rudolf Arnheim e Siegfried Kracauer, e si collocarono in un più ampio contesto teorico riguardante il cinema, ribadendo sostanzialmente le tesi preesistenti incentrate sulla funzionalità, ma interpretandole in termini di maggiore complessità estetica. Si riconobbe alla m. la capacità di conferire alla bidimensionalità dell'immagine filmica una 'profondità', una terza dimensione, altrimenti irrecuperabile (tesi ripresa da Pasolini in un breve scritto del 1973, richiestogli da Morricone per accompagnare un'antologia discografica).
In Italia una prima attenzione alla componente musicale si deve a Ricciotto Canudo, che vide (Manifesto delle sette arti, 1911) il binomio cinema-musica come luogo ideale di un'arte totale, una 'reincarnazione' tecnica del Gesamtkunstwerk wagneriano, e al musicologo Sebastiano Arturo Luciani, che a partire dal 1913 ipotizzò addirittura un ribaltamento dei rapporti, in cui il film si fa 'commento' della musica. Ma al di là di simili ipotesi, in quello che può essere considerato uno dei primi tentativi di riflessione estetica sul rapporto musica-cinema datato 1920 (Verso una nuova arte: il cinematografo) e ristampato con modifiche nel 1942 nella raccolta Il cinema e le arti, Luciani si dimostra osservatore tra i più attenti, per es. distinguendo tra funzione ritmica e funzione espressiva ‒ nozioni che equivalgono ai concetti odierni di accompagnamento (fatto di mere affinità ri-tmiche, fino al sincrono onomatopeico) e di commento, oppure interpretazione.
Dalla fine degli anni Venti il dibattito si accese, fondendosi con quello che accompagnava l'avvento del sonoro. Fra le tappe fondamentali occorre ricordare il 'Manifesto dell'asincronismo', firmato da Ejzenštejn con Vsevolod I. Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov (Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka, Il futuro del film sonoro. Rivendicazione, in "Žizn′ iskusstva", 1928, 32; trad. it. L'asincronismo in V.I. Pudovkin, La settima arte, a cura di U. Barbaro, 1961, pp. 131-35), che in un'ottica formalista introduce i concetti di contrappunto e montaggio sonoro ‒ ovvero di contrasto dialettico fra le componenti ‒ nonché i successivi scritti teorici di Ejzenštejn (per i quali v. Ejzenštejn, Sergej Michajlovič).Se il primo manuale dedicato a compositori e direttori d'orchestra del periodo del sonoro uscì nel 1935 (Music for the films), per opera del musicologo russo L.L. Sabaneev, il primo compendio tecnico, storico ed estetico, Film music, fu pubblicato un anno dopo da K. London che prese le distanze dall'uso e dall'abuso del leitmotiv, affrontando quello che sarebbe divenuto uno dei temi ricorrenti del dibattito successivo e già sottolineando come questa tecnica richiedesse sviluppi di ampio respiro e risultasse difficilmente adattabile alla frammentazione filmica. Dal secondo dopoguerra si registrò un notevole incremento di contributi teorici, a partire dalla monografia di Th.W. Adorno e H. Eisler Komposition für den Film (1969; trad. it. 1975), la cui risonanza risulta oggi sproporzionata rispetto ai suoi meriti reali; il bilancio critico ed estetico effettuato dai due autori appare infatti condizionato da una visione riduttiva del cinema e da riserve di matrice ideologica sull'apparato produttivo hollywoodiano. In senso più propriamente costruttivo la musicologia ha scoperto la m. per film con il saggio della polacca Z. Lissa Estetyka muzyki filmowej (1964), cui va il merito di avere posto su uno stesso piano di dignità e di attenzione analitica le componenti visive e sonore, secondo un principio di interattività da cui è ormai impossibile prescindere. In nome della contestualizzazione e alla ricerca di strumenti analitici specifici si sono mossi tutti i contributi successivi, tra cui quelli di R. Manvell e J. Huntley, G. Van Parys, K. Reisz, J.-R. Julien, O. Larère, M. Chion, C. Gorbman. A partire da un noto modello linguistico questi autori individuano, sia pure con numerosi distinguo, due livelli: m. diegetica (o altrimenti definita oggettiva; dello schermo; effettiva; reale; giustificata dall'immagine) e m. extradiegetica (o soggettiva; della fossa orchestrale; di commento; funzionale; non giustificata dall'immagine). Due contributi si sono staccati da questa bipartizione. Miceli (1982) ha proposto un modello basato su tre livelli: "interno" (equivalente a "diegetico", inteso come episodio apparentemente 'realistico', spesso dotato di ambiguità e tendente a nascondere il ruolo degli autori), "esterno" (corrispondente a quello "extradiegetico", in quanto momento di massima epifania degli autori) e "mediato" (o "metadiegetico", nel senso di mimesi, o di 'soggettiva sonora', identificabile, tipicamente, con la fantasia o con la memoria percettiva del personaggio, con conseguente latitanza degli autori). Analogamente, a metà degli anni Ottanta e dopo una prima proposta nascente da Z. Lissa ('parafrasi, polarizzazione e contrappunto'), H. Pauli (1981) ha avanzato una distinzione tra funzione "persuasiva", "sintattica" ed "ermeneutica". La necessità di un livello intermedio tra quello diegetico e quello extradiegetico è facilmente verificabile in film di ogni epoca ‒ anche del cinema 'muto' ‒ e trova pieno riscontro in quelle realizzazioni in cui, sia pure come eccezione alla prassi produttiva, la presenza musicale risulta prevista già in sede di sceneggiatura con compiti primari, dimostrando fra l'altro che l'importanza delle m. può prescindere dalla loro qualità, trattandosi piuttosto di un problema di legittimità e di necessità drammaturgiche.
Gli scritti teorici finalizzati all'apprendimento delle diverse tecniche (compositive, di registrazione, di montaggio, fra loro inscindibili) hanno trovato il terreno più fertile nel mercato editoriale statunitense, dove sono apparsi dal secondo dopoguerra oltre quindici testi, nessuno dei quali, però, per mano degli specialisti più affermati, a conferma dell'importante ruolo assunto dai collaboratori, ovvero dagli orchestratori, nella produzione cinematografica americana. Di contro, in Europa, dove prevale un artigianato più spiccatamente individualistico, scarseggiano le trattazioni specifiche (tra le poche eccezioni il testo di Morricone, Miceli 2001).
La definizione, la realizzazione e l'inserimento della m. in un film possono avvenire attraverso modalità diverse, riferibili principalmente alla prassi produttiva hollywoodiana e a quella europea. Negli Stati Uniti il compositore si limita, salvo rare eccezioni, a fornire degli abbozzi compositivi, detti sketches, che altri orchestreranno. Il complesso fa capo a un dipartimento musicale dotato di proprie attrezzature e di un rigido organigramma, in cui operano un music supervisor (responsabile generale e anello di congiunzione fra regista, compositore e produzione), un music consultant (chiamato a gestire l'uso di eventuali canzoni e, più in genere, di m. preesistente), uno o più orchestrators (coloro che di fatto realizzano le partiture definitive), i copysts (che acquisiscono il lavoro degli orchestratori e trascrivono la partitura e le parti orchestrali), un music librarian (organizzatore delle partiture in vista delle sessioni di registrazione), un film studio music executive (responsabile dei complessi aspetti tecnici legati alla registrazione) e un music editor (al quale è affidato il montaggio delle m. sulla pellicola), senza contare il consistente numero di collaboratori con specifiche mansioni amministrative, logistiche e tecniche ricavabile dai lunghi titoli di coda delle produzioni più ambiziose.
In Europa persistono invece una concezione più artigianale e una prassi molto meno dispendiosa. Il compositore, soprattutto se si tratta di uno specialista affermato, può essere l'artefice unico della colonna musicale ‒ per cui apparirà nei titoli di testa la dicitura: "musiche composte, orchestrate e dirette da …" ‒ oppure può essersi avvalso di collaboratori, che resteranno generalmente anonimi. In Italia un processo tipico coinvolge il direttore di produzione, al quale spetta la designazione del compositore nel caso in cui il regista non abbia prestigio e forza contrattuale sufficienti per imporre la propria scelta. L'editore musicale assume invece gli oneri di esecuzione e di registrazione e come tale, nel tentativo di ridurli, può influire negativamente sulla costituzione dell'organico strumentale richiesto dal compositore, soprattutto se questi non gode della piena fiducia del regista e del direttore di produzione. Il copista è un collaboratore autonomo e abituale del compositore, mentre l'ingegnere del suono è l'esecutore materiale del premissaggio, ovvero della registrazione delle m. realizzata in uno studio indipendente noleggiato allo scopo dall'editore musicale. Infine entra in scena il tecnico del montaggio-musica, il quale stabilisce sotto la guida del regista, non necessariamente alla presenza del compositore, il missaggio finale, ossia l'equilibrio fra dialoghi, effetti (rumori) e musica.
Le principali tappe del processo di lavorazione sono: a) collocazione e definizione delle presenze musicali; b) composizione delle partiture ‒ registrazione e premissaggio; c) montaggio delle m. sulla colonna sonora e missaggio finale. Per quanto riguarda la prima fase, la procedura più comune consiste nel fornire al compositore una copia di lavorazione su supporto video dotato di time code (marcatura elettronica del tempo trascorso espresso in ore, minuti, secondi, decimi di secondo) della pellicola già montata, oppure ancora in fase di montaggio. Il rapporto regista-compositore comporta una casistica troppo complessa per essere schematizzata, ma generalmente il regista, a disagio con la terminologia musicale (soprattutto in Italia), usa riferirsi a m. di repertorio o appartenenti ad altri film e nei casi più deprecabili, ma tutt'altro che rari, mostra al compositore una copia di lavorazione sulla quale ha già fatto montare m. preesistenti, condizionando e limitando così il potenziale propositivo e interpretativo del suo collaboratore. Nella seconda fase, una volta contrassegnati i punti d'ingresso e di uscita delle m., nonché la loro natura di massima, il compositore passa alla realizzazione delle partiture, che sottopone successivamente al regista, il più delle volte ricorrendo a esemplificazioni pianistiche o con l'ausilio di strumenti elettronici e informatici, che non restituiscono alcuni timbri, in particolare quelli degli strumenti etnici, impiegati sempre più frequentemente, come pure molte sfumature interpretative, ma soprattutto appiattiscono totalmente i rapporti dinamici e spaziali dell'insieme.
Nella fase di esecuzione e di registrazione dal vivo non si fa ricorso che di rado alla proiezione della pellicola che viene sostituita da un piccolo monitor posto accanto al leggìo direttoriale, dal momento che la concordanza temporale tra fotogrammi e m. avviene attraverso una scansione metronomica (detta click) udibile in cuffia da parte del direttore e degli strumentisti. La perfetta sincronizzazione oppure un'operazione correttiva potranno essere ottenute in fase di montaggio grazie a potenti software di postproduzione, capaci fra le altre cose di dilatare o contrarre un evento sonoro, purché già registrato con tecnica digitale ‒ senza influire sul timbro e sull'intonazione. Un caso a parte è rappresentato dal cosiddetto playback in cui un attore danza oppure finge di suonare uno strumento: in questo caso la m. dovrà essere composta e registrata in precedenza (prescore) e su quella il regista girerà la scena, ma non sono infrequenti i casi in cui il regista realizza la scena usando un brano preesistente, che per motivi diversi (spesso di copyright) non può essere mantenuto nel film, mentre il compositore dovrà fornire a posteriori un equivalente dell'originale utilizzato.L'ultima fase non coinvolge il compositore, il cui lavoro può dirsi concluso con il pre-missaggio: il montaggio delle m. sul film e il conseguente missaggio finale non lo riguardano infatti direttamente, anche se tali operazioni possono incidere sul frutto del suo lavoro. Il regista e il montatore potranno, per es., privilegiare i livelli sonori dei dialoghi e degli effetti a svantaggio della m., quella stessa che in precedenza, paradossalmente, poteva essere stata oggetto di ardua individuazione e discussione. Un esito ancora più deludente per il compositore, anch'esso molto frequente, può avvenire in precedenza, durante la fase di montaggio del film: se il regista decide di deviare dalla sceneggiatura e dal trattamento (storyboard) riducendo o tagliando del tutto determinate scene/sequenze, ne potranno conseguire gravi amputazioni e riadattamenti delle m., le quali ne soffriranno in proporzione diretta alla loro qualità. Sono questi i sintomi più evidenti di una sostanziale disparità di esigenze strutturali e perfino sintattiche tra linguaggio filmico e linguaggio musicale, alla quale i registi generalmente non prestano alcuna attenzione e che i compositori più esperti hanno in parte risolto affidandosi a una tecnica di scrittura più concisa, decisamente orientata verso la sintesi tematica, la microcellularità d'impianto modale, gli ostinati ritmici e le fasce accordali, utilizzabili ad libitum e come tali adattabili al più frammentario e irrispettoso dei contesti.
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